get in loser, we're going trekking

yale + pers

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    newhaven cedric edward george stephen hilton iv
    yalehilton
    Non ci fu alcun preambolo, fra il sonno e la veglia. Yale Hilton, la schiena madida di sudore ed i corti capelli bruni appiccicati alla fronte, spalancò gli occhi sul soffitto della sua camera sentendosi il cuore in gola ed un ronzio fastidioso alle orecchie, la medesima opprimente sensazione di chi avesse appena attraversato un tunnel sotto terra; boccheggiò aria calda, la pelle febbricitante ed umida a contatto con le fresche lenzuola azzurre. Una mano a comprimere il petto a rimbalzare di fiati spasmodici e battiti frenetici. Si svegliava spesso in quelle condizioni, ed avrebbe dovuto farci l’abitudine, ma ogni fottuta volta era il terrore primordiale dell’uomo quando l’ultima fiaccola si spegneva ad un soffio di vento troppo audace. Aprì la bocca e la richiuse, la gola secca e le labbra aride. Si trascinò a sedere poggiando la schiena alla testata del letto, sollevando il palmo sinistro per morderlo fra i denti ed impedirsi i mugugni istintivi che gli solleticavano la lingua.
    Non aveva avuto alcun incubo, Yale. I suoi sonni erano fatti di duro e freddo nulla, e definirli incubi sarebbe stato esagerato quanto sminuente: erano qualcosa di più, e qualcosa di meno. Lo torturavano come una carezza sempre nello stesso punto, per anni ed ere, a consumare malgrado il tocco delicato e gentile – l’ennesima puttanata della quale sapeva di non potersi lamentare: c’era chi se la viveva peggio, quella vita.
    Non che le sventure degli altri riuscissero a far sentire meglio l’egoista, meschino, Yale Hilton IV, ma perlomeno gli impedivano di far la primadonna svegliando il resto della casa: i cazzi di Yale, metaforici e fisici, erano cazzi di Yale. Difficile che l’Hilton si lamentasse di qualcosa che lo turbasse realmente; impossibile che Yale, volto grave e labbra curvate in un broncio severo, ammettesse ad alta voce di avere qualcosa che non andasse: poteva dolersi per ore del mal di schiena o l’assenza di super alcolici in casa, poteva sorridere da una tazza di tè (corretto.) concedendo ai suoi interlocutori di non voler più di tanto esistere, ma le sue verità erano lungi dall’essere definite schiettezza – non significava che fossero menzogne. Deglutì amaro, sentendo sulla lingua ed il palato il sapore stantio dell’alcool. Allungò il braccio verso il comodino, sbloccando il telefono per controllare l’ora: troppo presto o troppo tardi, a seconda delle scuole di pensiero. Cercò di ignorare come le dita, nel buio della stanza, tremassero; finse di non accorgersi di come respirare fosse un peso, più che un sollievo, mentre componeva per inerzia il numero di Shiloh Abbott. Appoggiò il cellulare sulle gambe, il capo chino ad osservare l’icona verde della chiamata effettuata. Lo fece squillare finchè non partì la segreteria, cercando di regolare i respiri con gli squilli: non funzionò. Un secco colpo di tosse, e Yale rotolò per terra strisciando fino al piano doccia vicino al letto, abbandonando il telefono poco distante così da poter tenere sotto controllo eventuali chiamate della Abbott – dubitava ne sarebbero giunte: Shiloh non aveva preso bene le sue ultime, costruttive, critiche all’ultimo plot della sua nuova fanfiction. O forse stava semplicemente dormendo: mai l’Hilton, come prima opzione, sceglieva quella meno paranoica ed insicura; neanche in un secondo momento, pur stringendosi nelle spalle e fingendo, riusciva a convincersi che la risposta potesse non avere nulla a che fare con lui. Megalomane e narcisista, e sempre nel più sadico e peggior modo possibile. Ingoiò ancora aria e saliva, alzando faticosamente un braccio per arrivare al rubinetto dell’acqua.
    Odiava, le notti così. Quelle in cui la pelle pareva volersi staccare e nascondersi, ed il vuoto nel costato consumava ossa e muscoli come un parassita interno. Odiava quel non avere nulla che diveniva tutto e niente: un gelido ed immobile strato di brina che faticava a sciogliersi al primo sole, inoffensivo fino a quando l’automobile non si schiantava sul vialetto. Si sentiva bollente, e non nella lusinghiera e simpatica maniera che gli veniva affibbiata dalle testate giornalistiche internazionali – era caldo afoso, caldo torrido. Caldo e basta, una febbre discontinua nella e della testa. «dio sibilò roco, conscio che non ci fosse alcun Dio cui appellarsi. Chiuse gli occhi lasciando che l’acqua gelida anestetizzasse pelle e odori, ancora vestito con gli abiti leggeri che indossava per la notte – un comportamento assunto solo di recente, e solo dall’inizio del reality, perché altrimenti non s’infilava in un pigiama da almeno dieci anni. Non che i camera-man, i quali non potevano filmare né nelle stanze né all’interno dei bagni, fossero un problema per Yale, ma si conosceva abbastanza da sapere quanto distratto fosse, e voleva evitare di incappare nei cugini mentre nel cuore della notte, nudo e ubriaco, passeggiava per casa canticchiando Help dei Beatles. Vorrei dire che non fosse mai successo, ma Rosario smentirebbe. Chiuse il rubinetto rimanendo nel piatto della doccia, la schiena contro le mattonelle e la fronte sulle ginocchia, cercando di aggrapparsi alla concretezza della parete per tenersi ancorato alla realtà. Non avrebbe dovuto essere così difficile. Idealmente, razionalmente, logicamente, e con tutta quella parte di cervello che fingeva di non possedere ed ignorava quando scomoda, lo sapeva che non fosse così difficile – ma poi c’era l’istinto, l’irrazionale, l’assurdo. C’era tutto ciò che rendeva Yale Hilton, Yale Hilton, un disastroso ed auto distruttivo uragano di apatia ed eccitazione data da droghe, alcool, e quel sempre presente sprezzo del pericolo di chi, di vivere o morire, se ne sbatteva un po’ il cazzo. Rimase ad ascoltare il suono delle gocce sulla ceramica cercando melodie inesistenti - tutto pur di non fottutamente pensare; ci metteva meno del dovuto, nei giorni antecedenti o successivi la luna piena, a perdere la costante guerra intrattenuta con se stesso. A perdere la testa. In momenti come quello, lunghi ed appiccicosi come fili di caramello fra pollice ed indice, Yale si rendeva conto di quanto fosse complesso sopravvivere: finiva per domandarsi a quale prezzo, per quale scopo; i pensieri si trascinavano l’uno sull’altro calpestandosi ed accavallandosi, finendo sempre nel medesimo, affascinante, buco nero. Non era mai stato un amante della fisica, ma si era sempre trovato ironicamente affine alla regione spaziotemporale definita dal relativismo Buco Nero: seducente dall’esterno, lento e viscoso come lava nel suo esistere, ed al suo interno a nulla era permesso esistere. Attirava tutto e non lasciava vivere un cazzo di niente.
    Che assurda coincidenza, uh. Strinse l’interno della guancia fra i denti finchè il sangue non si mescolò alla saliva e all’acqua, e quando ancora non fu abbastanza, piantò le corte unghie della mano destra nella coscia, strisciando piano nella carne e lasciando scie pallide e rosee. Il mondo, quei gesti lì, non li capiva e li criticava; fingeva di comprenderli e li biasimava. Chi non ci fosse stato dentro, almeno una volta, non avrebbe mai potuto realmente comprenderne le ragioni – che erano impossibili da spiegare, esplicabili solo nell’essere vissute. Era liberatorio. Era confortante. Era un continuo ricordare a se stessi di essere carne e sangue e battito pulsante. Strizzò i capelli, passò una mano ancora tremante fra le ciocche umide.
    E di scatto come s’era accasciato, si alzò in piedi. Diversi terapeuti, tutti chiamati in causa da La Madre, avevano ipotizzato che l’Hilton soffrisse di bipolarità, incapaci di credere che un umore potesse cambiare così rapidamente da stato depressivo a iper eccitazione. Quel che non sapevano di Yale, i medici dagli occhiali sottili ed il naso aquilino, era che il pendolo della sua vita, citando un vecchio filosofo, oscillava fra dolore e droga. Quando non era depresso, era solitamente così fatto da non ricordare più di avere un paio di piedi – figurarsi immaginare un’intera vita davanti. E quando non era fatto, Yale tornava semplicemente …Yale, che uno stravagante ragazzo sopra le righe lo era sempre stato. Esagerato in ogni situazione, in ogni contesto; al limite del tollerabile, e forse un poco oltre.
    Asciugò i capelli con il lenzuolo, togliendosi gli abiti bagnati per indossarne di asciutti. Quasi pianse di frustrazione nel cercare di allacciare il bottone dei pantaloni, con le dita a vibrare ed il petto in fiamme; evitò la camicia per quel motivo, preferendo una maglia leggera poco opportuna in quel concludersi d’estate. Preferiva l’ipotermia a quel febbricitante, nauseante, calore.
    Doveva fare qualcosa.
    Cosa.
    Qualcosa.
    Cosa.
    Stava iperventilando. Non aveva bisogno di alcun dottor Commons per sapere di essere nel pieno di una Crisi – e non gli serviva ad un cazzo saperlo, quand’era in quelle condizioni.
    Cosa.
    Qualcosa. Si avviò verso la porta, ricordandosi solo con la mano già stretta alla maniglia delle video camere. Gli ammonimenti de La Madre gli strozzarono, se possibile, ancor più il fiato in gola: mai, Yale, avrebbe voluto farsi vedere in quelle condizioni dai cugini, ma quel particolare terrore era un genere diverso di paura. Era un timore intrecciato a nervi e muscoli che si portava appresso dall’infanzia, legato ad ogni Crucio che io davvero non vorrei, ma devo: lo capisci, Yale?. Sì, lo capiva. Ingoiò a forza un sorriso che non gli apparteneva, stringendo i pugni lungo i fianchi fino a vibrare come un diapason: la soluzione è semplice, Yale; la conosci. Ma era migliore, di così.
    Era migliore. Indietreggiò fino a trovarsi con la schiena verso la finestra, trovando nel vetro la sua via di fuga: non era certo la prima volta che un Hilton scappava da una strada secondaria. Quelli come loro, le vie, se le creavano un po’ dove gli andava. Non era nelle condizioni di usare la magia, e cresciuto principalmente nel mondo babbano, non si preoccupò affatto di prendere la bacchetta; si issò fuori dalla sua stanza, evitando di scivolare dalle pareti a causa dei palmi sudati puntellando i piedi sulla grondaia. Scese cauto e silenzioso, anni di allenamento alle spalle; l’aria fresca liquidò un poco della marea negli occhi blu dell’Hilton, ma non abbastanza da non fargli desiderare di gridare fino a perdere voce e polmoni.
    Scivolò nell’ombra fino alla dépendance nell’area ovest del giardino, acquistando abbastanza se stesso da smettere di tremare come un calorifero mal calibrato. Avrebbe potuto bussare, ma non era nella sua indole - senza contare che fosse abbastanza certo sarebbe stato ignorato, sempre che ci fosse stato qualcuno. Se avesse potuto, se ne fosse stato in grado, avrebbe bussato alla porta di Harvard, o di Penn; perfino Prince e Darth sarebbero stati un’alternativa più sensata, ma non c’era nulla nella vita di Yale che avesse un briciolo di senso – e non voleva affrontare inevitabili discussioni, le occhiate preoccupate. Era infame, l’Hilton, ma non al punto di mettere intenzionalmente in difficoltà chi avrebbe voluto ma non poteva gestirlo. Ecco perché - «andiamo» secco, ruvido, di chi pareva non parlare da giorni ed invece non aveva mai smesso di farlo. Riuscì perfino a sorridere, se pur per le cause sbagliate: normalmente la canna lucida di una semi automatica non sarebbe stata divertente, ma Yale un po’ ci aveva sperato davvero che Daveth premesse il grilletto. Aveva immaginato che Soldato Ryan avrebbe sentito i suoi tentativi di introdursi in casa, quindi non si era affatto stupito di trovarlo sveglio e con un’arma già puntata contro il proprio petto; Yale dedusse anche, dalle spalle rilassate di Daveth Gallagher, che l’altro sapesse perfettamente di chi si trattava, ma ciò non l’aveva fermato dal metter mano all’artiglieria. «andiamo» ripetè, circumnavigandolo per raggiungere l’armadio. Ne evitò lo sguardo per inerzia, per mera abitudine, immergendo le mani nei vestiti e lanciandogli indumenti a caso. Quando si trovò senza più nulla da fare, costrinse i pugni in tasca ed iniziò a passeggiare nervosamente da un lato all’altro della camera, troppo concentrato a non svenire per preoccuparsi di come potesse apparire dall’esterno.
    Doveva fare qualcosa.
    Cosa.
    Forse era solo in astinenza. Forse era solo claustrofobico. Non riusciva a pensare, Yale Hilton, lanciato com’era nella sfera primitiva del attacca o fuggi, dove da attaccare aveva solo se stesso.
    E allora fuggi.
    «guidi tu» Non attese neanche che fosse completamente vestito, prima di scagliarsi in direzione del Garage. Dall’interno della casa avrebbero sentito sia la macchina che il cancello, ma in quel momento non gliene poteva importare di meno – ci avrebbe pensato il giorno dopo, la vita dopo; avrebbe lasciato intendere ambiguità fraintendibili così che suo fratello ed i cugini, nonché i telespettatori, potessero scegliere come avesse impegnato la nottata: alcool? Spaccio? Droghe? Una nuotata? Stava andando a rimorchiare? Non lo toccava; avrebbe lasciato che fossero loro a scegliere per lui. Aprì l’armadietto delle chiavi delle automobili, lanciando poi una delle chiavi distrattamente alle proprie spalle. «dove?» «fuori» finse che la propria voce non fosse soffocata e assente, le dita a stropicciare i corti peli scuri della barba. Si accasciò all’interno dell’auto occupando interamente i sedili posteriori, una gamba piegata e l’altra abbandonata a terra. Si permise di chiudere gli occhi; nel piccolo abitacolo, Yale Hilton si permise d’esistere a se stesso, trovando conforto nel profumo della pelle e della benzina. Il rumore del motore placò l’incessante tachicardia, rendendogli più semplice sollevare le palpebre e sostenere il peso delle iridi verdi dallo specchietto retrovisore. «dove?»
    In un locale. In un negozio di liquori. «fuori» umettò le labbra, troppo stanco e vuoto per trovare il briciolo di decenza con cui odiarsi o odiarlo.
    Ovunque. Socchiuse la bocca per dirlo, per dire qualcosa, ma prima di mettersi a tacere con il palmo mordicchiato fra i denti, l’unico suono che riuscì ad emettere fu un sospiro stremato e infantile. Non era la prima volta che Yale stava male da quando Daveth lavorava per lui, ma non era mai stato così: era capitato che l’Hilton lo chiamasse, da una stanza all’altra, per dirgli che volesse fare un salto al mcdrive più vicino; che si infilasse nella stanza dove il biondo giocava a poker con Rosario, e con la testa poggiata allo schienale del divano rimanesse ad ascoltare il suono delle carte, e le imprecazioni in spagnolo, finchè non si addormentava; era capitato che sentisse il bisogno, Yale, di colmare quel vuoto riempiendolo di vite altrui: interrompeva qualunque cosa stesse facendo l’altro, ed iniziava a tempestarlo di domande casuali, dal colore preferito alla prima citazione che gli venisse in mente, dal suo primo animale domestico a cosa avrebbe voluto fare da grande. Nei giorni particolarmente auto lesionisti, s’imponeva i quesiti scomodi: la guerra, cicatrici e vizi. Non gli interessava neanche che Daveth non rispondesse, o lo facesse a monosillabi - era comunque qualcosa, capite. Yale pareva solo seccante, curioso, talvolta arrogante, ma non malato. Quella sera, difficile fingere di non esserlo.
    «solo…» massaggiò le palpebre abbassate con pollice ed indice. «…guida.» riuscì a dire, senza masticarsi parole o lingua, prima di chiudere lo sportello che collegava i sedili posteriori a quelli anteriori, tagliandolo fuori e tagliandosi fuori.
    Rimase ad ascoltare l’ovattato suono del motore e delle ruote sull’asfalto, componendo lentamente la storia di quell’intenso, soffocante, crollo mentale – un esercizio che, secondo il suo vecchio insegnante di filosofia (un uomo di cui si fidava e che rispettava maggiormente rispetto agli psicomaghi assunti da La Madre), avrebbe dovuto aiutarlo a tornare allo stato di quiete originario. Yale poteva incolpare la luna piena, l’uso limitato delle sostanze stupefacenti, l’essere costantemente sotto l’occhio vigile delle videocamere, ma in fondo, per quanto assurdo potesse sembrare, sapeva perfettamente cosa avesse scatenato la crisi. Il giorno dopo sarebbe iniziato il ma certo, sarà divertente progetto per il quale gli Hilton, scegliendo a caso fra i commenti su Instagram, decretavano un Vincitore che avrebbe passato la giornata con loro. Facile, lineare; era stato sinceramente entusiasta dell’idea, lui che amava il proprio pubblico e platea, di potersi concretizzare agli occhi di chi l’aveva sempre visto come astratto, virtuale. Ma l’amore aveva sempre un prezzo da pagare, e quello dell’Hilton era fatto di notti insonne e attacchi di panico. Si sentiva a suo agio fra le persone, pregno di carisma ed affabile sicurezza – era il prima a fotterlo. Le aspettative, l’attesa; un problema che lo fotteva dai tempi dell’università. Deglutì, rimanendo con la testa poggiata al finestrino per minuti che divennero un’ora, senza azzardarsi a muovere mezzo muscolo. Erano passate da poco le cinque quando infine s’era allungato per picchiettare sulla lamina che divideva i sedili, riaprendo la finestrella verso l’autista. «accosta qui» non aveva idea di dove fossero; per quanto ne sapeva, per tutto quel tempo potevano aver fatto continuamente il giro dell’isolato. Scese dall’auto umettandosi le labbra nel cielo blu zaffiro antecedente l’alba, riempiendo i polmoni fino a sentire una fastidiosa fitta allo sterno. Non aprì gli occhi; finchè non avesse guardato, avrebbe potuto fingere di essere ovunque. A testoni, cercò la portiera anteriore del passeggero e la aprì, scivolando sul sedile in pelle dell’auto; poggiò la schiena al finestrino ed il gomito sul cruscotto, la testa abbandonata pigramente sul palmo. Osservò il profilo in penombra del Gallagher per più di tempo di quanto l’etichetta permettesse, perfettamente a suo agio nel violare le comuni norme civili di convivenza. «sai,» lo so che non è esattamente il tuo lavoro, questo, quindi penso di doverti più o meno ringraziare, scusandomi per essermi comportato in maniera così rozza e maleducata. Non sono davvero così stronzo, è che talvolta è…non so, più semplice, se può aver senso. Sì, lo so, mi sono comportato in maniera ridicola e patetica, e non avrei alcun diritto di fare la primadonna considerando che non sono io quello che è andato in guerra; sì, posso immaginare cosa pensi, ma sii così gentile da non dirlo, grazie tante. È così assurdo, non trovi? Vivere, intendo. È complicato, e non dovrebbe – giusto? Ma non parliamo di me, raccontami di te: come, di grazia, un soldato è finito a fare il baby-sitter di un multi milionario? C’è qualcosa che non mi torna, sai tipo… tipo le ombre viste con la coda dell’occhio. Non sono certo se tu non mi piaccia perché mi spaventi, o se mi vai a genio proprio perché mi terrorizzi; talvolta penso che potrei fare un minimo di sforzo per essere meno fastidioso e provare a fare amicizia, poi meh, non mi va più così tanto. Nel senso, non mi dispiace averti intorno, malgrado tu sia leggermente inquietante, ma sei un po’ troppo…come dire, intenso, per fare la guardia del corpo. Mi sbaglio? Improbabile, non mi sbaglio mai su certe cose; penso di avere lo stesso dono di Patrizia, un peculiare tipo di gay giudizio-radar, sai. Vabbè, tutto il discorso era per dirti che non volevo trattarti da pezzente, anche se a conti fatti lo sei (♥), grazie di non fare domande scomode, saresti una spia russa (lo sei?) perfetta. È stato un brutto momento di cui non vado particolarmente fiero, ma ehi, ogni tanto capita a tutti, no? No? Beh, a me sì. E comunque, «credo che le tartarughe siano animali sottovalutati» schioccò le labbra fra loro incrociando le caviglie sul cruscotto. «pensavo di regalarne una a betty –la regina, certo- per farle tornare di moda» annuì fra sé tamburellando l’indice sul mento, fingendo che nulla fosse mai accaduto – un’arte in cui eccelleva. «se lo meritano.» schioccò le dita indicando la strada alle loro spalle, lasciando silentemente intendere che fosse il momento di tornare indietro. «sarebbe troppo scontato se la chiamassi benjamin?»

    Non aveva dormito tutta la notte, eppure nulla nel suo aspetto impeccabile lo lasciava intendere: nessun accenno di occhiaie o antiestetiche borse sotto gli occhi, pelle rosea e sana, sorriso brillante e sguardo vigile. Si era dato giusto il tempo di una doccia veloce, prima di scendere in cucina a preparare la colazione – erano appena passate le sette, e perfino Rosario stava ancora dormendo. Non che Yale fosse particolarmente bravo dietro i fornelli, Penn era decisamente la migliore in quel campo, ma per una volta voleva che anche la cugina (e Rosario) si svegliassero con la colazione già servita. La sua governante, Davide Rosario, fu la prima ad apparire in cucina – nonché la prima, ma non ultima, ad ignorarlo con classe. Al «buonGIORNO PRINCIPESSA» con cui accolse Harvard, si guadagnò un’occhiata opaca ed un grugnito inintelligibile. E dire che doveva apparire adorabile, con quel grembiule legato al collo e le padelle bollenti di pancake alla mano; potevano almeno sforzarsi di fingere di apprezzare, anziché fare dietrofront dalle scale come aveva fatto qualcuno (Prince) tornando in camera.
    Amava la sua famiglia anche per quello. «oggi è il gran giorno» esordì, ottenendo in risposta una mano alzata. Dammi almeno dieci minuti ed un caffè prima del daily-yale, diceva il palmo sollevato di Harvard; quel che Yale lesse fu invece batti il cinque, bro, che fece con delizia e gratitudine. «con il primo fan» continuò, mescolando farina e uova in una ciotola. «andremo in montagna» okay, si iniziava così a dare le notizie, giusto? Prima di arrivare a quelle salienti, si intendeva – qualcosa che sapeva suo fratello non avrebbe particolarmente apprezzato. «a fare trekking» umettò le labbra, sollevò gli occhi blu verso l’altro – che non ci stava neanche provando a cercare di ascoltarlo, proprio come piaceva a Newhaven. Colpisci quando è più vulnerabile, uh? «ho dato la giornata libera a davide. È carino e fotogenico, ma …come dire,» non che ci fosse bisogno di dirlo ad alta voce, ma «mette un po’ d’ansia.» Harvard non si fidava particolarmente del nuovo bodyguard dell’Hilton minore, ma sapete di chi si fidava ancor meno? Yale. Non obiettò, il che significò molto per Yale; volle credere fosse cieca fiducia, ma immaginava giocasse a suo favore il fatto che, essendo con un minorenne e sotto le telecamere, fosse quasi costretto a comportarsi meno da Yale e più da essere umano civilizzato e con un fottuto senso del giudizio. Non lesinò comunque un cinico sopracciglio nella sua direzione, a cui l’Hilton minore rispose con un morbido, melenso, sorriso. «non è che mi butterò da una rupe» sarebbe stato più confortante se avesse smesso di sorridere, ma non sarebbe stato altrettanto Yale. «sarebbe davvero selvaggio» ampliò la smorfia sporcandola lievemente di divertita malizia, un sotto tono tipicamente YaleHilton con il quale il maggiore conviveva da ventitrè anni. Amava quelle conversazioni a senso unico. «ho tutto sotto controllo» Harvard battè cinico le palpebre, labbra piegate verso il basso e spalle strette fra loro. «digLIELO DAVIDE» alzò di scatto la mano con cui impugnava il cucchiaio per puntarlo contro il Gallagher, il quale, ebbene sì, era ancora lì ad ignorare tutto e tutti. Se non voleva farsi notare, era difficile che la gente si rendesse conto della sua presenza, per quanto assurdo potesse apparire una volta inquadrato nella stanza: sembrava impossibile che passasse inosservato, con quel cipiglio severo da bad boy, i capelli dorati ed i sottili occhi verdi, ma tant’era. Vorrei dire che Yale fosse sempre consapevole di Daveth considerando che era, almeno in teoria, la sua assicurazione contro qualunque genere di incidente, ma…niente, in realtà sapeva che c’era, ma gli piaceva così tanto fingere di ignorarlo che talvolta era come se davvero non ci fosse. Atteggiamento che funzionava bene da entrambe le parti, non credete; Daveth Gallagher fingeva di non vederlo né sentirlo l’80% (ottimista) del tempo, lasciando un inquietante 5% a rendere invece perfettamente chiaro che lo sentisse e lo vedesse - solitamente quando era a tanto così da metterlo a tacere, e non nel modo divertente che sarebbe piaciuto a Yale. Eh vabbè, aveva avuto compagnie peggiori (Prince) (♥) e le aveva amate comunque. Il biondo non sollevò lo sguardo, pulendo secco con il pollice (e con più misurata violenza di quanto il gesto occorresse) la guancia sporca di composto per pancake. «tuo fratello vuole comprare una tartaruga alla regina» tu quoQUE bruto fili mi? «non quello» intervenne stizzito, e vagamente offeso, accompagnato dal lontano sospiro del fratello. «era una sorpresa» chiarì, ruotando gli occhi blu su Harvard e piegando il capo in direzione delle telecamere.
    Un Harvard che lo stava guardando con troppa intensità per un non-sono-neanche-le-otto Harvard Hilton IV. Yale si baciò il pollice disegnando una croce sulle labbra, un segno segreto che usavano da sempre per dirsi, quando in compagnia non amichevoli, se fossero o meno a mente lucida: no, non aveva preso alcuna droga; no, non era ubriaco. Vai sciallo, bro. Yale mise a cuocere gli ultimi pancake sorseggiando il caffè, decisamente troppo zuccherato per i suoi gusti – ma qualcosa doveva pur giustificare l’iperattivismo da bambino a Natale. «ho sentito una macchina, stanotte» commentò atono Harvard, dandogli modo di sentire, per la prima volta quella mattina, la sua voce. Yale vide i camera-man voltarsi verso di lui, e senza scomporsi sorrise morbido dentro la tazza. Non era una domanda; avrebbe potuto non replicare, ed era il motivo per il quale il fratello l’aveva posta in quel modo – erano pur sempre in un dannato reality – ma Yale rispose comunque: il silenzio rendeva colpevoli. Gli era stato espressivamente vietato di farlo, ma andando contro le regole dello show Yale piazzò i profondi e miti occhi blu nella telecamera più vicina, volgendo la bocca nel sorriso poco raccomandabile che faceva sciogliere donne e uomini di ogni età. «un uomo ha le sue esigenze» e non era neanche una menzogna, pensa te. Lanciò un’occhiata all’ora rendendosi conto di essere (quasi) in ritardo per l’incontro con… come si chiamava? Sinclair…Hansen? No, quello era l’uomo delle coppole di New Hovel (Yale aveva promesso di rilanciare la moda; giusto una settimana prima era andato ad un party esclusivo indossandone una). Sinclair…Perseo? O una cosa del genere, ci sarebbe stato tempo per le presentazioni, suvvia – ebbene sì, era il ragazzino il fortunato vincitore di Una Giornata Con Yale (perché Yale? perché era il più amato dal pubblico, ovviamente) (Penn era troppo poco scandalosa - ah, se solo avessero saputo di Bang). Finì il caffè in un sorso, picchiando la tazza sul tavolo con più forza del necessario. Aveva già pronto il suo kit da montagna, e dentro la morbida maglia verde ed i pantaloni color kaki, pareva la copertina di una rivista per dirty boy scout; infilò gli occhiali da sole in previdente anticipo, battendo soddisfatto le mani fra loro. «sa, andrò» Infilò lo zaino in spalla sentendosi improvvisamente molto giovane (e bello, sempre bello: tempi meravigliosi quelli del liceo, perlomeno finchè i suoi amici non erano morti tutti, dove per rimorchiare gli bastava presentarsi a lezione). Si avvicinò ad Harvard mettendogli una mano sulla spalla, chinandosi appena per posargli un bacio sui capelli corvini. Se non fosse stato così vicino, non avrebbe udito la domanda bisbigliata sopra il piatto di pancake. «tutto bene?» Non s’irrigidì solamente perché quella, era una domanda di rito. Sorrise scompigliandogli i capelli. «dai un bacio a penn e darth da parte mia»No, non va tutto bene. Spostò lo sguardo su Daveth, volendo credere che fosse lì perché lo amava e non perché non dovesse accertarsi che Yale non dicesse al fratello, davanti alle telecamere, di aver avuto una crisi. Gli sorrise allargando le braccia per un abbraccio, a cui l’altro rispose avvicinando impassibile la tazza di caffè alla bocca. Non ci voleva un traduttore universale per il try me bitch sul volto marmoreo del Gallagher; optò per premersi entrambe le mani sulle labbra e soffiargli un bacio. «e tu salutami prince» aka: nessuno avrebbe fatto salutato il mangiatore di cereali. take that, Princeton Princeton: questa è per il panic moonwalk. «adieu» Yale out.
    Adam, l’autista ufficiale di Yale Hilton (ed il suo preferito, per inciso) parcheggiò la limousine fuori da una villa decisamente non da povery, il che fece storcere non poco il naso di Newhaven: aveva sperato che almeno per la prima Uscita Con Vip avrebbero dato la priorità a qualche giovane meno fortunato; non che i soldi facessero la felicità, lo sapeva perfettamente, ma di certo permettevano più svaghi rispetto a, non so, vivere nelle favelas. Fischiò fra i denti, richiuse la portiera della limo. Attese che scendesse dall’auto anche Carl, il camera-man, quindi percorse il vialetto fino all’entrata della magione Sinclair, tenendo già fra le mani il telefono (era pronto per la live di instagram con la quale immortalare la reazione entusiasta del suo giovane ammiratore illuso di un Yale). Stampandosi sulle labbra il più affabile e meraviglioso dei sorrisi, perfetto nella sua tenuta da porno trekking, Yale Hilton IV spinse sulla punta del naso i griffati occhiali da sole neri, e suonò il campanello.
    Era pronto? Come avrebbe detto la sua giovane fan Arianna Nicky, caldo perso. Ed era pronto, Perses Sinclair? L’avrebbero scoperto presto. Non appena la porta si spalancò, rivelando un ragazzino dall’aria pallida (e, malgrado Yale non fosse il giudice migliore, malaticcia) e lo sguardo curioso, il sorriso dell’Hilton si ampliò rivelando i denti bianchi e perfetti dietro le labbra morbide. Si tolse con un movimento liquido ed elegante gli occhiali da sole, appendendoli distrattamente al collo della maglietta. «perses sinclair?» Il camera-man si avvicinò per riprendere il giovane, e l’Hilton perse il suo momento live in favore dell’apparenza fascinosa ed invitante: bisognava sacrificare il bene di qualche fan, per un disegno più grande (e non avrebbe potuto togliersi gli occhiali con classe, e filmare il fanciullo). «mio giovane amico,» mimò un inchino porgendo la mano nella sua direzione, senza mai lasciare che il sorriso abbandonasse la bocca. «sei il fortunato vincitore del Concorso,» spiegò, dando per scontato che l’altro, per ovvie ragioni, sapesse. «passerai la giornata con me, spero tu non avessi altri impegni» anche se cancellare qualche appuntamento per poter stare con Yale, non doveva essere poi quel gran sacrificio – ma dirlo ad alta voce sarebbe stato alquanto rude e presuntuoso. «sorpresa!» e neanche immaginava quanto.
    29.08.2018 | h: 8:00
    23 y.o. | former wampus
    Have you ever had
    a nightmare
    bigger than everybody?
    Brighter than the sunshine, Brighter as I burn, burn away
     
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    Something brought you here.
    Call it what you will, fate, destiny... Theia.
    È buffo come alcune cose rimangano invariate nonostante il passare del tempo, quando tutto, attorno a noi, invariabile non lo sia affatto. Pensate all'universo: l'insieme di tutte le cose che esistono, un insieme la cui idea di vastità ci dà le vertigini. L'universo è occupato in un' espansione che accelera sempre di più, e si è persino ipotizzato che la velocità con cui una galassia si sposta dall'altra - la quale aumenta nel tempo - arriverà a un punto in cui l'intera materia di cui è costituito l'universo si disgregherà decretando la fine di esso.
    Pensate all'esorbitante tempo espresso in anni passati dalla sua creazione, a tutte le stelle, le galassie, i pianeti che contiene, a quanti sono scomparsi e quanti comparsi. Pensate poi alla Via Lattea e restringete il vostro campo visivo al Sistema Solare e infine alla Terra. Impressionante come il nostro pianeta appaia così enorme rispetto a noi, e rispetto a tutto il resto non sia che una minuscola particella di polvere, vero? Be', concentratevi su quella nazione chiamata Inghilterra, quella porzione di terra cui gli esseri umani hanno dato il nome. Lì, proprio lì, in barba all'Universo molto più esteso di lei, troverete quella cosa che nel bel mezzo del cambiamento costante ha trovato il coraggio, la forza, o forse la naturalezza di rimanere sempre la stessa.
    Probabilmente non potete saperlo, ma quella cosa è costituita da un ragazzo dai capelli biondi e l'aria "malaticcia" cit. esasperata che avvolge le braccia attorno alla vita di una ragazza altrettanto bionda e la solleva per farla arrivare alla mensola più alta - ridicolmente alta -, quella in cui mettono le loro scorte di cioccolato e, dopo, le fa posare i piedi per terra con un'attenzione affatto ostentata. È quell'affinità mai scomparsa o affievolita che risiede nel loro scambiarsi uno sguardo nello stesso attimo e l'invano tentare di lui di impossessarsi della barretta di cioccolato. A rimanere invariato in uno spazio così grande, è quel legame così minuscolo che, in realtà, è a propria volta composto da piccoli gesti che nessun altro, a parte i due ragazzi, sarà mai in grado di afferrare del tutto.
    Al contrario, qualcosa che rappresenta una variabile - e un'autentica sorpresa - si sta avvicinando alla vita di uno dei due, nello specifico un qualcuno con un sorriso non sempre sincero come appare e un paio di occhi blu che celano più di quanto lasciano trasparire. Se saranno l'uno per l'altro solo un elemento di passaggio privo di importanza, uno di svolta o di cambiamento, come in ogni occasione che si affronta verrà svelato dal corso degli eventi.

    ***



    L'ennesimo attentato alla barretta di cioccolato fallì e Pers alzò la testa per guardare Theia con uno dei suoi proverbiali cipigli. Era fin troppo presto per litigare, anche per un mattiniero come lui. «Devi per forza metterla tutta nell'impasto?» protestò, perché sì, per il cioccolato avrebbe lottato fino alla fine e non si sarebbe fermato dinanzi a niente wat. Se avesse saputo che sua sorella aveva avuto la brillante idea di sprecare la cioccolata per dei biscotti che lui non avrebbe mangiato - mica era colpa sua se detestava quasi tutti i tipi di biscotti! -, allora non l'avrebbe aiutata neanche per sogno con quella dannata mensola. Le sorelle erano così, ti accoltellavano alle spalle in certi casi anche letteralmente quando meno te lo aspettavi e rimanevi fregato. (?)
    «Tranquillo, saranno così buoni che li mangerai sicuramente!» cinguettò la gemella, tutta intenta a girare manualmente l'impasto con una frusta. Quella, a Pers, suonò fin troppo come un'inquietante minaccia; aprì bocca per replicare, ma Theia lo guardò puntandogli contro l'utensile da cucina. Ecco, appunto. Lei riusciva a rendere pericolosa anche la sua passione per i dolci, il suo doveva essere un talento congenito.
    Non si sentì in colpa a farle il verso. Non aveva pietà. «Sicuramente.» Imitava la sua voce così bene che era un peccato non farlo.
    «Sei un esserino davvero insopportabile.» Perses, forse, avrebbe avuto paura - insomma, sapeva che sua sorella non si arrabbiava spesso in maniera seria, ma quando lo faceva perdeva il suo aspetto di dolce fiorellino di serra e si trasformava in una belva -, tuttavia non c'era quella luce omicida che gli suggeriva di iniziare a correre o buttarsi dalla finestra e salvarsi in corner pregando di atterrare quantomeno su un cespuglio. Senza contare che, mentre si scostava una lunga ciocca di capelli e gonfiava appena le guance per poi sbuffare, gli faceva venire da ridere. Guai se però lo avesse fatto.
    «Siamo gemelli, cosa pretendevi?» Pers fece un sorrisetto volutamente irritante, lanciandole un'occhiata e godendosi il suo storcere il nasino elegantemente sprezzante. Quell'espressione, rifletté, la faceva somigliare parecchio a lui; al pensiero fece un sorriso, rilassato come riusciva a esserlo solo con lei, e si spostò al suo fianco opposto per rubarle un cubetto di cioccolata dal piattino di porcellana, inutilmente raffinato come il resto della cucina spaziosa.
    «PERSES!» L'urlo della ragazza lo lasciò del tutto indifferente, mentre masticava con soddisfazione e si grattava la punta del naso. «Sì?» Sarebbe stato bugiardo a negare che, quella mattina, si stava divertendo un sacco a infastidirla: lei mandava a monte il suo appuntamento col cioccolato, lui mandava a monte la sua postazione di lavoro. Era giustizia.
    L'unico segnale dell'imminente disastro fu la mano di Theia che affondava losca nella ciotola; quello dopo, Perses aveva perso tutta la sua allegria e desiderava ardentemente fare in modo di rimanere figlio unico. Il suo volto era magicamente ricoperto di impasto per biscotti. Si leccò le labbra, fece un respiro profondo e fissò la stronzetta peste. Sotto lo sguardo incerto di Theia che lo teneva d'occhio, Pers assecondò l'istinto che gli gridava vendetta, decidendo di afferrare la ciotola.
    Tempo due secondi, e la vide slanciarsi fuori dalla cucina in uno scoppio di risa mentre lui le correva dietro, perdendo nel frattempo pezzetti di impasto che finirono per terra. «VIENI QUI.» Entrambi in ciabatte, per poco non caddero in scivolata sul pavimento perfettamente lucidato del salotto in un'entrata che sarebbe stata senz'altro d'effetto. Theia si fermò davanti al divano in pelle, facendogli valutare velocemente come placcarla senza farla scappare. Fece finta di scattare in avanti, allungò un braccio e, come programmato, lei scappò salendo sul divano coi piedi per poi buttarsi in una specie di tuffo laterale a peso morto dietro lo schienale, facendolo ridere fino alle lacrime del conseguente tonfo sordo e del suo versetto di dolore. Non appena lei si rialzò, ora sicuro che non fosse morta, riprese l'inseguimento: nella sala d'ingresso, Theia finì a gambe all'aria e lui anche e ruzzolarono in un groviglio di braccia e gambe cui lei, senza fiato dalle risate, tentò di sottrarsi poco prima che il fratello le afferrasse la caviglia. Pers evitò per un soffio un calcio in faccia e la inseguì in ordine per le scale, il corridoio - dove lei inciampò e lui rovesciò per sbaglio una sedia - e una stanza degli ospiti vuota il cui tappeto fece conoscenza con la sua faccia e il sedere di Theia. Finirono nella camera da letto della bionda e lei dovette valutare che mimetizzarsi con le lenzuola fosse l'unica maniera per scampare alle sue ire, perché si lanciò sul letto con un gridolino di battaglia ma finì per cadere dal lato opposto con le gambe aggrovigliate alle coperte che aveva trascinato con sé.
    Perses sorrise ignorando il fiatone e senza riguardi le si buttò sopra, per poi terminare la sua vendetta spiaccicandole in testa la ciotola. Non l'aveva lasciata per tutto il tragitto, al costo di rischiare di rompersi il suo bellissimo naso. Ne era valsa la pena. «Ora sì che mi piacciono i biscotti,» la prese in giro. Le si sedette accanto, sentendo la pelle disgustosamente appiccicosa.
    Theia strizzò gli occhi con una smorfia e li riaprì accigliata, il sorriso storto di chi non sapeva se ridere o arrabbiarsi. «Sei uno stronzo.»
    A Pers quasi dispiacque nell'osservare i capelli di Theia tutti impiastricciati, ma i suoi non erano ridotti tanto meglio. «Te lo sei meritato. Vado a farmi una doccia prima che Brent e Adelle si sveglino,» disse, riferendosi ai loro genitori per nome. Sapeva che dal punto di vista economico non gli avevano fatto mancare davvero nulla, però non gli veniva naturale chiamarli genitori e quindi, tranne in loro presenza, non lo faceva mai. Non dopo tutto il male che la loro negatività, anni prima, aveva inflitto a sua sorella.
    «Muoviti, devo farla anch'io!» commentò Theia, che lo fece sospirare quando incrociò le braccia al petto con irritazione.
    In un moto d'affetto che lo fece sentire stranamente leggero, Perses si chinò per stringerla brevemente a sé per le spalle e successivamente si diede slancio con la mano per alzarsi. «È stato più divertente di fare i biscottini, dai.»

    ***



    Un'ora e un quarto dopo, Perses e Theia sedevano a tavola vestiti, puliti e profumati. I loro genitori non si sarebbero accorti di niente, se Adelle non avesse messo il piedino proprio su una macchietta di impasto reduce di guerra; non che normalmente ne avrebbe fatto parola, poiché si era rassegnata all'idea, condivisa peraltro dal marito, di avere dei figli disgraziati e non le importava di ciò che combinavano, a patto che non rovinasse il suo figurino o la sua bellezza.
    Eppure, Antheia aveva una passione che la faceva rabbrividire: la cucina. Per una donna che era stata cresciuta nella convinzione che una vera signora non avrebbe mai e poi mai dovuto sporcarsi la mani in cucina - giustamente, per quello c'erano i servi, no? -, era inconcepibile. Un'offesa alla sua stupida dignità da signora d'alto borgo che Perses detestava con tutte le sue forze. C'era differenza tra il suo sopportare e il suo detestare e quest'ultimo era tutto dedicato ai coniugi Sinclair. Ironico.
    Tutte le mattinate estive, Pers e sua sorella si svegliavano presto per iniziare la giornata con la compagnia l'uno dell'altra. Due ore dopo arrivavano i genitori e la colazione si svolgeva con Brent che leggeva giornali, Adelle che vivisezionava il cibo con la sua solita aria schifata e loro due che, in base all'umore, parlavano tra loro o mangiavano in silenzio, lui con il piccolo Sleepy che sonnecchiava rannicchiato sulla sua gamba. Invece, essere a conoscenza del fatto che la sua gemella aveva provato a preparare dei biscotti, per Adelle, pareva essere una motivazione sufficiente per ricordarsi di avere dei figli.
    «Cucinare non è un'occupazione adatta a una giovane di elevata classe sociale,» stava asserendo, con quel tono di superiorità che gli faceva venire il prurito. Pers si girò verso Theia, che adesso aveva perso tutto l'entusiasmo di quando si erano rincorsi per metà casa e incrociava gli occhi della donna con una rigidità che a qualcuno sarebbe sfuggita, ma non a lui. Il ragazzo si impose di stare zitto per non scatenare discussioni, passando la forchettina da dolce sulla superficie del piattino lindo. In verità aveva già mangiato e si era lavato i denti e, tanto, nessuno glielo avrebbe rinfacciato. Odiava quando qualcuno si rivolgeva a sua sorella con quel tono e odiava quando le spegnevano il sorriso. Spinse col proprio ginocchio quello di Theia in un gesto di solidarietà.
    «Siamo nel Ventunesimo secolo, ormai. Mi piace cucinare e lo farò sempre.» Il biondo ammirò la calma nella sua voce, ma che fosse infastidita era evidente. Pertanto, non appena Adelle aprì bocca per ribattere Pers utilizzò la strategia che usava da bambino per spostare le sue sgradite attenzioni da Theia a lui, facendo qualcosa che le avrebbe dato sui nervi: con la mano coprì piano le orecchie e la testolina di Sleepy e lasciò cadere la forchetta nel piatto e l'impatto causò un piccolo baccano di tintinnii. Brent si limitò a sussultare lievemente, dimostrando al mondo di stare ancora respirando, mentre Adelle lo fulminò con un'occhiataccia - piuttosto superflua, perché con lei Pers non si sarebbe mai scusato -, si immusonì e riprese a ignorare la loro esistenza. Missione compiuta.
    «Cosa pensi di combinare oggi, canaglia?» chiese, ovviamente, alla gemella. Prese un sorso di succo e alzò gli occhi al cielo quando Theia gli scompigliò i capelli. Si sarebbe realmente risentito, se così non avesse dato pretesto ad Adelle per ricominciare a criticare, dunque sopportò.
    «Pensavo di fare shopping con Lily e Anne, sono alla ricerca di un paio di scarpe bellissime!» Tipico. Lui trattenne una risata e, nonostante il suo disinteresse sull'argomento, la ascoltò come sempre.
    Il suono del campanello zan zan li interruppe e Perses sollevò la testa, perplesso. Chi poteva essere a quell'ora del mattino?
    Visto che era lui ad accogliere chi suonava il campanello, posò il ghiro sul palmo della mano sinistra e raggiunse velocemente l'ingresso. Si passò una mano tra i capelli cercando di riordinarli e, infine, aprì la porta. Ah, era solo quel tipo del reality sempre circondato da telecamere, Yale. Aspetta. Yale Hilton era all'uscio di casa sua?
    Pers si bloccò sul posto, e anni e anni di esercizio nell'inespressività gli permisero di reagire camuffando la sorpresa: dapprima socchiuse la bocca e aggrottò la fronte, spostò lo sguardo da Yale al cameraman - e lì, avrebbe tanto voluto dirgli di rispettare i suoi spazi personali, grazie tante - e viceversa, confuso. «Sì, sono io.» Non stava comprendendo la situazione, ma fortunatamente era dotato del dono dell'intelligenza e non ci voleva un genio per intuire che era costretto a fingere contegno, perciò lo disse con una perfetta calma apparente. No, non andò di sicuro in iperventilazione, conosceva Yale Hilton solo perché tutti lo conoscevano e a sua sorella piaceva - benché lui non concepisse come si potesse adorare qualcuno senza conoscerlo davvero e basandosi su un reality probabilmente montato nei minimi dettagli o qualcosa di simile -. Ovvio che era strano avere un tizio così famoso a casa propria, ma per il resto non gliene poteva fregare di meno, insomma.
    Diciamo che l'approccio iniziale non fu dei migliori. L'ultima cosa che Perses voleva era essere al centro dell'attenzione ed essere costretto a essere educato e, puff, questi due punti si erano presentati nella figura di Yale Hilton. Sperò che il tizio tutto diabete e sorrisi - wow, che dentifricio usava? wat - smettesse di fare il gentiluomo e di chiamarlo amico perché, pensò, amici non lo erano affatto, e iniziasse a spiegargli perché stesse invadendo il suo spazio vitale. Gli strinse la mano, tentando di non incenerire il cameraman e improvvisando un sorriso impercettibile. Non era sicuro di essere molto convincente, ma non è che gli importasse tanto.
    «sei il fortunato vincitore del Concorso.» Ne sapeva meno di prima. Spazientito, spostò il peso da una gamba all'altra e dubitò di essere amichevole mentre fissava Yale che gli diceva che avrebbe passato la giornata con lui. Lui che passava sempre la giornata da solo e ne era più che felice? Davvero? Nella sua mente si susseguirono diverse risposte, come «Non sapevo fossi anche un comico orribile» , «No.», «Ahahah certo», «Scordatelo», ma nessuna era adeguata. Che concorsi faceva quell'Hilton? Aveva la certezza matematica di non aver partecipato a nessun concors-

    «Mi piacerebbe incontrare Yale Hilton, avrei un sacco di domande da fargli,» gli aveva detto Theia con un sorrisone entusiasta, rubandogli una nocciolina.
    Lui aveva risposto con un «Mh», guardandola interrogativo.
    «Oh, mi sono iscritta a una cosa, un concorso che permette a un fan di passare una giornata con lui,» aveva continuato, un sventolare la mano a minimizzare, e Pers si era stretto tra le spalle. Non avrebbe mai potuto immaginare che Theia, nella concitazione, avesse fatto un
    minuscolo errore che lo riguardava direttamente.

    "Io la ammazzo."
    Ora che era tutto chiaro, desiderò non lo fosse affatto. Valutò l'idea di svelare che non aveva fatto richiesta e stare insieme a Hilton - o qualcun altro, niente di personale - era l'ultima delle sue aspirazioni. Ma dubitava che potesse rifiutarsi, perché quello sarebbe stato veramente maleducato, nonché una figuraccia per il programma - e un cuore, in fondo, lo aveva anche lui -.
    «Oh, il concorso.» Spalancò gli occhi e fece un altro sorriso tirato. «Scusa, è stata un'enorme sorpresa, non ci credo.» Più che altro non voleva, ecco. Sentì un discreto colpetto di tosse alle proprie spalle e si girò alla velocità della luce, comunicando a Theia, nascosta più avanti all'interno della casa, che più tardi avrebbero dovuto fare un bel discorsetto. Si vide in risposta un'espressione colpevole e due pollici alzati.
    "Proprio stavolta dovevi avere la botta di culo, eh." Basito.
    Tornò a scrutare Yale, cercando di sembrare conciliante. «Fantastico.» Suonava troppo sarcastico? Si morse l'interno guancia, sentendosi nervoso per colpa di quelle maledette telecamere. Abbassò gli occhi su Sleepy e la visione del suo ghiretto fu in grado di rilassarlo un po'. Colto da un'idea, mostrò con fare protettivo l'animaletto al giovane uomo. «È un problema se porto lui?» Era nei suoi interessi, ed era per questo che stavolta il sorriso era molto più convincente. Mica voleva far rimanere male un fan perché non poteva portare il suo tenero ghiro, no?? #serpeverde

    Perses Sinclair | 16 y.o. | sheet
    Pureblood
    29.08.2018 | H: 8:00
    Metamorphomagus
     
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    yalehilton
    Beh, come dire. Non era certo la reazione entusiasta che si era immaginato – o che avrebbe meritato - quella dello slavato biondino sulla porta, espressione granitica e secco sorriso sulle labbra sottili. Quasi, quasi, fece vacillare quello di Yale; quasi, perché quella smorfia dolce della bocca era pur sempre una delle prime cose che aveva imparato, la menzogna in cui eccelleva maggiormente. Forse perché in fondo, in un modo sbagliato ed in un mondo sbagliato, era la cosa più onesta che avesse. Arcuò impercettibilmente un sopracciglio al viso impassibile del Sinclair, non azzardando alcuna occhiata verso Carl – bestie infami, i camera-man: se c’era qualcosa che non volevi venisse mandato in onda, l’avrebbero messo nella sigla. Umettò le labbra e giunse innocente le mani di fronte a sé, mostrandosi innocuo quanto una capretta di Heidi e mite; chinò perfino il capo fingendo un’umiltà che non possedeva, indietreggiando di un passo per lasciare più spazio al biondino così che…non sapeva con esattezza “così che cosa”, non aveva mai avuto ben chiari i concetti di spazi personali; forse sperava ancora in una danza della vittoria. Difficile uccidere l’ottimismo di Yale Hilton, deciso com’era ad ignorare il gelo proveniente dal proprio interlocutore; se si fosse fatto fermare da così poco, non avrebbe avuto una Rosario nella sua vita ad amarlo e onorarlo fino a che morte non li avesse separati. «Oh, il concorso.» Oh, boi. Se quella era la sua versione di un sorriso allegro ed eccitato all’idea della giornata da passare con Yale, doveva davvero rivedere il proprio vocabolario espressivo; se invece la sua intenzione era stata di esprimere tutta la propria morte interiore, good job!, perché quelli erano i vibes ricevuti dall’Hilton. Cercò di non sentirsi offeso, e, affatto modesto, decretò di essere riuscito egregiamente nella propria impresa: a qualcosa doveva pur servire averlo più grosso di tutta la Gran Bretagna ed il Nord America insieme.
    L’ego, per inciso. L’ego - mi pareva scontato. Annuì educato socchiudendo le palpebre, squadrando il ragazzino dalla punta delle scarpe a quella dei scoloriti capelli biondi: aveva un aspetto del tutto mediocre, eppure non era uno di quei visi intravisti nella folla che si tendeva a dimenticare in fretta; non era tanto l’esterno a rimanere impresso, malgrado i foschi occhi blu in contrasto con il pallore cadaverico di una fotografia in negativo giocassero a suo favore, quanto più una sorta di…intelligenza fredda, quella che avresti affibbiato più ad un rettile che ad un essere umano – quella, sostanzialmente, che non piaceva a nessuno ed inquietava i più. Si domandò distrattamente se avesse degli amici, o se a scuola tutti lo odiassero e mangiasse da solo in una triste panchetta della sua casata.
    Yale…. mMmMH. Talvolta si rendeva conto di essere troppo arrogante e presuntuoso, Yale Hilton – e di avere l’animo da bulletto, fra sé poteva ammetterlo candidamente – ma era il non esporre i propri pensieri a renderlo un ragazzo buono e gentile; perlomeno, quello era ciò che si ripeteva per rimanere in pace con se stesso. «Scusa, è stata un'enorme sorpresa, non ci credo.» Andiamo, amico: un po’ più convinto, e che cazzo. Si morse il labbro inferiore per soffocare una risata, la testa reclinata all’indietro e gli occhi puntati al cielo: che vita di stenti. Aveva davvero sperato di poter ricevere la sua dose di affetto quotidiano da uno dei migliaia di followers che avrebbero ucciso venduto la propria madre per poter passare un pomeriggio con lui, aveva forse chiesto troppo? Perses Sinclair sforava ogni classifica di statistica e probabilità – ma poi perché diavolo aveva partecipato se non aveva intenzione di vincere? Gli sembrava, se perdonate il francesismo, la stessa cazzata del voto di protesta che aveva portato Trump alla casa bianca. Il buon senso gli suggerì (, quella povera anima della sua coscienza ancora ci provava: stolta.) di abbandonarlo al suo destino, una pacca sulle spalle ed un buona giornata, carissimo di congedo, ma a) non poteva fallire il primo giorno del Concorso; b) beh, partecipazione di protesta o meno aveva partecipato, quindi – e di nuovo, perdonate ma è doveroso:- sti gran cazzi.
    Metaforici. Non aveva l’aria di essere abbastanza grande per quelli fisici – o interessato: gli sapeva di da ACE, senza alcun motivo specifico, ma gliel’avrebbe domandato in un secondo momento.
    «Fantastico.»
    Un gioco che si poteva facilmente giocare in due. Gli rivolse il più smagliante dei suoi sorrisi, palpebre assottigliate e lunghe ciglia scure a sfiorare le guance: «meraviglioso» onesto, perché Yale lo pensava davvero. A quel punto, sia che la giornata si fosse rivelata essere terribile o magnifica, per l’Hilton sarebbe stato un win-win: si seminava quel che si raccoglieva, ragazzo mio. «È un problema se porto lui?» Abbassò lo sguardo notando solo in quel momento la creatura stretta fra le mani del ragazzo: era…era un topo? O uno scoiattolo.
    Ti prego, Dio. Se esisti, fai che sia il Pole Squirrel. Ti prego.
    Annuì allegro, spostandosi lateralmente per far uscire di casa l’animale – ed il topo stretto fra le sue mani – senza mai abbandonare il sorriso. «figurarsi, quando mai i topi sono stati un problema per gli hilton – non hai mai visto i cani di mia cugina?» Gli indicò con un cenno la Limo parcheggiata fuori dal vialetto, facendo un movimento del braccio perché lo precedesse verso l’automobile. «allora, persesinclair» iniziò, seguendolo a poca distanza ma ancora frapponendosi fra il ragazzo ed il camera-man (per due motivi: il primo, ed alquanto ovvio, era che se dovevano filmare un fondoschiena, il suo sarebbe stato più acclamato e bello; il secondo, non si fidava di Carl abbastanza da credere che non avrebbe fatto il molesto, e di quei tempi non si sapeva mai quale giovane power rangers poteva trasformarsi in ninja da un momento all’altro – meglio non rischiare.). Lo anticipò solo in prossimità dell’auto, dove galante aprì la portiera posteriore per farlo accomodare – era o non era il miglior Padrone di Casa del mondo? Lo era. Senza contare che il ragazzo aveva le mani impegnate, quindi più che galanteria s’era trattato di mero pragmatismo - ma perché soffermarsi sui dettagli?. Fece cenno a Carl di salire davanti, vicino all’autista; prima della full immersion nel mondo di videocamere degli Hilton, voleva assicurarsi che il giovane non fosse un qualche caso umano, né che fosse affetto da qualche forma da psicopatia che l’avrebbe portato a, boh, prendere un ramo di pino e sculacciarli tutti! cercare di trafiggerli. Insomma, Yale poteva anche essere un ingenuo buonista, ma non era così stup- sì okay, lo era, voleva solo farsi i cazzi (sempre metaforici, ragazzi miei; in questo forum mi sento sempre di dover specificare) del ragazzo senza telecamere puntate addosso, almeno finchè potevano. Il viaggio, se Andres non avesse fatto il Vin Diesel della situazione, avrebbe richiesto almeno un’oretta.
    Yay.
    Scivolò all’interno della limousine sedendosi dalla parte opposta rispetto a quella di Perses, abbandonandosi sul sedile come un salmone sul nighiri. «raccontami qualcosa di te. di me puoi trovare facilmente tutto on-line, non è gioco onesto» Gli sorrise sincero inarcando le sopracciglia, le braccia a stringere i poggia testa dei posti vacanti al proprio fianco. «quanti anni hai?» si sporse in avanti, i gomiti sulle ginocchia. «frequenti hogwarts, giusto?» Andres sapeva della magia, ma Carl? Non erano un reality show magico, gli Hilton. Alzò una mano gesticolando vago nell’aria, cercando di dare al ragazzo appigli qualsiasi perché potesse raccontargli un po’ di sé – già detto che avevano un’ora di viaggio da affrontare? «hobby, sport, colore preferito» si strinse nelle spalle. «animale guida» perché?
    La vera domanda era: perché no.
    29.08.2018 | h: 8:00
    23 y.o. | former wampus
    Have you ever had
    a nightmare
    bigger than everybody?
    Brighter than the sunshine, Brighter as I burn, burn away
     
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    Call it what you will, fate, destiny... Theia.
    Già, meraviglioso.
    O Yale Hilton non si era accorto della sua evidente mancanza di gioia di vivere, oppure era dotato di una faccia di bronzo davvero, davvero invidiabile. Il sorriso che gli fece, poi, gli ricordò uno di quegli inquietanti bambolotti di ceramica dall’espressione vitrea e sorridente: perfetti e curati all’apparenza, ma in realtà privi di sostanza perché, andiamo, poteva darla a bere ai suoi fan, che di sicuro prendevano le sue parole come la sacrosanta verità, ma Pers sapeva che quello non era un sorriso sincero, che l’Hilton non era felice di vederlo. Non se ne risentì, prima di tutto perché non gliene poteva fregare di meno – se non per essere stato immischiato in un affare che avrebbe messo a dura prova la sua pazienza – e poi perché era normalissimo che non si fosse felici di incontrare uno sconosciuto qualunque mai visto prima. Era Yale che voleva fingere il contrario, e lui non si capacitava di come le persone potessero davvero credere a una cosa simile. Nessuno faceva nulla senza un profitto, per Perses Sinclair. Non era prevenuto, era solo un semplice dato di fatto.
    In quella situazione, Perses non poteva rimanere impalato davanti alla porta di casa e d’altra parte la sua educazione, l’abitudine a dover fingere compostezza sempre e comunque, ogni tanto gli tornava anche comoda. Tentò di infondere una nota più rilassata ai propri tratti, nonostante il suo scazzo umore del momento non glielo rendesse facile. Seriamente, sua sorella doveva vincere un concorso l’unica volta in cui l’aveva messo in mezzo? Non gli rimase che partecipare al gioco. In un modo o nell’altro, sarebbe sopravvissuto alla presenza di Yale Mentadent Hilton. Ma forse usava l’AZ 3D Ultra White, chissà.
    Credeva davvero che Sleepy fosse un topo? Un topo, sul serio? Be’, di certo non esistevano dei topolini graziosi come lui, allora, pensò sarcastico. Fantastico, il tipo era con tutte le probabilità un ignorante. Se avesse avuto più pregiudizi, o la voglia di averne, avrebbe potuto catalogarlo come uno di quei ricconi che non giudicavano importante avere una propria cultura, dato che possedevano i soldi. Ma era ancora presto e il suo obiettivo era tornare a casa – e non era neanche partito, ancora –. Quantomeno, i suoi genitori erano degli spocchiosi moderatamente eruditi- suo padre, almeno. Per le persone normali non è essenziale sapere che cani ha tua cugina. Che poi, chi era sua cugina? Vuoto totale. Nel dubbio, mosse la testa in segno di un diniego affatto mortificato. Non sei il centro del mondo, né? «No, mai visti,» asserì con fredda nonchalance. Chissà se Yale Hilton avrebbe considerato quella frase come una bestemmia, della serie “chi non conosce i cani di mia cugina??”.
    Si avviò verso l’automobile indicata dal giovane uomo; con occhio clinico, infatti, giudicò non poteva avere più di venticinque anni. Gli era stato insegnato che quantificare l’età di una persona era utile per comprendere la maniera di porsi che bisognava adottare per non risultare sgarbati, inopportuni o troppo confidenziali. Era un insegnamento stupido, ne era consapevole, e se tirò a indovinare fu solo per pura abitudine di porre tutto sotto analisi. Disse un asciutto «Grazie» al gesto dell’altro di aprire la portiera al suo posto, gesto verso cui, sorpresa sorpresa, il nostro tenero pan di zenzero Perses, in realtà, rimase completamente indifferente. Anzi, avrebbe preferito aprirsela da solo come era capace di fare, la portiera, piuttosto che ricevere una cordialità non sentita. E forse era quello il problema più grande, nel mondo aristocratico in cui viveva: nulla era fatto con una reale volontà di farlo, ma per un’etichetta dettata dalle convenzioni civili. Detestava tutto questo, Pers, detestava la falsità, quindi preferiva mostrarsi per il ragazzo distaccato che era.
    Si sedette con fluida eleganza, posando Sleepy sulle proprie gambe e gli avambracci accanto a lui come a proteggerlo dal fastidio che quella giornata avrebbe potuto recargli. Lo conosceva abbastanza da intuire che non l’avrebbe svegliato nemmeno una cannonata, visto che i ghiri e lui in particolare amavano dormire nelle giornate calde. Si sarebbe svegliato la notte, come gli suggeriva la sua natura da animale notturno.
    Quando Yale parlò, Pers dovette trattenere un sospiro e alzò lentamente la testa verso di lui, guardandolo come si poteva guardare… be’, l’indesiderato imprevisto che era. Non che ce l’avesse con lui, prima di quel giorno a stento conosceva la sua fisionomia e non era tipo da odiare la gente ricca – d’altronde, anche lui lo era –. Si passò una mano sulla guancia. La prima cosa che apprese era che l’Hilton era logorroico, veramente troppo, e sbatté le palpebre di fronte a tutte quelle domande. Se aveva voglia di rispondere? Certo che no, ma era troppo educato per ignorarle. In fondo non sapeva quanto avrebbero impiegato ad arrivare a destinazione. Alzò le spalle e si bloccò, accorgendosi che quell’odioso cameraman non erano più accanto a loro. Lanciò un’occhiata davanti a sé e decise che poteva approfittare del temporaneo via libera per mettere in chiaro la situazione.
    Lo guardò dritto negli occhi, con schietta sincerità. «È stato un errore. Avrebbe dovuto esserci mia sorella, qui, ma a quanto pare ha commesso un qualche errore di distrazione.» Come se non avesse appena ammesso apertamente di non volersi trovare lì – e comprendendo di dover mettersi l’anima in pace e trovare un lato positivo alla faccenda –, continuò. Conosceva le regole di una conversazione civile, e malgrado ciò che potesse sembrare sapeva sostenerne una. «Ho sedici anni. Suono, disegno, faccio jogging.» Campione olimpionico di acidità. E non so voi, ma per i suoi gusti aveva detto anche troppo. Aggrottò le sopracciglia in sua direzione, perplesso. «Animale guida? Non penso di averne uno. Dove stiamo andando?» Conciso, semplice, diretto.

    Perses Sinclair | 16 y.o. | sheet
    Pureblood
    29.08.2018 | H: 8:00
    Metamorphomagus
     
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    Fra tutte le persone residenti, legalmente o meno, a Londra, e dotate di un wi-fi, gli doveva toccare proprio l’adolescente mestruato? Non aveva neanche portato assorbenti con il quale impedirgli di sanguinare la sua già labile voglia di esistere sul sedile della limousine, Rosario non sarebbe stata felice di pulire quel macello: non a tutti piaceva togliere pezzi di anima e pubertà dai tessuti nei quali andavano ad incrostarsi. Forse avrebbe dovuto chiedere a Davide, sembrava più skillato nel togliere le tracce di morte – doveva essere un’abilità appresa dalla propria decadenza interiore. Morse l’interno della guancia, evitando un diretto contatto visivo per calibrare l’intensità dei propri occhi blu, prima di doverli – non volenterosamente – posare sul proprio algido interlocutore; quando tornò a guardarlo, l’irritazione era evaporata dalle iridi cobalto, lasciandovi solo l’usuale elegante cordialità. Yale Hilton non aveva problemi con le persone scontrose, altrimenti la sua lista di amici e famigliari si sarebbe ridotta a meno di zero, ma il minimo che richiedeva era un briciolo di fascino, od almeno qualcosa di bello da guardare mentre sopportava chili e chili di stronzate mica teneva il Gallagher come guardia del corpo per il suo senso dell’umorismo: aveva portato avanti in quel malsano modo intere serate in compagnia dei Parker, o agli eventi a cui l’essere un Hilton lo costringeva a partecipare, ma Perses Sinclair aveva l’attrattiva di una palma morta a bordo strada. Non era colpa sua, povero cucciolo d’uomo; sapeva fosse l’età a renderlo così scialbo, e che la pubertà – sperava – avrebbe fatto miracoli al suo triste modo di porsi in società. Non poteva interamente incolparlo di quell’atteggiamento schivo e distaccato; certamente non lo odiava per quell’assenza di emozioni. Confidava ancora che potesse mostrarsi interessante – magari scriveva poesie, aveva la faccia di qualcuno che mandava i propri poemi anonimi al cioè. – motivo per cui, seduti all’interno del lungo abitacolo, gli rivolse un altro sorriso morbido e gentile.
    A cui, chiaramente, l’altro non rispose. Che avesse infilato il tampax nel buco sbagliato?
    YALE, gridò la sua coscienza, con un tono isterico e vagamente familiare (ciao Fergie).
    Mmh, scusa – ho detto scusa.
    «È stato un errore. Avrebbe dovuto esserci mia sorella, qui, ma a quanto pare ha commesso un qualche errore di distrazione.» Ah, ecco. Non che bastasse a giustificare l’assenza di pathos da parte del ragazzo – ripeto: chiunque avrebbe dovuto essere emozionato all’idea di passare del tempo con Yale Fuckin’ Hilton – ma almeno poteva…quasi comprenderlo. Si accigliò, il gomito poggiato sul finestrino e trasparenti occhi blu a posarsi sul suo interlocutore. «povera» distratto, e non realmente intenzionato ad esprimere il pensiero ad alta voce, mandò un abbraccio spirituale alla creatura costretta a sorbirsi il biondino come fratello. Avrebbe potuto stringersi nelle spalle, augurargli buona vita, e riportarlo a casa – ma che figura avrebbe fatto con la redazione? E con I suoi cugini? Già credevano non fosse buono a nulla, non poteva tornare – di nuovo – con le mani vuote, e l’ennesimo errore a pesare sulla loro produzione. Pragmatico, poggiò le braccia sulle cosce chinandosi verso l’altro. «mi dispiace per l’inconveniente» mentì con occhi sinceri, trattenendosi dal dargli una pacca sulla spalla. «ma, se facciamo rimanere questa svista fra noi» indicò lo spazio fra loro, arcuando entrambe le sopracciglia. «la prossima volta che busserò alla vostra porta, sarà per la sinclair giusta» sorrise, allargò leggero le braccia lungo I fianchi. Non voleva certo privare sua sorella della possibilità di incontrare YaleHilton, giusto? Neanche lui poteva essere egoista da toglierle quella che, senza dubbio, sarebbe stata una gioia per lei.
    E non lo stava ricattando, eh. Esponeva solo un dato di fatto. Se avesse dovuto riportare Perses a casa, con tanto di coda fra le gambe, con il cazzo (metaforico, ma a questo giro anche letterale) che sarebbe tornato a metter piede sul loro zerbino. «Ho sedici anni. Suono, disegno, faccio jogging.» noia, noia – N O I A. Finse comunque interesse, annuendo partecipe degli interessi del sedicenne. Prevedibile fosse un’artista, anche se avrebbe di gran lunga preferito un poeta – così, giusto perchè mancava alle sue collezioni. «Animale guida? Non penso di averne uno. Dove stiamo andando?» Non aveva un animale guida? Jeez, ma da dove arrivava. Inspirò dalle narici ed espirò, rilassandosi sul sedile della limo. «fuori città» rispose evasivo, così da evitare di fargli notare le proprie lacune in geografia. «in montagna, dove uccidere qualcuno e nascondere il cadavere, è più semplice» sorrise, più sincero e divertito di poco prima, arricciando lievemente il naso verso di lui. PER SKERZARE, OVVIAMENTE. Fece un vago cenno con la mano per congedarlo. «ti faccio risparmiare un po’ di socialità per le telecamere. Raccogline quanta puoi, se puoi» ne dubitava, ma ehi! Non si smetteva mai di sperare.

    Era riuscito a rimanere in silenzio per tutta la durata del viaggio, dimenticandosi completamente dell’esistenza del topo (ed il ghiro poggiato sulle sue gambe #ihih). Fu quasi stupito quando, a macchina ferma, si rese conto di non essere solo: bello dissociarsi, uh. «c’è una baita dove puoi cambiarti, ed indossare abiti più…adatti» fece scattare la portiera, ma ancora non la aprì. Si chinò invece in avanti, sussurrando appena un «non ho davvero intenzione di ucciderti» non si sapeva mai. A cui aggiunse, con il migliore dei sorrisi nel suo repertorio. «a meno che tu non me ne dia motivo» JOKIIIIIIIIIIIIIING. Davvero, per quanto le sue mani fossero effettivamente sporche di sangue, Yale aveva l’istinto omicida di una coccinella – molto più bendisposto ad essere il morto, piuttosto che l’uccisore. Uscì dall’auto stiracchiandosi come un gatto, ammiccando benevolo alla telecamera già puntata verso di lui. «io e persessinclair abbiamo fatto amicizia, ma – dato che voglio presentarlo anche a voi – abbiamo deciso» aveva deciso* senza interpellare Elsa, ma ehi!, aveva smesso di avere voce in capitolo quando s’era mostrato frigido ed asociale. «di giocare al gioco delle cento domande! uuhhh» dalla regia confidava che, a quel punto, avrebbero poi inserito fischi ed applausi. Già in tenuta da trekking, rimase in attesa del sedicenne facendo un po’ di polite talk con I suoi fan. Quando apparve, bianco come una bufala ma non altrettanto gustoso, gli rivolse un sorriso smagliante ed allegro. «allora pers, rakkonta ai nostri fan: come ti chiami? Di dove sei?» scorse le cento domande sul telefono, lanciando poi un’occhiata di sottecchi a Casper. «sport preferito?» nondirequidditch. «dove sei in questo momento?» per quella domanda, avendo passato (s)piacevoli momenti in compagnia del ragazzino, la risposta poteva immaginarla da sè: all’inferno.
    29.08.2018 | h: 8:00
    23 y.o. | former wampus
    Have you ever had
    a nightmare
    bigger than everybody?
    Brighter than the sunshine, Brighter as I burn, burn away


    mi fa più ridere del necessario che fra le domande ci sia hp, ma ecco qui la lista!!
     
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