Iniziò a misurare la piccola stanza a grandi passi, correggendo le posture scialle dei propri compagni di squadra con ferine occhiate omicide: credevano forse che quello fosse un gioco? Okay, sulla carta poteva anche esserlo, ma sapevano tutti che nella realtà non fosse così. Era guerra. Jericho era già incredibilmente triste del fatto che avessero bocciato la sua proposta di usare armi vere (rude. Tanto chi moriva più, di quei tempi, per una banale pallottola? E poi, suvvia, in caso di morti bastava fare una rapida chiamata a Lancaster e divenivano tutti dei Lazzaro), non poteva permettere che prendessero la partita, seppur non letale, alla leggera. «se perdiamo…» sollevò gli occhi chiari su ciascuno di loro: Jaden Beech, mai una delusione in quel campo, annuì con fiera determinatezza; Eugene Jackson ricambiò l’occhiata della Lowell come se mai in vita sua, fatta eccezione ovviamente per la pallina rosa eubeech di ormai cinque mesi, avesse visto qualcosa di più adorabile. Lo odiava. Jeremy Milkobitch guardava lo schermo del proprio telefono con pesanti palpebre assottigliate e sguardo (prevedibilmente) confuso, dandole modo di comprendere che, anche quel giorno, fosse fatto. Odiava anche lui. E poi c’era Eminem – semi cit. Non sapeva chi fosse, ma pregava per lui che sapesse il fatto suo, perché in caso contrario la sua vendetta sarebbe stata cruenta e dolorosa. La osservava con enormi e terrorizzati occhi azzurri, secco come un chiodo e alto quanto un palo da lap dance (fino al soffitto, sì); aveva un po’ l’aria di un reduce di guerra. Si domandò pigramente se al primo sparo si sarebbe richiuso a palla risentendo dei war flashback da fronte – non le interessava abbastanza da domandarlo: in caso fosse diventato un peso per la squadra, non avrebbe perso il sonno nell’eliminarlo personalmente dai giochi. In ogni senso possibile ed immaginabile. «vi troverò,» un passo, le mani incrociate dietro la schiena come Sinclair Hansen al limitare di un nuovo, ed affascinante, cantiere. Si fermò di fronte a Eminem, arrivando a malapena allo stomaco di lui. Non che l’altezza fosse un problema, per la Lowell: compensava in malvagità, apparendo alta quanto gli alieni di space jam dopo la pozione magica. «e vi ucciderò nel sonno.» Sorrise, ma non fu un sorriso particolarmente piacevole. La smorfia le si congelò sulle labbra nell’udire il ridacchiare, neanche isterico oh!, di Eugene; sapendo cosa stava per accadere, si voltò appena in tempo per offrire all’obiettivo della fotocamera il dito medio che meritava, così che suo fratello, nella stupida chat di whatsapp con i suoi amiki, ricevesse il saluto che meritava. «ho il triplo delle possibilità con te» battè lentamente le ciglia osservando il Jackson. Sarebbe suonata più ragionevole come minaccia se la Lowell avesse realmente avuto intenzione di portarla a termine, ma si accontentava di far valere la vaga possibilità di poterlo, e volerlo, effettivamente fare: non poteva, per inciso, far morire suo cugino (maledetta bestia immonda ed infame, come aveva potuto farle quello ancora non se lo spiegava. Traditore); si teneva le sue riserve per la sorella del Milkobitch. Ma soprattutto, tristemente, non voleva uccidere Eugene Jackson perché in un modo malsano e subdolo gli… ah, che sospiro di frustrazione; persino pensarlo le dava le nausea. Dicevamo, gli voleva bene. Ew. Seguendo il filo dei propri pensieri piuttosto che l’ambiente attorno a sé, arricciò il naso e scosse il capo. «posso sempre farti male.» rimarcò, aggrottando le sopracciglia e suonando più infantile di quanto non fosse sua intenzione, alzando gli occhi blu sul Jackson. Cercò il sostegno di Jade sperando nel club bassi grl pwr, e con sua immensa (ma celata: show no mercy) soddisfazione la vide tirare una gomitata allo stomaco del pavor. Sapeva fosse amore, ma preferiva credere che lì dentro non ci fosse spazio per simili sentimentalismi, e quella gomitata significasse che fosse disposta ad ucciderlo per vincere. Almeno metaforicamente, dai. Concedeteglielo. «tu sei quello più a rischio.» un ringhio, il dito puntato contro il petto di…Eminem? Ma no, povero stendino. Ovviamente la propria furia in miniatura era indirizzata a Jeremy, occhi ridotti ad una fessura e le labbra una linea sottile. L’unico in quel gruppo (Eminem non si considerava neanche) che avrebbe effettivamente potuto uccidere senza perdere troppo sonno, e di cui poteva abusare psicologicamente (nonché picchiare effettivamente; non era mai giunta a tanto, ma c’era sempre una prima volta per mostrare le proprie doti ninja) senza sentirsi in colpa. Schioccò irritata le dita davanti alla faccia dell’ex Tassorosso, un pugno sul fianco ed indice e medio della mano libera ad indicare prima sé e poi lui. Non si fidava. Avrebbe preferito Archibald, almeno con i pomeriggi passati al poligono con il coinquilino di Lydia & co, avrebbe potuto effettivamente rendersi utile. Ed invece no. Un Milkobitch. Sempre meglio di una Dallaire. «ti controllo.» Indietreggiò di un paio di passi così da poterli osservare tutti contemporaneamente; con il fucile laser, indicò sulla lavagnetta (beh? Era pur sempre una Lowell.) le foto segnaletiche dei loro avversari, ciascuno all’interno di un mirino come, l’anno successivo, Eminem avrebbe incorniciato MGK nel majestic brano Killshot. «aidan è subdolo. dev’essere il primo - il primo! - a morire.» guardò Eminem: il compito era chiaramente suo. «dakota è una patata. Jackson, è il tuo target. Seducilo se necessario» sentì gli occhi chiari della Beech su di sé, ma non si scompose: «la guerra è guerra.» volse il proprio sguardo a Jeremy, puntando la punta dell’arma verso la sua testa. «tu hai niamh. Probabilmente è fatta quanto te, quindi potete eliminarvi a vicenda» pragmatica come un generale dell’esercito, Jericho Lowell continuò il suo toto morti posizionandosi di fronte a Jade. «gwen è una degna avversaria» assottigliò le palpebre, inspirò dalle narici: «distruggila» Diede le spalle alla sua squadra, osservando solenne la fotografia di Darden. Pareva una criminale dei cartelli argentini in quella foto, sopracciglia aggrottate e sguardo fosco ed annoiato verso l’obiettivo; erano rare le volte in cui l’aveva trovata più bella, con quella mandibola squadrata, «jericho» le labbra morbide piegate verso il basso, «jericho?» i capelli corvini a incorniciarle il viso sottolineando il denso pallore porcellana della pelle, e- «JERICHO» battè le ciglia e scattò (letteralmente, per suo immenso imbarazzo.) sul posto. «ARRIVO.»
Odiava già tutte quelle bestie incompetenti. Digrignò i denti, la schiena appiattita contro la parete e la testa reclinata all’indietro. Perché a lei. Aveva appena sparato a Eminem (sì, il membro della sua squadra) perché faceva veramente troppo schifo a quel gioco; l’aveva (accidentalmente) avvistata, ed ogni tanto alzava il braccio per salutarla. Cristo santo, Eminem. Cristo Santo. La sua nuova strategia era diventata quella di non fare assolutamente nulla finchè i suoi compagni non si fossero fatti fuori a vicenda – e poi dicevano che i Grifondoro non seguissero la logica! – in attesa del momento propizio per entrare nel cuore della questione. Non aveva mai reputato né Gwen, né di certo gli altri sfortunati giocatori al suo livello, motivo per cui li aveva scaricati all’eubeech &co: il suo unico obiettivo era Darden. E nel mentre, godersi la carneficina al piano sottostante. C’erano momenti, per inciso: come quello, in cui Jaden Beech le faceva sinceramente paura; non comprendeva come Eugene Jackson potesse trovarla eccitante (malgrado riuscisse a sentirne i sospiri languidi perfino da lì: buon Dio, Jackson, get your shit together), ma la mente maschile era decisamente al di fuori della sua portata - ironico detto da una telepatica, ma comunque. Si sporse in avanti per studiare l’area, ed in quel momento qualcosa - qualcuno la colpì. Non ebbe bisogno di luce, o di usare il proprio potere, per riconoscere Darden Larson; avrebbe riconosciuto il suo profumo ovunque, e non perché ogni tanto le rubasse i vestiti – era così e basta. Strinse istintivamente le dita attorno al suo braccio tirandola nella zona coperta prima che qualcuno del club dementi potesse vederle. Era la sua capretta bianca, il Sacrificio Maggiore, non poteva spararle in quel momento: dovevano rimanere le ultime due in piedi, altrimenti dov’era l’angst. «stai zitta o ci scoprono» ammonì in un sibilo, appiattendosi maggiormente contro il muro. Lanciò un’occhiata dal corridoio cui era giunta la Larson, spalle rigide ed arma stretta al petto: via libera. Solo quando si fu assicurata che fossero fuori pericolo, si rese conto di quanto lo spazio disponibile fosse esiguo. Non…non doveva mica turbarla, una constatazione del genere. D’altronde non era la prima volta in cui si trovavano compresse in luoghi piccoli, solitamente per fuggire da (Niamh) (Charles) (Dakota) (Syria) (vari Withpotatoes) lo sfortunato di turno che avesse deciso di trascinarle a vivere la loro gioventù. Meh, non aveva mica un abbonamento a netflix solo per il piacere di pagarlo, la Lowell. Deglutì e distolse lo sguardo dalla ragazza per posarlo ovunque che non fosse su di lei, il che limitava a…diverse zone d’ombra, ma così fosse. Maledisse il suo potere per non permetterle di passare attraverso i muri, impedendole il classic ma sempre ad effetto panic moonwalk come uscita di scena. Sapeva che non avesse alcun, alcun, senso essere nervosa in presenza della mora, ma…non poteva farci niente. Non che non si sentisse a suo agio, d’altronde era pur sempre Darden Larson, ma c’era un qualcosa d’indefinito e pungente a scavare l’aria attorno a loro rendendola più densa e pesante sui polmoni – e non era certa fosse piacevole. Ingoiò ancora saliva cercando di liberarsi di quello stupido, ed insensato, senso di soffocamento. «non mi odiare» Aveva una risposta standard ad affermazioni del genere, e d’istinto ribattè con l’usuale «troppo tardi-» cosa. Voltandosi verso di lei per lanciarle l’occhiata che meritava, la ritrovò maledettamente vicina. Avrebbe voluto avere potere sullo stupido (mal)funzionamento del proprio corpo ,che lo spinse a far pompare più rapidamente il sangue, il cuore a battere contro le costole rapido ed assassino quanto le rime di Eminem, ma non lo aveva: poteva solo pregare che le danze di giubilo al piano sottostante distraessero la Larson abbastanza da non farle udire quell’imbarazzante rumore molesto. E spalancò gli occhi, Jericho Karma Lowell, quando l’altra annullò la distanza fra loro posando le labbra sulle proprie. Si irrigidì d’istinto, il corpo a tendersi per l’accesso di adrenalina; non potè fare nulla per il respiro rimasto incastrato nella trachea, se non trattenerlo. Non poteva più credere fosse un errore. Sentiva le dita di Darden premerle sulle guance, tenendole il viso in una presa morbida ma decisa. Jericho sapeva, sapeva di potersene liberare facilmente; sapeva che se avesse voluto, avrebbe potuto schiacciarsi maggiormente contro la parete evitando la stretta di lei, gli occhi zaffiro a sottrarsi a quelli altrettanto chiari della Larson. Ma voleva? Cosa stava succedendo. Sentì le guance accaldarsi, una tensione allo stomaco a contrarre i muscoli dell’addome. Non era brava a reagire, intrappolata in quelle insulse insicurezze che l’avevano obbligata a chiudersi in se stessa per tutta la vita, rendendola a diciott’anni uno dei più giovani Pavor sul mercato. Non essendo affine alle interazioni sociali, non aveva problemi a uccidere o portare al Ministero ragazzini o vecchi, se li credeva ribelli – uno dei motivi per i quali nella sua vita non aveva mai avuto molti amici, né era riuscita a tenersi quelli che aveva. Non si mosse, rimanendo immobile e passiva sotto il tocco delicato di Darden. Non pensare, Jericho. non pensare. NON PENSARE ??? Probabilmente sarebbe rimasta in quella scomoda posizione, senza fare assolutamente nulla, per sempre, se la Larson non avesse dischiuso la bocca sulla propria, lasciandole un poco del suo ossigeno e del suo sapore sulla punta della lingua. Bastò quell’infinitesimale movimento per riportare il mondo alla sua rotazione, la gravità al suo posto ed il tempo a scorrere in ogni battito di cuore: alzò esitante una mano, fino a quel momento stretta ermeticamente attorno all’arma, ed avvolse le dita attorno alla nuca della ragazza. Dovette stringerla a sé un po’ più forte, anche solo per far smettere quelle stupide, stupide!, dita di tremare: mai le sue mani l’avevano tradita, sempre immobili e pronte sul grilletto. Perché dovevano fare così?. Con un sottile ed irritato verso di gola, arcuò leggermente la schiena spingendosi in avanti, lasciando che rimanesse solamente il proprio fucile a dividere i loro corpi. Qualcosa - qualcosa - stava cercando di riportarla alla realtà facendole notare…cosa? Non ne aveva idea, ed in quel momento sinceramente non le importava. Stava… stava baciando Darden Larson? Stava baciando Darden Larson. STAVA BACIANDO DARDEN LARSON? Oh boi.
| |