i had my shit together once, i think i was like 7

stiles + nicole + iden

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    Si schiarì la voce, sollevò lo sguardo al soffitto spostandosi a disagio sulla sedia. Sentiva il cuore tamburellare nervoso contro lo sterno, e poteva percepire le dita, strette al tessuto dei jeans, tremare flebilmente. Andrew Stilinski odiava, trovarsi lì – ma ancor di più odiava non aver avuto altra scelta. Le luci al neon rendevano le pareti gialle della piccola stanza quadrata ancor più scialbe, il pavimento di un plastico verde sporco ancor più artificioso; razionalmente sapeva di non essere in trappola, così come sapeva di potersene andare in qualunque momento, ma saperlo nè lo rendeva possibile, né aiutava ad alleviare il senso di soffocamento. Gli venne quasi da ridere, e dovette abbassare il capo verso i propri piedi per nascondere al resto della stanza un rigido mezzo sorriso nevrotico.
    Dio Santo, com’era successo. Continuava a torturarsi domandandosi quando la sua vita fosse andata così a puttane, sicuro che trovarne l’origine l’avrebbe reso, se non risolvibile, almeno tollerabile - ma non riusciva a trovare il nodo, a districarsi da quelle corde sottili che stringevano di più ad ogni flebile tentativo di fuga. Deglutì e serrò le palpebre, mentre una parte dei suoi pensieri continuava a riportarlo alla facile, ovvia, via d’uscita – così semplice, non avrebbe fatto male a nessuno.
    Ma non poteva. Si sentiva stupido, patetico, in quelle misere condizioni. C’era gente – c’era Isaac, ed ancora faticava a crederci - che lottava ogni giorno contro l’usurpato potere della politica odierna e sopravviveva: perché la sua battaglia, così infima ed all’apparenza una cazzata, doveva costargli sudore freddo lungo la schiena e sospiri ruvidi ad un passo dal pianto? Non aveva senso. Continuare a ripetersi che non avesse senso, però, non lo aiutava. Era difficile trovare la forza di svegliarsi, era difficile andare al lavoro, era difficile concentrarsi sulla strada quando guidava - era difficile pensare. Un problema che aveva sottovalutato troppo a lungo, e che per quanto gli sarebbe piaciuto il contrario, non poteva più ignorare.
    Non voleva essere quello, Stiles. Sapeva - sapeva - di essere di più, e non voleva che la sua intera vita girasse attorno ad una cazzo di brutta strada presa con leggerezza da ragazzo: era una di quelle guerre che andavano combattute il prima possibile, se si voleva avere una possibilità di vincere.
    Ma non sapeva come fare.
    Un fottuto serpente a mordersi la coda, avvelenandosi e consumandosi senza essere in grado di staccare le fauci dalle squame. Fece guizzare la lingua sul labbro inferiore, inspirando fino a sentire i polmoni scoppiare. Aveva sempre odiato l’attesa più del momento in sé; clinicamente parlando, sapeva fosse un problema di insicurezze e aspettative – ma anche lì, saperlo, non cambiava i palmi umidi a strizzare il bordo inferiore della maglia. Annuì all’uomo seduto dirimpetto a lui, l’inizio e la fine di quel circolo. «mh, ciao a tutti» tossì per recuperare tempo che non aveva, le dita a scivolare sulla spalla per grattare la nuca. «sono -» «stiles?» Ed ecco uno dei motivi per i quali aveva rimandato così a lungo l’incontro con gli Alcolisti Anonimi. Aveva davvero, davvero sperato che scegliere un centro babbano gli avrebbe evitato l’imbarazzo di incontrare qualcuno che conosceva, ma quando sollevò i bruni occhi tristi di fronte a è, con la lentezza di chi sapeva fosse inevitabile ma preferiva ritardarlo, trovò una sorridente Monica a sollevare allegramente una mano per salutarlo. Ricambiò con un sorriso tirato e pallido, le spalle a irrigidirsi ed i muscoli del viso a tendersi. Non farti prendere dal panico, Stiles. Non è successo niente. Non vuol dire niente. Eppure non riuscì a continuare a parlare, la lingua incollata al palato ed il cuore ad assordarlo nelle orecchie. Strizzò le palpebre premendo le dita sulla propria pelle, cercando di costringere fisicamente il cuore a rimanere al suo posto – e quando la tensione si fece troppa, il silenzio troppo denso e gli sguardi troppo curiosi, scattò in piedi afferrando la giacca poggiata sullo schienale della sedia. «- nel posto sbagliato.» avrebbe voluto che la voce suonasse più forte e meno fragile, che non si spezzasse a metà sentenza facendolo apparire un ragazzino lagnoso e viziato – ma non potè farci nulla. Si spostò lateralmente d’un passo evitando senza difficoltà il braccio, allungato per trattenerlo, del tutor quando passò al suo fianco, dove superò tutti per abbandonare l’incontro.
    Uscì, Andrew Stilinski, in un’anonima strada londinese coperta di foglie e carta straccia. Grigio il cemento, grigio il cielo – grigie le persone a passargli affianco senza vederlo. Ingoiò saliva febbrilmente, il vento pungente a sferzare le braccia ancora scoperte ed il viso pallido ed accaldato dell’ex Tassorosso.
    Non ce la faccio.
    Stupido – lui, il problema. Era consapevole che alla sua età si avesse una certa predilezione per alcool e sostanze stupefacenti, uno dei motivi che l’avevano spinto a procrastinare così a lungo, ma sapeva di aver sforato il passatempo entrando in una fascia più problematica e greve: aveva iniziato a quindici anni bevendo per sciogliersi, proseguendo a diciassette e diciott’anni per dimenticare, ritrovandosi a vent’anni con il solo bisogno di non volerci essere ed a ventuno senza sapere come altro vivere. Era diventato un problema, perché interferiva con la sua vita – con i suoi amici, con il lavoro. Con Stiles. Dopo i recenti episodi di black out, e di notti passate solo Dio sapeva dove, aveva deciso di…di fare qualcosa. Non poteva, né voleva, andare avanti così.
    Ma come. Il tremore della mano quasi gli fece cadere il telefono dalle dita, mentre scorreva la rubrica. Nelle giornate buone, sempre più rade di quei tempi, sapeva di non essere solo; sapeva che se avesse chiamato Isaac – santo cielo, malgrado non stesse più con il Lovecraft perfino Sharyn - o Niamh non avrebbero aspettato neanche la fine della chiamata per andarlo a prendere, ma…come potevi dire ai tuoi migliori amici, i quali entrambi lavoravano in due maledetti bar, che avevi un serio problema con l’alcool. Come poteva dirgli che mentre loro combattevano una guerra di ere e storie, lui non riusciva neanche a vincere contro se stesso per impedirsi un piccolo sorso; che faceva lo psicomago, eppure continuava a prendersi per il culo dicendosi che un bicchiere non avrebbe cambiato nulla. Aprì nervosamente il contatto di Jeremy Milkobitch, il pollice sospeso a pochi centimetri dal tasto di chiamata. Non gli sarebbe costato nulla. Ma per dirgli cosa, poi? Che aveva fatto l’ennesima cazzata? Che non riusciva neanche a proteggersi da se stesso? E perché avrebbe dovuto - e perché voleva farlo? Perché siete amici. Un mantra che si era ripetuto allo sfinimento, inciso nella mente e sulla pelle, ripetuto al mattino e prima di andare a dormire: siete amici; qualcosa che si ricordava quando nella propria macchina trovava qualcosa di Jeremy, o quando sul tessuto della maglia riusciva ancora a percepire il vago odore d’erba che il Milkobitch si portava sempre appresso come il profumo più costoso. Siete amici - e se ne convinceva quando sentiva le labbra di lui sfiorargli appena il collo, quando la sua risata, quasi sempre di scherno, echeggiava nel piccolo abitacolo della jeep o del suo appartamento, quando tornando a casa copriva gli occhi con il braccio sentendo la pelle pungere e bruciare, o quando sul palato gli rimaneva l’agrodolce sapore della sua bocca. Non era un Jeremy, Stiles; non era un Archibald, non era - non era così, eppure si era adattato per la sopravvivenza della specie: in fondo era un favore che Jeremy aveva fatto a lui, non il contrario. Siete amici, e se lo diceva così tanto, e così spesso, che aveva smesso di crederci: lo erano? Lo siamo. Lo erano? Osservò il proprio dito sospeso sullo schermo, chiedendosi – in ogni caso – cosa avrebbero potuto offrirsi a vicenda un tossico ed un alcolizzato. Consigli sull’hangover? Già fatto. Sorrise fra sé di asciutto divertimento, gli occhi ridotti a una fessura ed il telefono poggiato contro la fronte. Perché - duecento, mille perché. Non gli ci volle molto, se un frastagliato battito di cuore, per rendersi conto di volerlo chiamare per puro egoismo: un po’ perché sentire l’annoiata ed ovattata voce dall’altro capo della linea, era confortante – sapere che lui, al contrario di Jay, Dakota o Murphy, avrebbe ancora risposto - un po’ perché era il suo meccanismo di distrazione migliore.
    Ed un po’ perché sapeva che Jeremy Milkobitch non gli avrebbe impedito di bere. In momenti come quello si rendeva conto di quanto, di quanto quel problema si fosse insinuato nelle vene e nelle ossa, corrompendo quel briciolo di contatto umano che lo Stilinski era riuscito a preservare. Un grattato verso di gola abbandonò le labbra dischiuse, i polmoni a bruciare e le spalle curvate sotto il peso di una vita che Stiles non riusciva più a tollerare. Deglutì ancora, ricordandosi che lo stava facendo anche per lui: che voleva diventare una persona migliore, un amico migliore; che voleva esserci se avesse avuto bisogno di lui; che voleva essere sobrio, perché quand’era ubriaco la linea fra amicizia ed altro si faceva troppo sottile e confusionaria, spingendolo in un abisso di scelte sbagliate e frasi smozzicate che il mattino dopo non ricordava di aver pronunciato.
    Patetico - lo sapeva, buon Dio!, lo sapeva. Come sapeva che chiunque avrebbe definito quella relazione, di amicizia, tossica, e come Stiles in cuor suo sapeva fosse l’unica cosa buona che gli fosse capitata nell’ultimo anno. Non che l’avesse mai detto al Milkobitch.
    Onestamente, non credeva ce ne fosse bisogno – era un ragazzo piuttosto trasparente, Andrew Stilinski.
    Chiamalo. Perché - perché. Per dimostrargli l’ennesimo fallimento, la centesima battaglia persa? Non erano così amici, loro due.
    O forse lo erano, e quella costrizione allo stomaco all’idea era solo un motivo in più per non chiamarlo. Non sapeva neanche perché fosse l’unico nome sul quale si fosse soffermato: Isaac sarebbe stato più gentile, Niamh più divertente. Ma loro non erano Jeremy Milkobitch. Ed avrebbe voluto, Andrew Stiles Stilinski, che quell’infantile contro non fosse abbastanza: ma lo era.
    Lo maledettamente era.
    Stava per premere quel maledetto pulsante, quando uno spintone lo strappò dalla linea - caotica - dei suoi pensieri riportandolo alla realtà in modo brusco e meschino: spalancò gli occhi, il telefono a sfuggire dalla presa schiantandosi con un rumore poco confortante sul marciapiede (c’era un motivo se a Quidditch non si era mai proposto come Cercatore); quando alzò l’offeso sguardo verso il passante, questi – senza degnarlo di un’occhiata – continuò a proseguire schiacciando il cellulare sotto la suola. Lo osservò a bocca dischiusa, incapace di metabolizzare una risposta: era l’internet explorer dell’umanità, Stilinski. Ecco perché quando «sei un infame?» il passante era già troppo lontano per udirlo. Non ebbe coraggio di guardare in che condizioni fosse lo schermo. Lo infilò in tasca a malapena toccandolo, spingendo i piedi verso l’unico luogo dove sapeva di aver bisogno di andare.
    Ed un quarto d’ora dopo, mani in tasca e capo chino, Andrew Stilinski osservava la lapide di suo fratello. Era buffo, sapete; quand’era in vita non avevano mai avuto un rapporto particolarmente stretto, ma da quando era (partito per il Messico) ”morto” riusciva a parlargli più facilmente. Forse perché, sotto terra, non poteva giudicarlo; forse perché non avendolo davanti, non poteva temere che l’altro non lo sopportasse.
    Forse perché, senza averlo al proprio fianco, poteva fingere che non lo odiasse. Si era convinto per anni che Xavier Stevens fosse solo introverso - che i grugniti fossero il suo modo, peculiare ma sincero, di volergli bene. Stiles, cresciuto solo, non aveva mai avuto cuore di dirgli che di un po’ di affetto, di un po’ meno di onestà, aveva bisogno come ossigeno: che poteva trattarlo di merda trecentosessantaquattro giorni l’anno, se il trecentosessantacinquesimo gli batteva una mano sulla spalla ammettendo di tenerci. Che se lo sarebbe fatto andar bene. Si era costretto a credere che i loro fossero solo problemi di comunicazione.
    Poi Xavier se n’era andato. E lo capiva, Stiles. Voleva dare un futuro migliore alle bimbe, vivere senza sentirsi assediato o in trappola. Aveva senso - ma non riusciva comunque a cancellare il denso sapore dell’abbandono dalla lingua o dalla carne. Da quando c’era stato il funerale, era ormai prassi del Tassorosso fermarsi alla lapide del fratello; osservava il cielo il prato all’inglese, mandava l’ennesimo link stupido a Murphy, raccontava a Jay com’era andata la sua giornata. Chiamava Dakota, gli lasciava messaggi in segreteria («ehi dak, avrei … avrei davvero bisogno tu fossi qui, sai? Saresti un ottimo sober coach» l’usuale pausa, o informazioni non richieste su come procedesse ai Pokèmon. E l’appena sussurrato, bisbigliato in note vocali registrate ed eliminate anche a Jay e Murphy, «mi manchi, amico. puoi per favore - puoi semplicemente tornare a casa?») per poi cancellarli, così da non riempire la memoria del telefono del Wayne: quando erano (morti) spariti, Stiles si era…introdotto, e non troppo legalmente, nell’appartamento Makota. Era rimasto…come dire, sorpreso dal trovare i tre ragazzini raggomitolati sul divano, ma non abbastanza sconvolto da non domandare loro se Dakota avesse preso con sé il telefono.
    Ce l’aveva con sé da quel giorno. Non l’aveva detto neanche a Niamh; si domandava se la ragazza, come lui, contribuisse a riempire di messaggi le segreterie di Dak e suo fratello – non abbastanza coraggioso da chiederglielo, temendo che la risposta fosse sì e fossero stati entrambi costretti a guardarsi in faccia ammettendo l’inammissibile.
    Aveva creduto che i primi tempi della loro assenza sarebbero stati i peggiori.
    Si era sbagliato.
    «eh,» alzò il capo verso la voce, leggermente sorpreso di trovare qualcuno al cimitero a quell’ora. Abbozzò un sorriso, cortese e tirato, verso il barbone che si trascinava pesante nella sua direzione. «è per questo che viviamo, uh? Per morire, intendo» E lo guardò portarsi alla bocca una bottiglia trasparente ma dal contenuto inequivocabile, cogliendo l’ondata alcolica di vodka sin da lì. Si ritrovò a fissare il liquido con intensità e bramosia, lo sguardo assente ed il cuore a palpitare fradicio contro le costole. Anche il barbone dovette accorgersene, perché gli volse un bieco sorriso e gli porse la bottiglia, ancora piena a metà. «mi sembri pallido, ragazzino. Serve più a te che a me»
    Serve – serve più a te che a me. Con più fatica del necessario, abbassò la testa fino ad osservare la bottiglia stretta gelosamente al petto. E si odiò, e si repulse nel sentirsi attratto da quell’effimero e freddo conforto, perfino se offerto da un vetro che doveva portare più malattie di un topo o un piccione. Se ancora avesse avuto del coraggio, od un briciolo di sanità mentale, a giurar su Dio, Andrew Stilinski avrebbe pianto.
    Ed invece rise, così secco da dolersi la gola ed i denti, così disperato da non riconoscersi e non volerlo fare. Si sedette sull’erba umida con le gambe incrociate e la fronte premuta sul tappo, respiri in rantoli e palpebre serrate.
    Capite perché doveva smettere.
    Non era sano. Non era divertente. Non era bello e dannato: era solo un ragazzo triste con problemi d’alcolismo.
    E quelli come lui, non piacevano a nessuno.
    Si riscosse da quella posizione, obbligatoriamente immobile per evitare di cadere in tentazione, solamente quando il telefono vibrò nella tasca. Il momento della verità: schermo rotto, o schermo intatto?
    Che razza…che razza di domande! Spaccato, chiaramente; un adorabile, e già troppo costoso, caleidoscopio di linee arcobaleno, ma riuscì comunque a leggere il messaggio. Nicole gli ricordava…che dovevano vedersi, quel giorno? e ne seguiva un indirizzo? non… non ci provò neanche a ricordare: inutile specificare che non sapesse di aver appuntamento con Nicole, quel giorno.
    D’altronde, sarebbe stato assurdo il contrario.
    Ma a casa sua? Doveva essere davvero disperato, l’ultima volta che aveva bussato al suo ufficio.
    Non si sarebbe stupito neanche di quello.
    Nei mesi precedenti, pur sapendo di …violare una certa etica professionale, Andrew Stilinski (con estrema non curanza) s’era approcciato sempre più spesso alla collega Rivera – dapprima con domande innocenti e casuali fatte per caso nella stanza delle fotocopiatrici o alla macchinetta del caffè, continuando poi con quesiti più specifici e problemi che la notte gli impedivano di dormire. Ad un certo punto, non era certo di quando, aveva perfino smesso di fingere che fossero domande per un amico: si vedeva lontano un miglio, che Stiles avesse un problema.
    E che il problema, fosse Stiles.
    Nicole era semplicemente stata troppo gentile – troppo paziente, troppo il tutto che a Stiles mancava da mesi. Non erano amici, il che faceva sentir più libero lo Stilinski sul fatto che lei potesse o meno odiarlo, ma non erano neanche sconosciuti, con i quali l’ex Tassorosso entrava in imbarazzata paranoia. Non era propriamente la sua terapeuta, ma era quel che più dannatamente ci andava vicino.
    Digitò l’indirizzo su google maps, seguendo le indicazioni senza porsi domande – e fidandosi ciecamente: viveva a Londra da tutta la vita, ma della sua città non sapeva un cazzo. Una volta arrivato dalla Rivera avrebbe potuto scusarsi per l’essere stato, evidentemente, più caso umano del solito quando l’aveva incrociata l’ultima volta (e davvero?? Non riusciva a …ricordare quando? Cristo Santo) e non aveva bisogno di…supporto: sì, sostanzialmente avrebbe mentito. Odiava essere un peso nelle vite degli altri.
    Di base, odiava se stesso. Chi non lo faceva, di quei tempi?
    Solo quando giunse alla porta principale, si rese conto di aver ancora sotto braccio la bottiglia di vodka del barbone.
    Lasciala per terra, la prendi dopo.
    Buttala.
    Rompila.
    Stiles?
    «sì,» asserì al nulla, ancora però incerto su come agire. Alzò il capo, le dita immobili e serrate attorno al corpo della bottiglia, e - «kaufman?» corrugò le sopracciglia, gli occhi scuri ad osservare il viso impassibile del Corvonero. Che…che strana coincidenza. Fece vagare lo sguardo dal ragazzo alla bottiglia, sentendo già premere sulla lingua l’insulso, e bugiardo, non è come sembra. «l’ho…t…rov…ata…?» tentò digiustificare, adagiandola con la delicatezza che avrebbe riservato ad un infante sul marciapiede. «behcomunque, ci si becca, eh» lungi dallo Stilinski immaginare che avessero la stessa destinazione; non suonò il citofono, richiedeva troppe skills social che non possedeva, ma scrisse un messaggio alla bionda dicendole di essere sotto casa sua.
    Credo? - cit testuale.

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    stiles
    (andrew stilinski)
    I'm forced to deal with what I feel
    There is no distraction to mask what is real
    I could pull the steering wheel
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    15.09.2018
    huge nerd
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    15.03.1997
    psychowizard
    car radio - twenty one pilots
    prelevi? // i panic at a lot of places besides the disco


    Edited by #epicWin - 29/10/2018, 03:37
     
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    amaris 🍑

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    nicole marie rivera
    I don't need no help,
    I can sabotage me by myself.

    Socchiuse gli occhi, negandosi la visione di quel preciso punto sul soffitto che ormai doveva star fissando da almeno un'ora, ed il buio dietro alle palpebre le apparve chiazzato di piccole macchie luminose perfettamente combacianti all'intonaco del suo salotto. Rimase a contemplarle per un po', fino a che anch'esse non sparirono lasciando posto a nient'altro che vuoto. La casa era avvolta nel silenzio, fatta eccezione per l'orologio in cucina che riusciva a sentir ticchettare persino da lì. Prima o poi l'avrebbe tirato giù e gettato via. Concentrandosi, riusciva a sentire anche il lieve ronzio del frigorifero, lo scroscio delle tubature idrauliche, il rumore della strada oltre le finestre chiuse. Si sentì rabbrividire. Riaprì gli occhi, si alzò in piedi e si diresse verso l'ingresso, poggiando la mano sulla maniglia con fare esitante. Prese un profondo sospiro prima d'abbassare la maniglia ed aprire la porta di uno spiraglio, abbastanza per accertarsi che fuori non ci fosse nessuno. Dio, era letteralmente sull'orlo di una crisi nervosa.
    Si voltò dunque, avvicinandosi a quel tavolo su cui aveva poggiato due cartelline, perfettamente identiche tranne che per il nome inciso sulla targhetta nel frontespizio: Iden Kaufman, recitava una, Andrew Stilinski, l'altra. Le aveva sistemate con cura lei stessa la sera precedente, e si era più e più volte assicurata che i fogli fossero perfettamente in linea l'uno con l'altro. Sebbene non ce ne fosse affatto bisogno, aveva ripulito casa da cima a fondo e non era riuscita a darsi pace fino a che ogni cosa non gli fosse sembrata perfettamente al proprio posto. Le succedeva sempre così, ogni qual volta qualcosa la preoccupava: iniziava a vedere difetti in ogni cosa, sentiva la soffocante esigenza di mettere in ordine, di eliminare ogni traccia d'imperfezione. E dire che aveva passato quasi sette anni tra mura sudicie e tutt'altro che accoglienti. Forse però era proprio quello il punto, che da quando aveva lasciato l'inferno non era mai più riuscita a tollerare niente che potesse anche solo assomigliargli. Magari aveva perso la testa. Magari era morta, e tutto quello che era successo dopo non era altro che frutto della sua fantasia, le ultime immagini trasmesse dai suoi neuroni sul punto di spegnersi per sempre. A tratti sarebbe stato meglio, meglio che doversi confrontare con una vita intera piena di menzogne, meglio del dover accettare di essere nient'altro che una cavia, un guscio vuoto utile solo a qualche pazzo con l'idea di cambiare il mondo. Chissà, sarebbe dovuta essere lieta di far parte di un progetto di tale entità? Avrebbe dovuto sentirsi importante? Nicole non era così. L'unica cosa a cui riusciva a pensare era a come la sua libertà fosse stata totalmente cancellata, a come non avesse avuto altra scelta che finire lì, tra quelle mura pulite eppure traboccanti di una solitudine tale da farle venire il mal di testa, non riuscendo neppure a rapportarsi agli altri senza farsi venire un attacco di panico nel bel mezzo della conversazione. Erano passate settimane dall'ultimo, ma ancora non era riuscita a scacciarne il ricordo dalla mente. Di solito era relativamente semplice: si ripeteva mentalmente tutte le tecniche di training autogeno che aveva studiato, cercava di stabilizzare il respiro, provava a trattenere le lacrime ed allungava la mano verso la sua borsa o l'armadietto del bagno per prendere una di quelle pastiglie che riuscivano magicamente a tranquillizzarla. E poi tornava al lavoro, come sempre, come se fosse appena tornata dal mondo dei morti -almeno psicologicamente. Ma quell'ultima volta era stato diverso, perché aveva sempre cercato di evitare che qualcuno la vedesse in quello stato ed invece eccola, fragile ed incapace di reagire, dinanzi ad un uomo che a malapena conosceva. Avrebbe dovuto chiudere la porta a chiave, non avrebbe dovuto lasciare che Drake la seguisse fino alla sua stanza, lì dove si era rifugiata nell'istante in cui aveva sentito il cuore in petto batterle più forte del dovuto. Forse non avrebbe neppure dovuto farlo entrare in casa sua, così da risparmiarsi quell'ennesimo colpo allo stomaco, ma oramai era troppo tardi. L'aveva ascoltato, aveva visto coi propri occhi quei fascicoli e, sebbene non ne avesse compreso completamente il senso, si era fatta un'idea sufficientemente chiara del loro contenuto. C'era il suo nome impresso su alcuni fogli, insieme ad altri che non aveva mai visto ed altri ancora impossibili da decifrare poiché rovinati dal tempo e dal fuoco, ed alcune fotografie di sé stessa da bambina che qualcuno doveva averle scattato senza che lei se ne accorgesse. La sola idea che qualcuno avesse potuto osservarla per così tanto tempo le metteva i brividi. Sembravano documenti scientifici, resoconti di studi che le erano familiari ma le cui date non risalivano a pochi anni prima (in quel caso non sarebbe stato niente di nuovo), erano persino antecedenti alla sua nascita. Parlavano di "risveglio del gene", e facevano riferimento a lei e agli altri citati come soggetti sperimentali ancor prima del raggiungimento della maggiore età.
    Per settimane non aveva fatto che rimuginarvi su, incapace di prendere una decisione a riguardo perché in effetti non aveva idea di cosa avesse fra le mani ed una parte di sé non era certa di volerlo sapere. Eppure, alla fine, la sua indole aveva avuto il sopravvento: non avrebbe potuto vivere in pace con sé stessa se avesse celato quelle informazioni che in fondo non riguardavano soltanto lei. Così alla fine aveva deciso di farlo. Nel più discreto dei modi, invero, evitando accuratamente di far riferimento agli elementi 'scottanti'. In breve, sebbene non fosse sua consuetudine, aveva mentito. Aveva inviato una lettera al Kaufman spacciando l'invito come un consulto psichiatrico obbligatorio di routine mentre per Andrew, con cui aveva quanto meno un minumo rapporto, era stato sufficiente spostare il loro solito incontro a casa sua anziché al San Mungo. Odiava dover ricorrere a certi sotterfugi, ma le era sinceramente sembrata l'unica strategia praticabile viste le circostanze.
    Il suono di notifica del suo cellulare riuscì finalmente a darle una scossa, costringendola ad afferrare l'infernale aggeggio babbano -a cui non era mai riuscita ad abituarsi- ed a mettersi d'impegno per non far danni come suo solito. Ma come facevano a vivere i millenials? Il messaggio di Andrew la fece almeno un po' sorridere, perché quella era una delle cose che più gli piacevano di lui: la sua totale incapacità a rapportarsi come convenzionalmente richiesto. Rude forse, ma estremamente simile al suo di disagio. In un'altra situazione sarebbe corsa ad aprirgli, ma nel poggiare il cellulare sul tavolo si ricordò della ragione di quella visita, tanto che dovette far ricorso a tutto il suo autocontrollo per evitare di fuggire in Messico dalla porta sul retro invece che lasciar entrare Andrew da quella d'ingresso.
    «uhm, ciao?» o forse buongiorno, o forse buonasera, o magari richiudere immediatamente la porta. «entra pure, ti—oddio con suo estremo disgusto, posò lo sguardo sulla bottiglia poggiata praticamente davanti a casa sua, ergo in quello spazio che /doveva/ essere immacolato, specie in un momento di tale tensione.
    «la puoi tipo» far evaporare dal mio giardino??
    «ah no, tu non devi» toccare bottiglie d'alcol??
    «vabbé, dopo» i'm watching u bottiglia
    «ma tu devi essere kaufman!» perché l'ho fatto??
    «accomodatevi, prego» cristo nicole, sorridi.





    1989's
    empathy
    psychowizard


    tumblr_m7w2o3N94I1r6o8v2
    made in china — I'm here at the beginning of the end


    La cosa veramente divertente di questo post è che la parte struggente l'ho scritta prima di pranzare, quella idiota dopo. E' un perfetto riassunto della mia vita.


    Edited by meta/noia - 13/6/2019, 20:58
     
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    New number who dis. Andrew Stilinski, certamente non rinomato per le proprie skills sociali, osservò Nicole Rivera nel proprio habitat con l’interesse che avrebbe riservato ad un documentario di National Geographic – e lo stesso timore, perché se non provavi paura a guardare i documentari, stavi guardando quelli sbagliati. Non aveva mai visto la collega all’infuori del San Mungo, ed il fatto che sembrasse uguale, non significava che…lo fosse, ecco. Si trattava di piccole cose, minuscoli accorgimenti a cui il resto della popolazione non prestava attenzione, ma che per Stiles, anni di studi antropologici per fuggire dalle mine vaganti di Hogwarts, identificavano una persona: era sempre così meticolosa con i propri spazi? Certamente non era così nervosa, a lavoro.
    Cosa stava succedendo. Per osmosi, l’ansia di Stilinski raggiunse livelli da Blu Vertigo – con tanto di vertigini, sì – il cuore tachicardico nello sterno a far vibrare la lingua sui denti. «accomodatevi Indicò se stesso, facendo poi guizzare gli occhi scuri da Nicole a Iden. Cioè… perché…perché aveva parlato al plurale? Non poteva certo intendere – TUTTI E DUE? NICOLE MA KE DICI! Avrebbe dovuto saperlo, oramai, che Stiles avesse problemi punto in geometria sociale: le linee andavano bene, tanti angoli ancora meglio (almeno si fondeva nella folla!!&&) ma i triangoli? Dai, ma chi se li cagava i triangoli, neanche Renatone li considerava. «accomodatevi» ripetè, aggrottando le sopracciglia, annuendo fra sé.
    Quindi era il momento degli estremi rimedi. «ma il ragazzino, qui, mi ha giusto appena detto che se ne stava andando» Prima che Iden potesse aprire bocca, Stiles si era già infilato all’interno dell’appartamento della Rivera («con permesso – KE BEL POSTO») e, salutandolo dall’alto con la mano SALIRòòò SALIRòòò SALIRòòò SALIRòòò, gli aveva brillantemente chiuso la porta in faccia. Con estrema non curanza, rivolse un brillante sorriso alla psicomaga. «giurOH, l’ha detto lui – eh, i giovani sono sempre impegnati – assurdo, che avranno da fare poi? Dar da mangiare al proprio tamagotchi?» tratto da una storia vera (Stiles; Stiles, era la storia vera). «hahaha??» hahAHA????? «azzurdo» allucinante! Si guardò timidamente attorno, un braccio attorno alla vita e l’altro a grattare distratto la nuca. Non aveva mai compreso come doversi comportare punto in casa d’altri – quella roba tipo, boh, il bon ton: doveva togliersi le scarpe? Commentare le tende? Oddio – oddio, forse sì, doveva commentare le tende. «belle finestre» …beh. C’eri quasi, Stiles. Schioccò la lingua sul palato, indicandole ampiamente con un cenno della mano (e certo, perchè Nicole MICA SAPEVA dove fossero le sue finestre!!&&). «molto grandi, arieggianti» Avrebbe davvero dovuto smettere di guardare Real Time.
    O di parlare, per inciso. «hanno una bella forma, amO le fInEsTreaiuto» Non ce la fece più, a tacere quella richiesta di soccorso. Il viso contorto in un’espressione angustiata, le spalle rigide per la tensione. Si fosse trattato di qualcun altro, avrebbe tranquillamente continuato a fare quello strano fino a che il suo interlocutore non avesse deciso di porre fine alle sue sofferenze indirizzandolo da un veterinario che potesse sopprimerlo, ma con Nicole poteva ammetterlo: aveva già visto il peggio di lui, dubitava di poter cadere più in basso.
    Dubitava, eh; quindi non ne era proprio sicuro al cento per cento. «perché – perché mi hai chiesto di venire qui? cioè, davvero, tutto super bello, ma??» Tirò il colletto della maglia con l’indice, sopracciglia arcuate e bocca dischiusa alla disperata ricerca d’ossigeno. «sento un po’ d’ansia.»
    Giusto un pochino.
    when
    point
    stiles
    (andrew stilinski)
    I'm forced to deal with what I feel
    There is no distraction to mask what is real
    I could pull the steering wheel
    more
    15.09.2018
    huge nerd
    blood
    hogwarts
    halfblood
    hufflepuff
    age
    job
    15.03.1997
    psychowizard
    car radio - twenty one pilots
    prelevi? // i panic at a lot of places besides the disco
     
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2 replies since 29/10/2018, 03:05   266 views
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