Si schiarì la voce, sollevò lo sguardo al soffitto spostandosi a disagio sulla sedia. Sentiva il cuore tamburellare nervoso contro lo sterno, e poteva percepire le dita, strette al tessuto dei jeans, tremare flebilmente. Andrew Stilinski odiava, trovarsi lì – ma ancor di più odiava non aver avuto altra scelta. Le luci al neon rendevano le pareti gialle della piccola stanza quadrata ancor più scialbe, il pavimento di un plastico verde sporco ancor più artificioso; razionalmente sapeva di non essere in trappola, così come sapeva di potersene andare in qualunque momento, ma saperlo nè lo rendeva possibile, né aiutava ad alleviare il senso di soffocamento. Gli venne quasi da ridere, e dovette abbassare il capo verso i propri piedi per nascondere al resto della stanza un rigido mezzo sorriso nevrotico. Dio Santo, com’era successo. Continuava a torturarsi domandandosi quando la sua vita fosse andata così a puttane, sicuro che trovarne l’origine l’avrebbe reso, se non risolvibile, almeno tollerabile - ma non riusciva a trovare il nodo, a districarsi da quelle corde sottili che stringevano di più ad ogni flebile tentativo di fuga. Deglutì e serrò le palpebre, mentre una parte dei suoi pensieri continuava a riportarlo alla facile, ovvia, via d’uscita – così semplice, non avrebbe fatto male a nessuno. Ma non poteva. Si sentiva stupido, patetico, in quelle misere condizioni. C’era gente – c’era Isaac, ed ancora faticava a crederci - che lottava ogni giorno contro l’usurpato potere della politica odierna e sopravviveva: perché la sua battaglia, così infima ed all’apparenza una cazzata, doveva costargli sudore freddo lungo la schiena e sospiri ruvidi ad un passo dal pianto? Non aveva senso. Continuare a ripetersi che non avesse senso, però, non lo aiutava. Era difficile trovare la forza di svegliarsi, era difficile andare al lavoro, era difficile concentrarsi sulla strada quando guidava - era difficile pensare. Un problema che aveva sottovalutato troppo a lungo, e che per quanto gli sarebbe piaciuto il contrario, non poteva più ignorare. Non voleva essere quello, Stiles. Sapeva - sapeva - di essere di più, e non voleva che la sua intera vita girasse attorno ad una cazzo di brutta strada presa con leggerezza da ragazzo: era una di quelle guerre che andavano combattute il prima possibile, se si voleva avere una possibilità di vincere. Ma non sapeva come fare. Un fottuto serpente a mordersi la coda, avvelenandosi e consumandosi senza essere in grado di staccare le fauci dalle squame. Fece guizzare la lingua sul labbro inferiore, inspirando fino a sentire i polmoni scoppiare. Aveva sempre odiato l’attesa più del momento in sé; clinicamente parlando, sapeva fosse un problema di insicurezze e aspettative – ma anche lì, saperlo, non cambiava i palmi umidi a strizzare il bordo inferiore della maglia. Annuì all’uomo seduto dirimpetto a lui, l’inizio e la fine di quel circolo. «mh, ciao a tutti» tossì per recuperare tempo che non aveva, le dita a scivolare sulla spalla per grattare la nuca. «sono -» «stiles?» Ed ecco uno dei motivi per i quali aveva rimandato così a lungo l’incontro con gli Alcolisti Anonimi. Aveva davvero, davvero sperato che scegliere un centro babbano gli avrebbe evitato l’imbarazzo di incontrare qualcuno che conosceva, ma quando sollevò i bruni occhi tristi di fronte a è, con la lentezza di chi sapeva fosse inevitabile ma preferiva ritardarlo, trovò una sorridente Monica a sollevare allegramente una mano per salutarlo. Ricambiò con un sorriso tirato e pallido, le spalle a irrigidirsi ed i muscoli del viso a tendersi. Non farti prendere dal panico, Stiles. Non è successo niente. Non vuol dire niente. Eppure non riuscì a continuare a parlare, la lingua incollata al palato ed il cuore ad assordarlo nelle orecchie. Strizzò le palpebre premendo le dita sulla propria pelle, cercando di costringere fisicamente il cuore a rimanere al suo posto – e quando la tensione si fece troppa, il silenzio troppo denso e gli sguardi troppo curiosi, scattò in piedi afferrando la giacca poggiata sullo schienale della sedia. «- nel posto sbagliato.» avrebbe voluto che la voce suonasse più forte e meno fragile, che non si spezzasse a metà sentenza facendolo apparire un ragazzino lagnoso e viziato – ma non potè farci nulla. Si spostò lateralmente d’un passo evitando senza difficoltà il braccio, allungato per trattenerlo, del tutor quando passò al suo fianco, dove superò tutti per abbandonare l’incontro. Uscì, Andrew Stilinski, in un’anonima strada londinese coperta di foglie e carta straccia. Grigio il cemento, grigio il cielo – grigie le persone a passargli affianco senza vederlo. Ingoiò saliva febbrilmente, il vento pungente a sferzare le braccia ancora scoperte ed il viso pallido ed accaldato dell’ex Tassorosso. Non ce la faccio. Stupido – lui, il problema. Era consapevole che alla sua età si avesse una certa predilezione per alcool e sostanze stupefacenti, uno dei motivi che l’avevano spinto a procrastinare così a lungo, ma sapeva di aver sforato il passatempo entrando in una fascia più problematica e greve: aveva iniziato a quindici anni bevendo per sciogliersi, proseguendo a diciassette e diciott’anni per dimenticare, ritrovandosi a vent’anni con il solo bisogno di non volerci essere ed a ventuno senza sapere come altro vivere. Era diventato un problema, perché interferiva con la sua vita – con i suoi amici, con il lavoro. Con Stiles. Dopo i recenti episodi di black out, e di notti passate solo Dio sapeva dove, aveva deciso di…di fare qualcosa. Non poteva, né voleva, andare avanti così. Ma come. Il tremore della mano quasi gli fece cadere il telefono dalle dita, mentre scorreva la rubrica. Nelle giornate buone, sempre più rade di quei tempi, sapeva di non essere solo; sapeva che se avesse chiamato Isaac – santo cielo, malgrado non stesse più con il Lovecraft perfino Sharyn - o Niamh non avrebbero aspettato neanche la fine della chiamata per andarlo a prendere, ma…come potevi dire ai tuoi migliori amici, i quali entrambi lavoravano in due maledetti bar, che avevi un serio problema con l’alcool. Come poteva dirgli che mentre loro combattevano una guerra di ere e storie, lui non riusciva neanche a vincere contro se stesso per impedirsi un piccolo sorso; che faceva lo psicomago, eppure continuava a prendersi per il culo dicendosi che un bicchiere non avrebbe cambiato nulla. Aprì nervosamente il contatto di Jeremy Milkobitch, il pollice sospeso a pochi centimetri dal tasto di chiamata. Non gli sarebbe costato nulla. Ma per dirgli cosa, poi? Che aveva fatto l’ennesima cazzata? Che non riusciva neanche a proteggersi da se stesso? E perché avrebbe dovuto - e perché voleva farlo? Perché siete amici. Un mantra che si era ripetuto allo sfinimento, inciso nella mente e sulla pelle, ripetuto al mattino e prima di andare a dormire: siete amici; qualcosa che si ricordava quando nella propria macchina trovava qualcosa di Jeremy, o quando sul tessuto della maglia riusciva ancora a percepire il vago odore d’erba che il Milkobitch si portava sempre appresso come il profumo più costoso. Siete amici - e se ne convinceva quando sentiva le labbra di lui sfiorargli appena il collo, quando la sua risata, quasi sempre di scherno, echeggiava nel piccolo abitacolo della jeep o del suo appartamento, quando tornando a casa copriva gli occhi con il braccio sentendo la pelle pungere e bruciare, o quando sul palato gli rimaneva l’agrodolce sapore della sua bocca. Non era un Jeremy, Stiles; non era un Archibald, non era - non era così, eppure si era adattato per la sopravvivenza della specie: in fondo era un favore che Jeremy aveva fatto a lui, non il contrario. Siete amici, e se lo diceva così tanto, e così spesso, che aveva smesso di crederci: lo erano? Lo siamo. Lo erano? Osservò il proprio dito sospeso sullo schermo, chiedendosi – in ogni caso – cosa avrebbero potuto offrirsi a vicenda un tossico ed un alcolizzato. Consigli sull’hangover? Già fatto. Sorrise fra sé di asciutto divertimento, gli occhi ridotti a una fessura ed il telefono poggiato contro la fronte. Perché - duecento, mille perché. Non gli ci volle molto, se un frastagliato battito di cuore, per rendersi conto di volerlo chiamare per puro egoismo: un po’ perché sentire l’annoiata ed ovattata voce dall’altro capo della linea, era confortante – sapere che lui, al contrario di Jay, Dakota o Murphy, avrebbe ancora risposto - un po’ perché era il suo meccanismo di distrazione migliore. Ed un po’ perché sapeva che Jeremy Milkobitch non gli avrebbe impedito di bere. In momenti come quello si rendeva conto di quanto, di quanto quel problema si fosse insinuato nelle vene e nelle ossa, corrompendo quel briciolo di contatto umano che lo Stilinski era riuscito a preservare. Un grattato verso di gola abbandonò le labbra dischiuse, i polmoni a bruciare e le spalle curvate sotto il peso di una vita che Stiles non riusciva più a tollerare. Deglutì ancora, ricordandosi che lo stava facendo anche per lui: che voleva diventare una persona migliore, un amico migliore; che voleva esserci se avesse avuto bisogno di lui; che voleva essere sobrio, perché quand’era ubriaco la linea fra amicizia ed altro si faceva troppo sottile e confusionaria, spingendolo in un abisso di scelte sbagliate e frasi smozzicate che il mattino dopo non ricordava di aver pronunciato. Patetico - lo sapeva, buon Dio!, lo sapeva. Come sapeva che chiunque avrebbe definito quella relazione, di amicizia, tossica, e come Stiles in cuor suo sapeva fosse l’unica cosa buona che gli fosse capitata nell’ultimo anno. Non che l’avesse mai detto al Milkobitch. Onestamente, non credeva ce ne fosse bisogno – era un ragazzo piuttosto trasparente, Andrew Stilinski. Chiamalo. Perché - perché. Per dimostrargli l’ennesimo fallimento, la centesima battaglia persa? Non erano così amici, loro due. O forse lo erano, e quella costrizione allo stomaco all’idea era solo un motivo in più per non chiamarlo. Non sapeva neanche perché fosse l’unico nome sul quale si fosse soffermato: Isaac sarebbe stato più gentile, Niamh più divertente. Ma loro non erano Jeremy Milkobitch. Ed avrebbe voluto, Andrew Stiles Stilinski, che quell’infantile contro non fosse abbastanza: ma lo era. Lo maledettamente era. Stava per premere quel maledetto pulsante, quando uno spintone lo strappò dalla linea - caotica - dei suoi pensieri riportandolo alla realtà in modo brusco e meschino: spalancò gli occhi, il telefono a sfuggire dalla presa schiantandosi con un rumore poco confortante sul marciapiede (c’era un motivo se a Quidditch non si era mai proposto come Cercatore); quando alzò l’offeso sguardo verso il passante, questi – senza degnarlo di un’occhiata – continuò a proseguire schiacciando il cellulare sotto la suola. Lo osservò a bocca dischiusa, incapace di metabolizzare una risposta: era l’internet explorer dell’umanità, Stilinski. Ecco perché quando «sei un infame?» il passante era già troppo lontano per udirlo. Non ebbe coraggio di guardare in che condizioni fosse lo schermo. Lo infilò in tasca a malapena toccandolo, spingendo i piedi verso l’unico luogo dove sapeva di aver bisogno di andare. Ed un quarto d’ora dopo, mani in tasca e capo chino, Andrew Stilinski osservava la lapide di suo fratello. Era buffo, sapete; quand’era in vita non avevano mai avuto un rapporto particolarmente stretto, ma da quando era (partito per il Messico) ”morto” riusciva a parlargli più facilmente. Forse perché, sotto terra, non poteva giudicarlo; forse perché non avendolo davanti, non poteva temere che l’altro non lo sopportasse. Forse perché, senza averlo al proprio fianco, poteva fingere che non lo odiasse. Si era convinto per anni che Xavier Stevens fosse solo introverso - che i grugniti fossero il suo modo, peculiare ma sincero, di volergli bene. Stiles, cresciuto solo, non aveva mai avuto cuore di dirgli che di un po’ di affetto, di un po’ meno di onestà, aveva bisogno come ossigeno: che poteva trattarlo di merda trecentosessantaquattro giorni l’anno, se il trecentosessantacinquesimo gli batteva una mano sulla spalla ammettendo di tenerci. Che se lo sarebbe fatto andar bene. Si era costretto a credere che i loro fossero solo problemi di comunicazione. Poi Xavier se n’era andato. E lo capiva, Stiles. Voleva dare un futuro migliore alle bimbe, vivere senza sentirsi assediato o in trappola. Aveva senso - ma non riusciva comunque a cancellare il denso sapore dell’abbandono dalla lingua o dalla carne. Da quando c’era stato il funerale, era ormai prassi del Tassorosso fermarsi alla lapide del fratello; osservava il cielo il prato all’inglese, mandava l’ennesimo link stupido a Murphy, raccontava a Jay com’era andata la sua giornata. Chiamava Dakota, gli lasciava messaggi in segreteria («ehi dak, avrei … avrei davvero bisogno tu fossi qui, sai? Saresti un ottimo sober coach» l’usuale pausa, o informazioni non richieste su come procedesse ai Pokèmon. E l’appena sussurrato, bisbigliato in note vocali registrate ed eliminate anche a Jay e Murphy, «mi manchi, amico. puoi per favore - puoi semplicemente tornare a casa?») per poi cancellarli, così da non riempire la memoria del telefono del Wayne: quando erano (morti) spariti, Stiles si era…introdotto, e non troppo legalmente, nell’appartamento Makota. Era rimasto…come dire, sorpreso dal trovare i tre ragazzini raggomitolati sul divano, ma non abbastanza sconvolto da non domandare loro se Dakota avesse preso con sé il telefono. Ce l’aveva con sé da quel giorno. Non l’aveva detto neanche a Niamh; si domandava se la ragazza, come lui, contribuisse a riempire di messaggi le segreterie di Dak e suo fratello – non abbastanza coraggioso da chiederglielo, temendo che la risposta fosse sì e fossero stati entrambi costretti a guardarsi in faccia ammettendo l’inammissibile. Aveva creduto che i primi tempi della loro assenza sarebbero stati i peggiori. Si era sbagliato. «eh,» alzò il capo verso la voce, leggermente sorpreso di trovare qualcuno al cimitero a quell’ora. Abbozzò un sorriso, cortese e tirato, verso il barbone che si trascinava pesante nella sua direzione. «è per questo che viviamo, uh? Per morire, intendo» E lo guardò portarsi alla bocca una bottiglia trasparente ma dal contenuto inequivocabile, cogliendo l’ondata alcolica di vodka sin da lì. Si ritrovò a fissare il liquido con intensità e bramosia, lo sguardo assente ed il cuore a palpitare fradicio contro le costole. Anche il barbone dovette accorgersene, perché gli volse un bieco sorriso e gli porse la bottiglia, ancora piena a metà. «mi sembri pallido, ragazzino. Serve più a te che a me» Serve – serve più a te che a me. Con più fatica del necessario, abbassò la testa fino ad osservare la bottiglia stretta gelosamente al petto. E si odiò, e si repulse nel sentirsi attratto da quell’effimero e freddo conforto, perfino se offerto da un vetro che doveva portare più malattie di un topo o un piccione. Se ancora avesse avuto del coraggio, od un briciolo di sanità mentale, a giurar su Dio, Andrew Stilinski avrebbe pianto. Ed invece rise, così secco da dolersi la gola ed i denti, così disperato da non riconoscersi e non volerlo fare. Si sedette sull’erba umida con le gambe incrociate e la fronte premuta sul tappo, respiri in rantoli e palpebre serrate. Capite perché doveva smettere. Non era sano. Non era divertente. Non era bello e dannato: era solo un ragazzo triste con problemi d’alcolismo. E quelli come lui, non piacevano a nessuno. Si riscosse da quella posizione, obbligatoriamente immobile per evitare di cadere in tentazione, solamente quando il telefono vibrò nella tasca. Il momento della verità: schermo rotto, o schermo intatto? Che razza…che razza di domande! Spaccato, chiaramente; un adorabile, e già troppo costoso, caleidoscopio di linee arcobaleno, ma riuscì comunque a leggere il messaggio. Nicole gli ricordava…che dovevano vedersi, quel giorno? e ne seguiva un indirizzo? non… non ci provò neanche a ricordare: inutile specificare che non sapesse di aver appuntamento con Nicole, quel giorno. D’altronde, sarebbe stato assurdo il contrario. Ma a casa sua? Doveva essere davvero disperato, l’ultima volta che aveva bussato al suo ufficio. Non si sarebbe stupito neanche di quello. Nei mesi precedenti, pur sapendo di …violare una certa etica professionale, Andrew Stilinski (con estrema non curanza) s’era approcciato sempre più spesso alla collega Rivera – dapprima con domande innocenti e casuali fatte per caso nella stanza delle fotocopiatrici o alla macchinetta del caffè, continuando poi con quesiti più specifici e problemi che la notte gli impedivano di dormire. Ad un certo punto, non era certo di quando, aveva perfino smesso di fingere che fossero domande per un amico: si vedeva lontano un miglio, che Stiles avesse un problema. E che il problema, fosse Stiles. Nicole era semplicemente stata troppo gentile – troppo paziente, troppo il tutto che a Stiles mancava da mesi. Non erano amici, il che faceva sentir più libero lo Stilinski sul fatto che lei potesse o meno odiarlo, ma non erano neanche sconosciuti, con i quali l’ex Tassorosso entrava in imbarazzata paranoia. Non era propriamente la sua terapeuta, ma era quel che più dannatamente ci andava vicino. Digitò l’indirizzo su google maps, seguendo le indicazioni senza porsi domande – e fidandosi ciecamente: viveva a Londra da tutta la vita, ma della sua città non sapeva un cazzo. Una volta arrivato dalla Rivera avrebbe potuto scusarsi per l’essere stato, evidentemente, più caso umano del solito quando l’aveva incrociata l’ultima volta (e davvero?? Non riusciva a …ricordare quando? Cristo Santo) e non aveva bisogno di…supporto: sì, sostanzialmente avrebbe mentito. Odiava essere un peso nelle vite degli altri. Di base, odiava se stesso. Chi non lo faceva, di quei tempi? Solo quando giunse alla porta principale, si rese conto di aver ancora sotto braccio la bottiglia di vodka del barbone. Lasciala per terra, la prendi dopo. Buttala. Rompila. Stiles? «sì,» asserì al nulla, ancora però incerto su come agire. Alzò il capo, le dita immobili e serrate attorno al corpo della bottiglia, e - «kaufman?» corrugò le sopracciglia, gli occhi scuri ad osservare il viso impassibile del Corvonero. Che…che strana coincidenza. Fece vagare lo sguardo dal ragazzo alla bottiglia, sentendo già premere sulla lingua l’insulso, e bugiardo, non è come sembra. «l’ho…t…rov…ata…?» tentò digiustificare, adagiandola con la delicatezza che avrebbe riservato ad un infante sul marciapiede. «behcomunque, ci si becca, eh» lungi dallo Stilinski immaginare che avessero la stessa destinazione; non suonò il citofono, richiedeva troppe skills social che non possedeva, ma scrisse un messaggio alla bionda dicendole di essere sotto casa sua. Credo? - cit testuale.
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