good kid just dying to be fucked up

yale + daveth [challange02]

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    yale (newhaven) hilton // sad and bored.mp3
    Sittin' here eatin' my heart out waitin' / Waitin' for some lover to call. Yale non credeva nel destino, ma neanche nelle coincidenze: sentiva, nel profondo del proprio cuore, che l’umanità percepisse l’attimo meno propizio in cui molestare la sua esistenza – altrimenti non v’era spiegazione. Sbuffò l’aria fra i denti e serrò le palpebre, una parola poco gentile, e che mai avrebbe ripetuto in Sua Presenza, masticata fra lingua e palato e bofonchiata in briciole. Scosse la testa, premette il palmo della mano sul materasso per distaccarsi dal suo nuovo amiko. Se a chiamarlo fosse stato suo fratello, uno dei suoi cugini, o, dannazione, perfino Shiloh, Yale avrebbe lasciato squillare il telefono fino a far partire la segreteria – un discorso che valeva anche in contesti meno intimi, per inciso: non amava essere chiamato senza almeno cinque minuti di preavviso. Ma Lei? Se l’Hilton non avesse risposto, l’avrebbe chiamato alte settantacinque volte, e con tutta probabilità avrebbe chiesto a suo fratello di hackerare il telefono di Yale così da stabilire la sua posizione, e mandare qualcuno a prenderlo. «non rispondere» exCUSE mE? uno: nessuno diceva a Yale Hilton cosa fare; due: lui poteva ignorare le sue chiamate, ma altri non dovevano assumere che lo facesse per loro; tre: friends before hoes. Arcuò un sopracciglio senza sprecarsi a rispondere, allontanandolo con una spinta dell’indice mentre recuperava il telefono.
    Il viso della ragazza in anteprima, il cipiglio seccato e lo sguardo omicida, gli disse che probabilmente avrebbe davvero dovuto ignorarla, se voleva sopravvivere. Non si domandò neanche cosa avesse fatto per meritare l’Occhiata: l’ottanta percento delle volte, non ne aveva comunque idea. Rispose alla videochiamata, e poggiò il telefono sulla lampada da comodino vicino al letto. «non è un buon -» Non ebbe tempo di concludere la frase, che «newhaven cedric edward GEORGE STEPHEN»
    Doveva aver fatto davvero qualcosa di brutto. Umettò le labbra, ricambiò lo sguardo ossidiana della latina la quale, dall’altra parte dello schermo, puntava accusativa un indice contro di lui. «ma non ti chiamavi yale?» Intervenne la voce sottile del tipello. Ecco, pure. Vedete? Quello era esattamente il motivo per cui non parlava con le persone, specialmente quelle con cui andava a letto. Perché dovevano sempre rovinare tutto? Arricciò il naso ed abbassò uno scettico sguardo nella sua direzione, seguito da una dressed-to-kill Fergie che ruppe, in tre parole, il loro antico codice dell’amicizia: «chi è quello?» fERGIE. Spostò gli occhi blu verso il telefono, spalancandoli leggermente e gesticolando con la mano sinistra verso il collo per indicarle di tagliare corto. Lo sapeva - lo sapeva - che non si facevano domande simili, era una regola che adottavano da quando si conoscevano: Yale era troppo gentile per ammettere di non averne idea, ed odiava apparire maleducato o superficiale. Aprì la bocca e la richiuse, ignorando intenzionalmente l’occhiata del moro sotto di lui. Chiariamoci: erano quasi del tutto vestiti, quindi niente scene nsfw. Chiariamoci parte due: non che c’entrasse con l’aver risposto alla videochiamata, la Salazar aveva visto di peggio, ma non volevo permettere alla vostra mente di andare troppo oltre con l’immaginazione. Vide l’altro cercare, piccato, di andargli incontro rispondendo alla mora: prima che l’ira della ragazza si riversasse sulla povera anima innocente, Yale premette la mano sulla sua bocca impedendogli di parlare, volgendo un irritato sguardo di sottecchi alla ragazza. «ferdinanda de la vega salazar,» cambiò argomento, un sorriso smagliante ed innocente. «qual buon vento?» «non osare “qual-buon-vento-a-me”, chico» con tanto di petty snapping verso la videocamera. Fergie spinse gli occhiali (che, per inciso, indossava solo quando s’imponeva di fare la persona seria, e non ne aveva bisogno: le piacevano, e tanto le bastava) sulla radice del naso. «ho sentito dell’incidente» dell…incidente?
    Quale incidente. L’espressione dell’Hilton dovette essere chiaramente confusa, perché Fergie sospirò muovendo le mani di fronte a sé. «le persone scomparse» Che…persone scomparse. Corrugò le sopracciglia, incuriosito e vagamente inquietato. Quando sentì il ragazzo muoversi, istintivamente spinse con più decisione il palmo sulla sua bocca: ma non vedeva che Yale era impegnato? Millenials. «hai di nuovo rubato la scorta di cocaina di rosy?» «YALE.» Dovete sapere una cosa, di Fergie Salazar: poteva sembrare indifferente e superficiale quanto l’Hilton, ma non lo era – e mai lo era stata. Laddove Yale supportava cause, gruppi, famiglie principalmente per immagine, Fergie lo faceva perché ci credeva: un profondo, e passionale, senso di giustizia, lo stesso che le imponeva fisicamente (citazione esatta della mora) di iniziare una rissa solamente perché credeva che il barista avesse intenzionalmente palpato le tette di qualche ragazza al bancone.
    Non accettava stronzate da nessuno, Fergie. Yale la amava così.
    «davvero fergie, non so…» Se la Salazar avesse inarcato maggiormente le sopracciglia, si sarebbero fuse con i capelli. Un’improvvisa ondata di consapevolezza scosse le spalle dell’Hilton, le spalle a curvarsi sotto il peso del giudizio di Fergie: ah. «quelli dell’altro mondo?» domanda retorica: tristemente, sapeva che stava parlando di loro. Yale Hilton sapeva dell’esistenza di quell’assurda…spaccatura tempo-dimensionale da mesi, ma non aveva mai fatto nulla in proposito: onestamente, se perdonate il francesismo, non gliene poteva fottere di meno. Gli dispiaceva? Idealmente sì, ma peccava di sincera empatia, l’americano: in parole povere, era bello e simpatico quanto asciutto ed arido, troppo vuoto per farsi riempire da problemi che lo riguardavano così da lontano. «eh.» Eh. Sospirò, fece guizzare la lingua sul labbro inferiore evitando colpevole lo sguardo della ragazza. Fergie non ebbe bisogno di spiegare il contesto di quell’occhiata: l’avrebbe fatto lei, e l’avrebbe trascinato con sé, se avesse potuto, ma era incastrata in patria (viveva a Santo Domingo, ed erano rare le occasioni in cui riusciva a raggiungere la madre a Londra) a causa della sessione esami – aka, se non poteva mettersi lei in gioco, toccava a lui. Una questione di principio, a dire della Salazar. Era onere di ogni cittadino fare la cosa giusta.
    Ma Yale Hilton non era un normale cittadino. Cristo, non era normale punto.
    «fergie…» iniziò, sentendo il proprio tono stanco ed arreso. «proprio stasera? ero…» abbassò lo sguardo sul fattorino. Sì, fattorino, e no, manco di droga: di pizza. L’aveva incontrato casualmente nella sua uscita furtiva in notturna un’ora prima, quando si era presentato all’ufficio della sua terapeuta perché aveva finito le pastiglie. Sapevano, Yale e la dottoressa, che avrebbero dovuto durargli per almeno altre due settimane, se avesse preso la dose giusta.
    Beh. La matematica non era mai stata il suo forte. La doc non aveva risposto all’insistente bussare dell’americano (…giustamente, ma il ragazzo ci aveva sperato) e Yale Hilton si era ritrovato sobrio, pulito, e triste sul pianerottolo del palazzo: il fattorino-senza-nome era stata una distrazione come cento altre, a quel punto. «impegnato» concluse allusivo, tornando a ricambiare l’occhiata di Fergie con occhi gonfi di rammarico e fastidio. Era in più d’un senso: non c’era turn-off migliore di una paternale della propria migliore amica, quindi anche se avesse chiuso la chiamata in faccia alla Salazar, avrebbe dovuto trovarsi un altro modo per passare la nottata, e conoscendosi si chiamava Jamie.
    Il whisky, per inciso. One true love.
    «rispondi al telefono» cosa? Tre secondi dopo, una suoneria – di quelle standard incluse nel cellulare: che tristezza – ruppe il denso silenzio nella stanza. Yale si guardò attorno corrugando le sopracciglia, abbassando infine gli occhi sul fattorino, che stava – inutilmente – cercando di sgusciare dal placcaggio dell’Hilton.
    Non…non me lo dire. «fergie, cos’hai fatto» «rispondi» Ignorarono entrambi le proteste di Fattorino, mentre un poco galante Yale frugava nelle sue tasche alla ricerca del cellulare. Osservò la schermata con un mezzo sorriso fra l’isterico, il divertito, e l’incredulo: ormai si aspettava di tutto dalla Salazar, ma quello? Rispose alla video chiamata tenendo il telefono nel palmo sinistro. «anche tu Quel piccolo bastardino di Rodrigo, il fratello di Fergie, era davvero un maledetto hacker in gamba: e fottutamente inquietante. Shiloh, un cucchiaio di gelato in bocca, annuì solenne dallo schermo pixellato del telefono del fattorino.
    Cristo santo, che…due….maledette psicopatiche. «intervention» mugugnò la Abbot, scuotendo pigra le spalle. Le amava in modo sincero e sempre platonico, Yale Hilton, ma le preferiva di gran lunga quando litigavano (spesso) o angry-flirtavano (sempre.) che quando lavoravano insieme. Erano… terrificanti, un’alleanza dalla quale fuggire.
    Yale quel lusso non poteva permetterselo. «non posso venire a farti il culo, hilton, ma lei sì» Fergie incrociò le braccia sul petto indicando Shiloh con un movimento del capo, a cui la Geipitt rispose puntando il cucchiaio nella sua direzione. «true dat»
    Cosa stava succedendo. «mi prendete…» era troppo…era troppo perfino per loro, e qualcosa non gli tornava. Ci mise più del dovuto a collegare tutti i puntini, ed al disegno completo che ne ricavò, rise asciutto e ruvido. Era l’evidente, classico esempio di un maledetto passa parola non fottutamente richiesto; sapeva che lo facevano a fin di bene - giuro, lo sapeva - ma era una stramaledetta invasione della privacy. «ti ha chiamata rosario» asserì impassibile, mantenendo contatto visivo con la Salazar. Okaay, era uno dei periodi-no dell’Hilton, e quindi? Sarebbe passato, prima o poi – non aveva bisogno di baby sitter. Inoltre, giocarsi la carta Fergie, era un maledetto colpo basso, e che Fergie giocasse la carta Shiloh era un k.o. automatico. Forse, foooorse, c’era la…vaga….possibilità che Yale non uscisse dalla sua camera da una settimana, e che si fosse deciso ad interrompere il ciclo whisky – sonno solamente per andare a recuperare gli anti depressivi. Beh? Capitava anche ai migliori.
    Avrebbe voluto incazzarsi con un po’ tutti, Newhaven.
    Invece sospirò, perché la rabbia implicava sentire qualcosa, e sentire qualcosa non era mai stata una delle prerogative dell’Hilton. Litigare, o sostenere la propria posizione, richiedeva un impegno che l’americano non voleva tollerare: fare quello che altri gli dicevano di fare era semplicemente più facile, e non avendo goal personali o obiettivi di alcun genere, Yale viveva per rendere felici un po’ tutti. Il fatto che lui non fosse mai, non aveva più importanza da un pezzo. Aveva quasi rimosso di non essere solo nella stanza. Con la distrazione ed il distacco che avrebbe riservato ad una tenda particolarmente irritante, non un comportamento particolarmente onorabile o rispettoso dell’Hilton, quando sentì le mani dell’altro risalire sul costato, poggiò Shiloh al fianco di Fergie e si alzò tirando con sé anche il Fattorino. Non si domandò neanche se fosse molto stupido o molto ingenuo, perché era automaticamente passato da “essere umano” a “pezzo di mobilio” – capitava spesso quando si aveva a che fare con Yale: non lo faceva neanche apposta.- quindi non si interessò alle intenzione di lui mentre, metodico, afferrava il lenzuolo. «okay,» corrugò le sopracciglia ed iniziò ad annodare le mani del Fattorino dietro la schiena («vale, non vedo, spostati più a destra grz – beh? È tutta reference, non guardarmi così ferdinanda»). Kinky? No, gli stava solamente dando fastidio e voleva che la smettesse di toccarlo, ma era troppo educato per sbatterlo fuori dalla sua stessa stanza.
    Per ora. «quindi cosa dovrei fare?» era un po’ come explorer, Yale: ci arrivava sempre dopo e faticava davvero un sacco a caricare le pagine, ma se gli dicevi quel che volevi, prima o poi giungeva anche lui a rispondere con efficienza agli stimoli esterno. Il tempo non gli mancava mai. «muovi il culo» Ferdinanda, siamo in presenza di giovani ormonali, scegli con più cura il tuo linguaggio. Yale commentò un distratto «no» appena bisbigliato, ed alzò la maglia del fattorino per coprirgli anche la testa. Si sentì un po’ Andrew Cunan, ma avrebbe lasciato quelle elucubrazioni per una delle tante conversazioni senza senso da pigiama – wine party con la Abbot.
    Beh, comunque. «potresti essere più precisa?» Spostò lo sguardo su Shiloh, alzandosi dal letto per infilarsi la maglia, le dita a scivolare nervosamente fra i capelli. Caso mai vi fosse sfuggito, nei numerosi pregi dell’americano non rientrava detective conan: era più roba da shiloh, che da yale. «dai geipitt, esci e andiamo all’avventura» Shiloh lo osservò senza battere ciglio una manciata di secondi, forse sperando che capisse da solo.
    Non lo faceva. «sono già in pigiama?» Cioè, SCUSA? Loro potevano chiamarlo mentre chiaramente aveva meglio da fare, forzarlo a una ricerca della quale non se ne sbatteva di meno, e lei sono già in pigiama? L’occhiata dell’Hilton dovette comunicare il suo immenso disappunto, perché la ragazza allungò una mano al proprio fianco prendendo un triangolo in metallo.
    Lo colpì con un bastoncino, ed ebbe il coraggio di dire: «e sto suonando.»
    Umettò le labbra, e ruotò gli occhi blu su Fergie. «eres un chico inteligente, improvvisa»
    «fate….sul serio.» Non la pose neanche come una domanda, eppure Fergie replicò comunque angry snapping her fingers nella sua direzione. «io sono charlie, tu sei le angels» La fissò fino a quando la Salazar non si sciolse in un liquido sorriso verso di lui. «appena mi libero vengo a darvi una mano, chico» L’Hilton non cedette alla smorfia di Fergie, spostando il suo disappunto sulla Abbot. «domani, dai. ma se poi stasera vuoi passare qui, festeggiamo con il tavernello!!&&»
    Con affetto ad entrambe, ma «vi odio.»

    Avrebbe dovuto sentirsi lusingato dall’avere amiche del genere, Yale; sapeva che era il loro modo speciale per prendersi cura di lui, trovargli qualcosa da fare che non fosse fissare into the distance chiedendosi quanto ancora avrebbe dovuto sopportare la propria esistenza prima di poter finalmente dire addio alle sue spoglie mortali, ma non significava che ne fosse felice. Di principio, avrebbe voluto ignorare entrambe, e fiondarsi nel primo locale aperto svuotando portafogli e bottiglie, ma….ma, era pur sempre uno Yale Hilton, e sapeva che Fergie tenesse realmente a quella missione, secondi fini anti-depressivi a parte. Shiloh non aveva scuse, infatti il progetto di Yale implicava farsi un giro del quartiere, e poi bussare alla sua porta finchè la ragazza non si fosse decisa a, citando testualmente, muovere il culo – e poi, per vendetta, l’avrebbe abbandonata da qualche parte tornandosene a casa. Uscendo dal palazzo del Fattorino (a cui era stato così gentile da cancellare la memoria di quanto appena successo, ma non abbastanza da non rubargli metà dei farmaci presenti in bagno) si guardò attorno, una sigaretta già infilata pigramente fra i denti. Aveva cercato su google maps dove fosse (perché non ne aveva …assolutamente idea) e, già che c’era, aveva cercato rifugi per barboni presenti nel circondario: se fosse stato un au e non avesse potuto frequentare il mondo magico, avrebbe sicuramente cercato un posto per dormire e mangiare dove nessuno avrebbe potuto rompergli il cazzo. Beh? Non era stupido quanto poteva apparire.
    Più o meno.
    E prendeva sul serio ogni compito a lui designato, a discapito di quanto fosse un adorabile testa di minchia.
    Ed a proposito di teste di minchia, non esisteva che girasse fra i povery da solo: spiccava troppo. Ci voleva qualcuno di altrettanto povero e miserabile (detto con amore, ovviamente) che tenesse testa allo slang del ghetto, o cose simili – che ne sapeva l’Hilton di come comunicassero gli individui di classe sociale inferiore. Non era razzista, era solo realista: se lui fosse stato povero e triste, non avrebbe mai parlato con un Hilton. Troppo kool. Fortuna che aveva la persona che facesse al caso suo! Bonus: non gli piaceva rimanere da solo, era un animale sociale, quindi avrebbe preso due piccioni non con una fava. Sarebbe stato troppo mainstream chiamare direttamente Daveth Gallagher, quindi Yale compose il numero di uno dei telefoni che, con non curanza, aveva abbandonato nella dependance del più inutile, ma almeno fotogenico, body guard del mondo. Ce n’erano almeno una ventina, e tutti loro possedevano suonerie scelte con cura dall’Hilton; fu abbastanza carino da evitargli il telefono che avrebbe attirato l’ira di Goose (sì, flippava male con certe canzoni: bella la sua aragosta) preferendo invece il mite You Are My Sunshine nella versione Principe di Bel air – e che nessuno osasse dire che Yale non avesse uno spiccato senso dell’umorismo.
    Diamo per scontato che ad una certa, il Gallagher rispose. Forse.
    O beh, gli avrebbe lasciato un messaggio in segreteria. «BUONASERA RAGGIO DI SOLEh» Non poteva essere a dormire, non era neanche mezzanotte – e non aveva una vita, quindi insomma. Tivibi davide. «abbiamo da fare» avevano, sì. Pack unico, quando mai Yale faceva qualcosa da solo. «ti mando la mia posizione» *wink* «su wazzzzapp» evitò di dirgli che non aveva la più pallida idea di come spiegargli dove fosse, dato che pur avendo guardato le vie, non sapeva un cazzo: evviva la tecnologia! «sarò quello bello, non puoi sbagliare» e non c’era nessuno in quella zona, quindi insomma. «muoviti che» fa freddo, sono sobrio e solo lievemente fatto, quindi sono triste «mi manchi very much» biascicò, un mezzo sorriso ironico. dai, era vero anche quello! «a frappè» schioccò un bacio sul telefono, e si abbandonò sulla prima panchina a disposizione. Dato che si fidava poco (lo so: ironico) di Davide, mandò un messaggio sia a Fergie che a Shiloh (non si sapeva mai) dicendo loro che fosse con lui: non gli interessava vivere o morire, ma se il Gallagher l’avesse ucciso, voleva almeno giustizia.
    Almeno, eh.

    prelevi? // i panic at a lot of places besides the disco
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    16.11.2018
    23 y.o. yeehaw
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    Esisteva forse un posto in quel fottutissimo universo in cui era possibile starsene in pace almeno il tempo di una sigaretta senza dover necessariamente essere scocciato da ogni cazzo di passante ogni trenta secondi? Bjorn aveva ormai perso le speranze in proposito. Da quando aveva messo piede in quel posto, ormai mesi prima, era stato costretto a nascondersi per evitare di essere continuamente importunato da gente convinta di conoscerlo o da tizi con la faccia da stupratore seriale. Cristo, e dire che non doveva neppure impegnarsi per assumere quella perenne faccia da odio il mondo lasciatemi stare decisamente poco invitante, ma lì le cose sembravano non funzionare allo stesso modo che a casa. Non era la prima volta, d'altro canto, che si trovava costretto a doversi adattare ad un mondo completamente diverso dal proprio, ma cambiare dimensione non sembrava essere esattamente la stessa cosa che trasferirsi dalla Norvegia all'Inghilterra. Lì non solo gli inglesi sembravano terribilmente privi d'umorismo, ma riuscivano persino ad irritarlo più del solito. Fortuna che fosse un pacifista. Fortuna per loro, non per lui, perché tutti quei nervi tesi l'avrebbero senz'altro condotto presto ad un esaurimento, ne era certo. Ecco, proprio per evitare altre interruzioni, aveva preso l'abitudine di uscire di notte. Non è che facesse chissà cosa: si sedeva su una panchina, fumava la sua sigaretta della buonanotte e se ne tornava al motel, fine della pacchia. Che sia chiaro, neanche così riusciva sempre a evitare di dover mettersi a discutere con qualcuno, specie per quel piccolo dettaglio del suo aspetto: sì, era quella la sua vera piaga. Se fosse rimasto Bjorn, il ragazzo poco appariscente ed all'apparenza insignificante di sempre, forse la gente non si sarebbe sentita autorizzata a rivolgergli la parola. Dubitava che lì qualcuno avrebbe potuto riconoscerlo, non era neanche sicuro che il suo alter ego si fosse mai mosso dalla Norvegia o che fosse ancora vivo, ma con quella faccia... Sua madre l'aveva fatto uomo per un motivo: potersi fare i cazzi suoi. E invece no, gentilissimo fato, aveva dovuto combinare la stronzata e trovarsi in quel corpo da donna senza avere idea di come liberarsene. Peggio, non si era semplicemente trasformato, aveva scambiato il proprio aspetto con quello di un'altra povera disgraziata non pagante come lui, ed ora quella chissà dov'era in giro con la sua faccia, mentre lui doveva stare attento a tenere le gambe strette per impedire di essere stuprato. Almeno che gli fosse capitata una con più di una seconda, cristo, non gli sarebbe mica dispiaciuto passare il tempo a toccarsi le tette in attesa di trovare una soluzione. Ma no, figuriamoci, quando mai era stato fortunato nella sua vita? Era nato in una famiglia del cazzo in un paesino sperduto tra le montagne norvegesi, con troppi fratelli e pochi soldi per mantenerli tutti. Quasi non fosse stato abbastanza, toh, era uscito fuori che fosse l'unico nato indegno della sua discendenza, che non era affatto questa gran casata ma almeno avevano il privilegio di essere normali. Lui no, lui era la mela marcia dell'albero meno fruttuoso, e non aveva alcuna possibilità di cambiare le cose dal momento che non possedeva né il denaro, né le conoscenze necessarie per farsi infilare in un Laboratorio qualunque che potesse migliorarlo. Di per sé non ne aveva mai fatto questo dramma, non all'inizio almeno, ma quando tutte le sue conoscenze avevano cominciato a snobbarlo palesemente per via di ciò che era — persino roan, come poteva sopportarlo? Si era impegnato allora, come mai aveva fatto prima in vita sua, e si era messo a cercare la soluzione più efficace ed economica che potesse permettersi, fino a giungere al nome di questo fantomatico mago inglese dai dubbi talenti ma con cinque stelle nello spazio recensioni. E lui, incauto ragazzino dalle mani troppo lunghe, aveva pensato che sarebbe stata una buona idea andare lì, sottoporsi a qualunque cosa fosse stata necessaria, e poi prendere del tempo per cercare i soldi sufficienti a saldare il debito. Easy peasy, no? No. Era venuto fuori che il mago fosse tutt'altro che una persona paziente e comprensiva, quindi puf, non aveva neppure avuto il tempo di azzardare un compromesso prima di ritrovarsi una vagina fra le gambe e la voce di una gallinella in fiore. Ancora una volta, per quanto gli dispiacesse non poter più fare l'elicottero, se ne sarebbe fatto una ragione di nuovo se solo la tizia di cui aveva preso le sembianze non fosse stata una dannatissima femmina isterica in grado di farlo uscire di senno più di sua madre agli inizi della menopausa. Se ne stava lì, giorno dopo giorno, a lamentarsi del corpo che le era toccato ricevere, a raccomandarsi di trattare bene il suo, a consigliargli oli per capelli e creme dai nomi impronunciabili perché non sciupasse i frutti che aveva ricevuto. Roll eyes, roll eyes, roll eyes. Era quasi stata una liberazione finire in un altro mondo, lontani, finalmente in pace, ma quella pace era durata giusto il tempo della prima sigaretta. Poi era iniziato il via vai dei «ciao bells!» e «oh capitano, mio capitano!», fino alle più imbarazzanti dimostrazioni d'affetto da parte di quelli che dovevano essere amici o conoscenti della /vera/ arabells dallaire di quell'universo, una che però lui non conosceva neanche. All'inizio aveva anche potuta prenderla come una cosa divertente, ma alla lunga — cristo, era quasi meglio la sua arabells dallaire, almeno c'era da avere a che fare solo con una (che poi valeva per cento, ma vabbé).
    Ecco, con l'insofferenza nell'animo se ne stava anche quella sera appollaiato su una panchina del parco, sigaretta fra le labbra e capo reclinato all'indietro, le palpebre appena schiuse. A guardarlo così poteva sembrare fatto o addormentato, o entrambi, ma si era imposto di restare costantemente vigile vista la sua particolare predisposizione ad attirare rotture. Si accorse immediatamente, dunque, della figura che gli si stava avvicinando, così fu costretto a rizzare il capo con uno sbuffo, una ciocca di capelli dritta davanti al viso. No, non si sarebbe mai abituato ai capelli lunghi. A dirla tutta, forse ormai avrebbe anche potuto tagliarli: se mai avesse rincontrato arabells avrebbe sempre potuto inventarsi una storia qualunque su un rapimento da parte di un gruppo di svitati skin head. Non era affatto una cattiva idea, pensandoci. «senti, ce l'hai una sigaretta?» aveva cominciato la tipa al suo fianco, troppo al buio per poter essere riconoscibile ma decisamente non troppo lucida. Che poi, in effetti, a quale ragazza sarebbe mai venuto in mente di girare da sola, di notte, solo per fumare una sigaretta? A parte a lui, ovviamente, ma lui non era davvero una ragazza. «ti sembro uno che ha una sigaretta?» in effetti sì, visto che ne aveva una accesa fra le dita ed un rivolo di fumo gli era appena sfuggito dalle labbra schiuse, ma si trattava solo di banalissimi dettagli. «vabbè, 'sta qui è più fatta di me.» quanto meno si era arresa subito, voltandogli le spalle per avvicinarsi alla sua prossima vittima, un tipo in procinto di sedersi sulla panchina poco più in là. Bjorn/Sasha, così come aveva iniziato a farsi chiamare in onore della sua attrice del kuore -aveva giusto cambiato il cognome, ma solo per evitare ancora una volta di esporsi al rischio di molestia sessuale-, tirò fuori il cellulare dalla tasca, sempre la solita espressione annoiata in viso. Riuscì a scorgerla nel proprio riflesso sullo schermo in frantumi, un riflesso a cui ancora non si era abituato, uno indiscutibilmente più carino di quello a cui era abituato ma comunque non il suo. «ok google» attese. Niente. «ok google» forse un giorno quel cazzo di cellulare avrebbe ricominciato a riconoscere la sua voce da donna, o forse no, mistero. «ok cazzo» e la schermata dell'assistente di google si aprì, lasciandolo stupito ma soddisfatto. «testa o croce?» sì, era abbastanza cretino da divertirsi con quelle cose. Poteva sembrare un'arabells, ma era sempre un bjorn in fondo. « ok google, va' un po' a fanculo» rude, ma sempre esilarante. «ok google» «BUONASERA RAGGIO DI SOLEh» «beh??» non l'avrebbe mai capito quel vizio della gente di urlare per strada. Ecco, adesso il suo google assistant s'era messo a cercare 'buonasera raggio di sole' sul browser, trovando ovviamente solo immagini da far invidia alle mamme pancine. «ok google» «su wazzzzapp» «no, no, no» stava cercando di evitare di effettuare l'accesso da /giorni/, poteva rovinare tutto un deficiente a caso con delle evidenti difficoltà a modulare la voce? «oh ma che cazzo, è quasi mezzanotte, la gente dorme» gli gridò quindi, frustrato più del solito. «sta' zitto e, se pensi di conoscermi, NON SONO ARABELLS CAZZO DALLAIRE.» ormai gli pareva sempre il caso di precisarlo, visti i precedenti. «ditt univers suger» imprecò sicuramente non così tanto alla google traduttore ma è bjorn ad essere lingua madre, non io in perfetto norvegese. «ho detto che il vostro universo fa schifo.» si premurò di precisare, prima di tornare ad ignorare il tipo nella speranza che avesse recepito il messaggio.
    sasha
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    Non... so... cosa... dovrebbe... essere??? Non volevo infiltrarmi giuro e non so neanche se sei un pg di sara -ma probabilmente lo sei, cioè, è proprio statistica-, in ogni caso voglimi bene lo stesso DAI ♥
     
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    daveth thanatos gallagher // war hero
    «sono occupato.» non diede modo, alla Abbott, di capire appieno cosa fosse appena successo: prima ancora che potesse rendersi conto che le aveva fatto la grazia di risponderle al telefono ma che non le avrebbe concesso ulteriore spazio per dirgli qualsiasi cosa le passasse per la testa in quel momento, le aveva attaccato il telefono in faccia, udendo in lontananza il disperato tentativo di richiamare il suo nome. Era sicuro, Daveth Gallagher, che qualsiasi cosa la ragazza avesse da comunicargli poteva aspettare qualche minuto – ma anche ore, giorni ed anni, volendo: fosse dipeso da lui, e purtroppo non era così, quell’attesa avrebbe potuto tranquillamente durare secoli interi e non sarebbe mai stato un peso sulla sua coscienza (ammesso e non concesso che l’ombrocineta avesse una morale sulla quale depositare simili macigni, ovvio: all’età di ventiquattro anni, ad essere onesti, non era più certo di poterne vantare una). Per più di un decennio la sua rubrica telefonica era rimasta vuota, senza nemmeno un contatto memorizzato, ed il suo recapito cambiava ogni volta che i suoi servigi erano richiesti e diligentemente portati a termine; non riteneva esserci alcun bisogno utilitaristico nell’avere l’elenco ricolmo di numeri inutili e mai adoperati, ed egli stesso non sentiva alcuna necessità nell’averne uno fisso sul quale essere reperibile da chicchessia – più che altro, non aveva nessuno a cui potesse servire se non per lavoro: Thane era, era stato e sempre sarebbe rimasto un fantasma, e dire che la cosa gli dispiacesse sarebbe una menzogna di proporzioni colossali. Il fatto che da cinque mesi a quella parte fosse stato costretto ad un impiego d’ufficio, il quale lo richiedeva costantemente reperibile, non significava di certo che avrebbe per questo modificato la propria abitudine - soprattutto se a rompergli le palle non erano gli Hilton, ai quali comunque si limitava a rispondere con monosillabi puntati o singole ed esplicative emoticon. Non era una persona da chiamare, Dave, se non per faccende lavorative, e sebbene sopportasse la presenza della scrittrice – dire che gli piacesse come essere vivente, o che fossero amici (anche se aveva il terribile presentimento che per lei fosse effettivamente così), era esagerato; diciamo soltanto che ancora non voleva ucciderla e gettarla dal Golden Gate in un sacco nero, ma era abbastanza volubile da poter cambiare opinione al riguardo in qualsiasi momento -, non così tanto da farsi martoriare da lei ogni qual volta le andava.
    La cosa che più lo frustrava, ovviamente, era ch’ella lo sapesse – lei, e tutta l’allegra compagnia – e che nonostante ciò continuasse a fracassare il beneamato.
    Piegò appena il capo verso l’accendino, lasciando che la punta della sigaretta si lambisse della fiamma ed il tabacco iniziasse a bruciare. «dove eravamo rimasti?» soffice e stanca, la voce del biondo scivolò in una nube di fumo opaco a poca distanza dal volto altrui; le iridi, argento fuso screziato da liquidi lapislazzuli, sorridevano sarcastici all’uomo legato – immobile e vulnerabile, bloccato sulla sua poltrona preferita da spesse corde di pece. Finse di attendere, per qualche secondo, una risposta, per poi ricordarsi della canna della Beretta infilata nella bocca dell’essere. Essere, e basta, che definirlo umano diventava istante dopo istante più complicato: un vecchio con il bavero ancora sporco dell’ultimo pasto che gli avevano cucinato, tanto sazio dell’arricchimento sulle spalle e disgrazie altrui da non doversi preoccupare dell’aspetto trasandato al limite dell’indecenza, o del fatto che abbassando lo sguardo non riuscisse nemmeno a vedersi i piedi; talmente ricco, pieno di stronzate da diecimila sterline l’una su ogni singola mensola della propria villa, che quegli infimi dettagli quali il disgusto che chiunque (sfidava, che qualcuno potesse non trovarlo rivoltante; e dire che il Gallagher non s’era mai fatto di simili problemi fisici, né sul lavoro né tantomeno nella vita quotidiana: gliene fregava di come apparisse la gente, tanto quanto effettivamente se ne sbatteva della gente stessa) provava al suo cospetto venivano oscurati dalla brillantezza di tutto quell’argento. Un maiale satollo e che ancora s’ingozzava, rotolandosi nel limpido fango non dissimile da oro colato. A persone simili, nemmeno si prendeva il disturbo di fare il servizio a domicilio: agiva da lontano, senza troppo sangue a macchiargli le mani o troppe impronte lasciate in giro – non che questo fosse realmente un suo tarlo, meticoloso com’era. Un lavoro rapido, senza complicanze.
    Ma lui? Oh, buon Dio. Le labbra del biondo si piegarono appena, un riso spento a deformargli l’espressione; le dita a stringersi sul calcio della pistola mentre la estraeva dalla bocca, concentrandosi sulla trachea di Elvin Roach piuttosto che sull’arma. Trasse un tiro dalla sigaretta, gli occhi chiari fissi su un agonizzante, vecchio e ricco irlandese – un magnate d’altri tempi, un decrepito imprenditore che non vuole crepare solo per tenersi stretti tutti i soldi che ci spettano. Così era stato definito dai figli, troppo giovani per l’età dell’uomo e, a detta di Thane, troppo belli per essere considerati realmente suoi eredi - e c’è chi dice che la ricchezza non compra la felicità: stronzate -, quando, non troppo tempo dopo essere atterrato a Londra con il jet degli Hilton, gli era stato commissionato quell’omicidio.
    Daveth Thanatos Gallagher, tuttavia, lo conosceva per altre vie – e tanti erano gli appellativi che avevano definito l’uomo, ma pochi lusinghieri come “magnate” o “imprenditore”. Oh, senza dubbio lo era!, non sarebbe mai stata sua intenzione negarglieli: aveva costruito il suo piccolo impero, l’aveva fatto crescere con sudore, fatica e senza l’appoggio di nessuno fuorché se stesso. Aveva fatto il suo, ma ciò non toglieva che i modi in cui il ventiquattrenne era solito sentirlo chiamare, erano più simili a lurido infame, figlio di puttana, porco schifoso - e così via.
    Gli stessi figli, invero, l’avevano più volta definito in tal modo - di nascosto, lontano dalle sue orecchie o da quelle di suoi collaboratori poco discreti, ma sempre a portata di mano del Gallagher; forse nemmeno si ricordavano di lui, il che avrebbe reso tutto molto ironico, ma qualcosa gli faceva pensare il contrario, e che fosse proprio per quello che avevano atteso proprio il suo ritorno in patria: era un po’ un maniaco del protagonismo, a volte -, ma ciononostante avevano richiesto per lui un lavoro rapido e pulito. Che sembrasse un suicidio, e che la sua lettera d’addio fosse il suo stesso testamento (di cui, ovviamente, nessuno sapeva l’ubicazione esatta: tutto lavoro in più per il sicario, che però non aveva discusso affatto – sia perché la ricompensa era lauta, sia perché recuperarlo era stato un gioco da ragazzi).
    E così sarebbe stato, ma - vaffanculo. Vederlo mentre gli mancava l’aria, annaspante e alla stregua ricerca di un po’ di ossigeno o aiuto, era una goduria di cui non poteva privarsi.
    «ti ricordi di me?» un filo di fumo a sibilare tra i denti, la domanda retorica a sovrastare gli ansiti. Si accovacciò davanti a lui, le braccia sulle ginocchia flesse e la testa piegata – un broncio, a far capolino sulle labbra, quando questo scosse la testa, strozzandosi con la sua stessa saliva. Sarebbe schiattato d’infarto e non avrebbe portato a termine il proprio scopo, se avesse continuato così. Beh, poteva sopportare ancora un po’. «daveth» umettò le labbra, la sigaretta a pendere indolente dalle stesse. «ti dice nulla?»
    Avrebbe dovuto, considerando che era stato lui a dargli quel nome ventiquattro anni prima, in uno sporco e fatiscente orfanotrofio nella periferia londinese; per tutte le volte che sotto le unghie aveva tenuto il sangue del biondo – indiretto, perché lui non si sporcava mai davvero le mani: mandava altri, suoi sottoposti, a punire le malefatte dei ragazzi. Avrebbe dovuto, perché era stata una delle prime persone a spegnere lo sguardo già opaco di un bambino di appena sette anni; perché lo aveva visto disperarsi, all’angolo di una stanza in cui c’erano solo quattro persone, di cui una di appena dieci anni e già priva di vita - e non aveva fatto nulla, se non chiamare degli aguzzini che facessero smettere quel piagnisteo -; perché, ancora più scoraggiato e devastato, aveva supplicato il suo aiuto per tre inverni consecutivi – che Zenith era sparita ed aveva bisogno di lui, che lui aveva bisogno di sua sorella -, ed ancora se n’era sbattuto il cazzo.
    O anche solo perché, per sedici anni, in ogni sua sporadica visita era il primo che vedeva entrando, e l’ultimo che salutava uscendo; quello, che ogni fottutissima volta, gli augurava di morire sotto un maledetto tram.
    Non lo stupì, comunque, l’amnesia nei suoi confronti – meglio così per lui. «peccato.» in altri frangenti, sarebbe stato decisamente peggio per il Roach; purtroppo, aveva ordini precisi. Era un fuoriclasse, Daveth, e gli piaceva trovare modi sempre nuovi ed innovativi per giocare con il cibo – ma, prima ancora, era un bravo soldato. Un ottimo cadetto, se non il migliore. Allentò la presa psichica sul senso di soffocamento dell’uomo, nel medesimo momento in cui portò la pistola sotto il suo mento, l’angolazione perfetta e la presa salda: ad occhi esterni, non sarebbe potuto apparire se non come un suicidio.
    Anni prima, quell’accortezza lo aveva tormentato ogni maledetta notte.
    Poggiò l’indice sul grilletto, corrugò le sopracciglia osservando sempre un po’ più disgustato il signor Elvin Roach, applicò una prima leggera pressione – solo per aumentare l’angoscia, sapete - e…
    Squillò il telefono. Sospirò tra i denti, alzando gli occhi al cielo. «ti ho detto che-» «“sei occupato” sì certo come al solito, straaaano» ma che era tutta quella confidenza. Socchiuse le palpebre, ancora accovacciato davanti la poltrona e con il telefono in vivavoce nella destra, e la sinistra sulla Beretta; aveva reputato subito opportuno rispondere, che se non l’avesse fatto la Abbott avrebbe continuato all’infinito. «AIUTATEMI» oh, santo cielo. Sollevò con lenta intenzione lo sguardo, le sopracciglia arcuate e le labbra morse. Avrebbe dovuto imbavagliarlo prima di rispondere al telefono?
    Qualcun altro, probabilmente, lo avrebbe fatto.
    Deadpan Daveth, d’altronde, non si poneva mai simili quesiti. «eaula davide, ma stai uccidendo qualcuno?» Shiloh, dall’altra parte della cornetta, rise. Il Gallagher, si limitò a sorridere piatto. «sì.» e premette il grilletto, lasciando che il rombo echeggiasse nella villa e nel circondario. Da quel momento in poi, aveva circa cinque minuti prima che i vicini curiosi venissero a vedere cos’era successo. Si alzò e poggiò il telefono sullo stesso tavolino dove aveva preparato il vecchio testamento da strappare e la lettera d’addio da stilare, per poi tornare dalla vittima. «era uno sparo, quello?» pulì il calcio della pistola – che, sebbene portasse i guanti, era sempre bene essere un po’ più prudenti – e lo fece stringere nel pugno del Roach, liberandolo delle funi d’ombra. «sì.» rispose, ancora tremendamente onesto. Tornò di nuovo alla scrivania, sbrigativo ma meticoloso, e inserì il foglio bianco nella macchina da scrivere: una vera fortuna che fosse un collezionista di cose che non avrebbe mai (più) usato in tutta la sua vita, dato che non era riuscito a costringerlo a scrivere la lettera con le sue stesse mani.
    Si morse le labbra, rimase più tempo del necessario a fissare la pergamena – in un silenzio strano, nel quale era difficile per lui capire se la scrittrice al telefono fosse sotto shock o solo confusa. Odiava dover commettere suicidi, soltanto per quel momento.
    Aveva smesso di provare emozioni diciassette anni prima, Daveth Gallagher, ed immedesimarsi in situazioni simili era una vera e propria tortura. «ahah sì ok certo davide. S E N T I, hai sentito yale? ti sta cercando – oh mio dio, non è che lo hai appena ucciso???» «no.» non ancora (cosa? cosa). «ah ok cmq ti sta cercando, ci hai parlato?» «no.» «hai sentito la segreteria?» «no.» «ti interessa almeno?» onestamente? Pensava che l’Hilton fosse ancora chiuso in camera sua, in preda alle sue crisi esistenziali e depressive, e che non volesse parlare con nessuno se non con gente su Grindr o Just Eat. O meglio, lo sapeva per certo. Almeno, se si era premurato di avvertire lui e le sue amike del kwore, non aveva ancora deciso di buttarsi dal Tower Bridge - per fortuna, dato che per quel lavoro veniva pagato davvero bene. «dov’è?» sospirò, continuando a sperare che l’estro creativo scendesse per lui come lo Spirito Santo.
    Non lo fece. «non sei a casa per controllare?» «evidentemente.» «mmmmh ti mando la posizione, ciauzzz» «abbott, aspetta…» chiuse gli occhi, odiando ogni cosa. Ma aveva davvero poco tempo, e lei era comunque una scrittrice.
    O almeno, si professava tale. «devi aiutarmi.»
    Per quale motivo Shiloh, effettivamente, lo fece, non ci è dato saperlo. L’unica cosa che Daveth scrisse di suo pugno, furono poche righe finali. La sua condizione, stipulata alla firma del contratto con i suoi datori di lavoro – nonché, l’unica di una qualche valenza di tutto il manoscritto.
    “Metà del mio patrimonio ereditario andrà ai miei figli legittimi, Colin e Jocelyn Roach, l’altra metà desidero venga donata in beneficenza all’orfanotrofio Saint Agatha”. Sorrise a quelle poche parole, lanciando un’ultima occhiata al cadavere prima di arretrare all’interno di un varco oscuro e dileguarsi dalla scena del crimine.

    Vide subito Yale Hilton, una volta arrivato al punto d’incontro indicatogli dall’app. Difficile non notarlo, anche nell’ombra di una Londra poco illuminata – anche se, in realtà, se non si fosse abituato alla convivenza con il mago per cinque, interminabili, mesi, probabilmente non ci avrebbe nemmeno fatto troppo caso.
    Soprattutto perché, ovunque andasse, riusciva ad incanalare tutte le attenzioni dei passanti, volente o nolente. Accelerò il passo, fomentato dal tono dell’estraneo ad inveire contro l’americano, e senza annunciare la sua presenza (amava l’effetto sorpresa, e potersi confondere facilmente con le ombre non faceva altro che aiutarlo: si divertiva con davvero poco) posò la busta di carta affianco all’Hilton e sfilò la pistola – un’altra? - dal cappotto, puntandola al fianco della giovane. Aveva un volto familiare, qualcosa nei lineamenti morbidi che prudeva sulle dita serrate attorno al calcio e sul palato. «c’è qualche problema, per caso?» domandò, pacato e secco, gli occhi azzurri dietro le lenti scure fissi sulla nuca della ragazza. Magari era una nuova amica di Yale, eh, per carità! Non era una novità che le sue conoscenze più intime lo insultassero continuamente, o inveissero contro di lui a caso. Ciononostante - «se è così, meglio che tu vada» sempre meglio chiarire, ecco. Fu con la stessa calma piatta, che si rivolse all’altro. «ti ho portato il frappé» così, random.
    No, in realtà mica così random: ormai sapeva che presto o tardi gli avrebbe chiesto di prendergli qualche stronzata da Starbucks.
    Tanto pagavano gli Hilton.
    prelevi? // i panic at a lot of places besides the disco
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    yale (newhaven) hilton // sad and bored.mp3
    «oh ma che cazzo, è quasi mezzanotte, la gente dorme» Affatto disturbato dal tono stizzito, Yale Hilton sollevò un sopracciglio e curiosi occhi blu di fronte a sé, scrutando nell’ombra il profilo di una ragazza. Era avvezzo ad approcci poco gentili nei suoi confronti, ma alzò comunque un indice ammonitore nella sua direzione: «linguaggio» suggerì calmo, infilando una mano nella tasca della giacca per cercare accendino e sigarette. «e in ogni caso, non vedo perché dovrebbe essere un mio problema» sorrise al nulla, stringendosi pigro nelle spalle. Cosa? La gente doveva andare a lavorare? Non nel suo mondo, dove la carriera era un passatempo e la notte decisamente non fatta per dormire – e no, malgrado fosse ricco e viziato non intendeva incontri carnali alla Eyes Wide Shut o almeno, non solo quanto più partite a Solitario e bingwatch su Netflix. Beh? Vi aspettavate forse che essendo un Newhaven Cedric Edward George Stephen Hilton IV passasse tutte le sue nottate seguendo il mantra coca-e-mignotte? Era solo una leggenda metropolitana, quella.
    Nei giorni dispari, aveva anche altri hobby. «sta' zitto e, se pensi di conoscermi, NON SONO ARABELLS CAZZO DALLAIRE.» new number who dis. Perché…perché avrebbe dovuto conoscerla? Assottigliò le palpebre ed accese distrattamente la sigaretta stretta fra i denti, chinandosi in avanti per poter osservare meglio la ragazza. Aveva …qualcosa di familiare, ma per quanto Yale amasse credere di poter ricordare tutti i suoi fan, la droga aveva consumato troppe cellule cerebrali per concedergli la memoria che avrebbe desiderato, senza contare che era sbronzo per la maggior parte del suo tempo: incontrare persone nuove e ricordarle, era un Level Up al quale non era ancora arrivato - e del quale non aveva mai avuto bisogno. Non cercava amici; non cercava conoscenze che durassero più di un giorno, quindi a che pro rimembrare nomi e visi, quando sapeva – con certezza matematica – non gli sarebbero mai serviti? «*inserire qui strani versi animali*» mh, watcha say. In un mondo ideale, quello sarebbe stato il momento in cui l’Hilton avrebbe iniziato a farsi due domande, tipo se dovesse o meno chiamare la polizia; nella migliore delle ipotesi, a quel punto della conversazione avrebbe dovuto capire di non dover provocare oltre una ragazza mestruata, perché quando le donne perdevano sangue dalla vagina, erano più propense a spargere quello altrui sul marciapede (lo sapeva per esperienza) (non perché avesse il ciclo, almeno quello gli mancava, ma avere solo amiche donne portava l’animo a divenire più sensibile all’argomento mestruazioni). «ho detto che il vostro universo fa schifo.» Il vostro – cosa? Non che non fosse un pensiero pertinente e condivisibile, ma…«tuA mADRE» è una santa donna e la rispetto molto, xoxo un fan. Drammatico e teatrale come sempre, portò un’offesa mano al petto cercando di comprimere l’accelerato battito cardiaco nello sterno, soffocando un principio di infarto in favore di un’espressione oltraggiata. «c’è qualche problema, per caso?»
    Ma
    Che
    Cazzo. Fece guizzare gli occhi blu dalla pistola di Daveth Gallagher al sacchetto abbandonato al proprio fianco, rimanendo a fissare la panchina finchè non fu certo che a ventitré anni non sarebbe morto di crepacuore. Sarebbe stato così facile uccidere Yale Hilton, che ancora si domandava perché La Madre si intestardisse ad assumere sicari – chiedendo ad un impiegato del mcdonald’s, avrebbe ottenuto lo stesso risultato pagando la metà. «allora, in primo luogo: ciao yale, come stai? bene, grazie davide, e tu? inserire qui silenzio deadpan xk qualc1 qui è troppo kool per i convenevoli» schioccò le dita ed aprì il palmo, arrendendosi prima ancora che Davide ritenesse legittimo spostare l’occhiata killer da non-Arabells-Dallaire a lui, entrambe le sopracciglia arcuate: cioè, scusate tanto, il fatto che avesse una pistola non lo giustificava dall’essere rude. Aveva forse timore di perdere la propria, sudata, reputazione di badass se si sprecava a salutare? Lo sapeva che necessitava di amore ed attenzioni. «in secondo luogo: uau» corrugò le sopracciglia in direzione del telefono ancora stretto fra le mani, un’occhiata di sottecchi nella direzione del biondo: l’aveva – letteralmente – chiamato cinque minuti prima? «ci metti sempre così poco a venire? pun intended» finger guns verso di lui, ed innocente sorriso a curvare gli angoli delle labbra: dai! gliele serviva su un piatto d’argento! «terzo: non c’è bisogno di essere maleducati. stavamo creando un legame, qui» più o meno.
    Più meno che più, ma a chi importava? Non all’Hilton, che indicò allusivo prima se stesso poi la ragazza. «quarto punto – e più importante» e voi direte: ora gli dice che forse la ragazzina viene da un altro universo!!!&& - ma no, Yale aveva altre priorità.
    Indicò il sacchetto e sollevò intensi, e solenni, occhi blu verso il Gallagher. «ci sono anche le patatine?» Ormai doveva saperlo che – wink wink – non era felice se non pucciava qualcosa. Pun intended, again. Poggiò la schiena al sedile della panchina prendendo la sigaretta fra pollice ed indice, alzando una mano in direzione della mora. «senti, per caso sei dell’altro posto? L’altra - sì» si interruppe per volgere un’occhiata a Daveth, abbassando complice il tono di voce. «le mie lesbian moms mi hanno incaricato di cercare ‘sta gente per, boh, un’opera di carità -» tornò a guardare la non Dallaire, invitandola con un cenno ad avvicinarsi. «realtà? stavo giusto cercando qualche» pezzente! «anima sperduta. Vuoi una patatina?» con la lentezza inesorabile e bollente di una colata di lava, assottigliò le palpebre verso Davide. «perché abbiamo, le patatine» i’m asking, but also telling.
    Ed in realtà a quel punto non aveva la più pallida idea di cosa fare. Doveva portarsela a casa? Darle una pacca sulla spalla? Segnarla sul Pokèdex? Nessuno su Yahoo Answers aveva ancora posto una domanda per quella peculiare situazione. «e poi penseremo a qualcosa.»
    Aka: qualcuno ci avrebbe pensato per lui.
    prelevi? // i panic at a lot of places besides the disco
    Never had an issue so I’m always trying to cause one
    Good kid but I’m living
    like a lost cause
    Daddy’s got the money so I never need to ask much
    good kid - former vandal
    16.11.2018
    23 y.o. yeehaw
    werewolf
     
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