Fece scorrere le dita sulle increspature del muro, percependo il cemento pungere i polpastrelli. Lo sguardo serio di CJ Hamilton tendeva sempre ad indugiare su tutto, ma senza realmente prestarvi attenzione – a quel tutto, l’Hamilton, non era mai stato interessato. Ci volevano impegno e forza di volontà per attrarre l’interesse del Grifondoro; ci voleva un qualcosa in più che tutti credevano d’avere, ed in pochi dimostravano di possedere. Ci voleva un po’ di CJ, perché gli occhi del telepata si facessero liquidi ed attenti. Il pollice scivolò sul profilo della prima C, seguendo la curva successiva della J – e l’indice andò ad incastrarsi sulle decine di lettere scribacchiate a fianco. Non conosceva né tatto né empatia, l’architetto; eppure. Eppure qualcosa, di quel disordinato e machiavellico tratto, andò ad intaccare il muro perfetto eretto attorno a sé: sapeva, razionalmente, che quella vita non fosse sua. Che quei nomi, che quel sangue, non fosse suo. Ma avrebbe potuto. Ma avrebbe potuto. Un CJ Hamilton diciassettenne aveva odiato il sorriso sarcastico ed amaro del diciassettenne Knowles, troppo simile - e troppo storpiato - al proprio perché potesse essere di facile digestione: a ventitrè anni, pensava ancora che Christopher Jeez Knowles fosse un piccolo psicopatico bastardo. Ma vedeva anche il qualcosa in più che, sin dal primo momento, l’aveva affascinato quanto l’aveva disgustato. Si soffermò con il palmo su una delle incisioni che parevano più vecchie, ma non per quel motivo meno visibili sulla superficie martoriata della parete: ciò su cui il telepata aveva basato tutta la sua vita, staccandosi dai Reynolds e rimanendo se fottuto stesso - ciò che l’aveva reso l’uomo che, mal illuminato da un lampione, osservava critico ed ammaliato la rabbia asciutta di un adolescente. Di un adolescente che aveva allontanato tutto ciò in cui CJ credeva; che aveva screditato l’unica cosa che li rendeva uno, nessuno, e centomila, decidendo di non riconoscersi in ciò che era ma essere ciò che riconosceva. CJ H. Chiuse gli occhi lasciando che quell’impronta s’imponesse sulla pelle tenera del palmo, assorbendo la collera e la frustrazione di quei tagli. Non gli faceva pena, il Knowles – non esageriamo con la confidenza – ma…avrebbe voluto la sua vita fosse diversa, capite? Diversa dalla propria. Per puro, egoistico principio di voler essere il migliore, CJ Hamilton avrebbe voluto una vita per CJ, per un qualunque CJ, dove non dovessero crearsi una strada di sangue e carne sbriciolata fra i denti – la loro o quella d’altri, dipendeva dal CJ in questione. Una vita dove potessero avere quel che cazzo gli apparteneva di diritto: un nome, un rispetto. CJ R. Una famiglia. Sorrise di una guerra che aveva combattuto e vinto, respirando dalle narici la sconfitta di un altro CJ che avrebbe potuto essere lui, ma non era stato: nessuno dei due s’era mai sentito fra i denti di essere un Reynolds. Ma non era mai stato, per CJ Hamilton, un cazzo di buon motivo per abbandonare suo fratello. Se era, megalomane e meschino come i bravi Hamilton del mondo, felice che l’altro avesse perso anni - vite - con BJ? Sì, che cazzo. Di nuovo, non c’era da esagerare con la confidenza: il fatto che avesse sperato, ed ancora sperasse in una vita migliore per un CJ migliore, non significava che l’augurasse a quella testa di cazzo del Tassorosso. Cosa, credevate forse che l’Hamilton fosse grato al Knowles per aver fatto 2043 outing con suo padre? Ma manco per il cazzo. Non solo l’aveva lasciato in una situazione di merda, ma l’aveva privato di un suo, stra fottuto, diritto. Dopo cinque, maledetti anni, ancora non riusciva a perdonare la brutta copia di se stesso per avergli tolto quello: Gemes Hamilton, volente o nolente (nolente, il più delle volte) era suo padre – era lui, CJ Hamilton, ch’era tornato indietro dal duemila – sta minchia – quarantrè per loro. La vedete l’ingiustizia? La sentite crepitare sotto pelle? L’ennesimo granello di rabbia ad aggiungersi ad una clessidra di rabbia in cui il tempo pareva aver soffocato il vetro: non scorreva mai, ma esisteva sempre. «fallito» commentò in un sussurro distratto, piegando lento il capo sulla spalla. Di sottecchi lanciò un’occhiata ad Andy Stilinski, immobile sul marciapiede laddove l’aveva lasciato: buon per lui, perché CJ – quello sadico, che non accettava stronzate da nessuno – aveva già raggiunto il proprio limite di tolleranza riguardo il genere umano, e nessuno, né in un universo né nell’altro, voleva sapere cosa succedeva quando l’apatia lasciava il posto agli istinti primordiali del telepata. Lo sguardo furente dell’Hamilton fece, saggiamente, chiudere la bocca già aperta dello Stilinski: sì, lo sapeva anche lui che non avessero tempo da perdere – ma faceva sempre il cazzo che gli pareva, CJ. Un qualunque CJ, a voler essere onesti. E lo voleva, quel tempo; ne aveva bisogno. Perché non si fidava delle parole dell’auror, non si fidava dei pensieri intravisti nel filtraggio a lui concesso dall’occlumante, non si fidava di nulla in quel mondo - né voleva, invero, farlo. Sapeva, teoricamente, che Meara e Barrow fossero al sicuro, ma non abbastanza da placare il tic nervoso al sopracciglio; e sapeva, sempre teoricamente, che ancora non ci fosse traccia né di Winston, Frankie o Preston, né di Kanye o Siobhan, né di Ade o i suoi genitori. Comprenderete bene, perché avesse bisogno di tempo. Ingoiò bile e saliva, premendo sul cemento sgretolato fino a graffiarsi il palmo e lasciare una scia di sangue sul muro – un dolore che non percepiva, in ogni caso: soffrire di CIPA aveva i suoi risvolti positivi. «fai strada.» mugolò all’altro, con un movimento schietto del capo. Non era dell’umore di chiacchiere futili – quando mai lo ora? – né di sentire le stronzate dello Stilinski; non era certo novità dell’ultima ora che all’Hamilton Andy stesse sul cazzo, quindi perché fingere il contrario? Percorsero la strada in un silenzio né piacevole né sgradevole, accompagnati solo dal tonfo sordo dei passi sul marciapiede. Si fermarono davanti ad un’abitazione che avrebbe potuto essere cento altre, una porta uguale a mille ed un vialetto anonimo quanto i vasi vicino allo zerbino. Inspirò dalle narici ed affondò maggiormente il mento nella giacca, sentendo il proprio cuore pesare nello sterno come un fottuto macigno. Già detto quanto odiasse tutto quello - tutti loro? Osservò il ventiseienne con la coda dell’occhio, domandando silente se fosse la casa giusta: sì, la era. Scosse impercettibilmente il capo e consumò con ferocia la distanza che lo separava dall’ingresso, esitando appena - appena - con le nocche sul legno. Aveva sempre odiato il segnale segreto degli showmen alla Great Caverna, biasimando un tale infimo atto ad un infimo livello mentale del Jonsten ed il Cobain, eppure fu a quel ritmo, inequivocabile, che bussò alla porta. Sentì i passi; sentì i primi pensieri affollargli la mente, masticando e bruciando tutte le false certezze che l’avevano trascinato fino a quel momento. A spalancare l’uscio, fu un estasiato Barrow Cooper: «cj?» Lo osservò per una manciata di secondi, lo sguardo a scivolare sulla pelle dell’altro per cercare eventuali ferite o segni di lividi – non rispose alla domanda che, sperava, fosse retorica. Un mero cenno con il capo, e come sempre il Barrow se lo sarebbe fatto bastare. Gli occhi dell’Hamilton, d’altronde, erano già alle spalle del biondo, in un punto ben preciso del corridoio dal quale il Cooper era appena spuntato: i capelli di un miele dorato più opachi di quanto li ricordasse, il viso meno perfetto ed ancor più bello sotto le luci inclementi dell’entrata, gli occhi dell’usuale, dolorosamente familiare, particolarità azzurro bruna. Credeva davvero che non avrebbe mai più rivisto Meara Cooper, CJ Hamilton – ed in quel momento, come in altri cento, avrebbe avuto da dirle almeno un migliaio di cose. Che le fosse mancata. Che, in quel momento come prima, fosse felice non si fosse fermata al carattere del cazzo dell’Hamilton, ed avesse insistito finchè Meara e CJ diventassero Meara e CJ. Che era sempre bella da spezzare il fiato. Che non aveva avuto bisogno di quattro fottuti mesi di assenza, per essere certo di amarla. «non siete morti.» fu invece il suo unico, caustico commento, mentre le labbra si curvavano in un lento ed intenzionale mezzo sorriso. Non aveva mai avuto bisogno di dirlo, CJ. E non aveva mai avuto bisogno di essere qualcuno che non era, perché c’era la Cooper a compensare tutto quello che all’Hamilton mancava. Allargò le braccia lo stretto necessario per accoglierla quando la bionda gli si fiondò sul petto, le mani a scivolare sulla curva della schiena trovando il posto che spettava loro di diritto. Inspirò l’odore della sua pelle, il profumo di casa, fino a quasi poter giurare di sentire qualcosa, premendola contro il costato fino a sentirne il battito fare l’eco del proprio. «abbraccio di gruppo?» e prima che Barry potesse allungare le sue succide braccina su di lui, le dita dell’Hamilton risalirono sulle braccia della Cooper, proseguendo sul collo fino a cingerle il viso fra i palmi. Il sorriso di Meara Cooper, a giurarci su Dio, avrebbe potuto bruciare il Paradiso o congelare l’inferno. «mi sei mancato anche tu» e ricambiando quello stesso sorriso, seppur più ironico ed amaro, cercò la sua bocca per riprendere l’abitudine al sapore dolce delle sue labbra. «ah, andiamo – ragazzi!» Non dovettero neanche coordinarsi, per sollevare il dito medio verso Barrow Cooper. In ogni mondo ed in ogni fottuta realtà, ad amarsi sempre nel modo sbagliato più giusto.
Era troppo bella per essere anche intelligente – ma ormai il danno era fatto, e CJ la amava così. Con il carrellino che si portava appresso come se lui, da Amortentia, girasse quotidianamente, l’Hamilton osservò la ragazza mentre la scarsa prima di reggiseno diventava almeno una terza. Sarebbe stato interessante, se solo fossero state simmetriche e non bitorzolute; immaginava di non poter chiedere troppo dalla vita. Avrebbe potuto farle notare che, grazie alla telepatia, avrebbe potuto cancellare la memoria del cassiere, ma perché quando non dirglielo era così dannatamente divertente? Il trattamento Hamilton era toccato per quattro, lunghi mesi a Iden Kaufman, era giusto che anche la Cooper si ricordasse cosa si provasse ad avere un CJ attorno. Frustrazione, principalmente. Osservava tutte le etichette leggendone gli ingredienti, un vizio acquisito negli anni a causa di una madre fissata con le fottute cose biologiche, scegliendo i prodotti meno peggio e lanciandoli disordinatamente nel cestino; non poteva avere un Harvelle’s dove fare acquisti, doveva accontentarsi della merce per poveri. Che infinita amarezza. Lungi dall’Hamilton ammettere ad alta voce, in quella vita come in cento altre, che la tappa Amortentia non fosse dettata dal bisogno di curare la sua assente chioma bionda: la scusa ufficiale era trattare gli impeccabili biondi con i quali condivideva la safe house; quella onesta era che, fra tutti i luoghi del mondo magico, quello era il più probabile dove trovare Roy Harvelle. Ma che figura avrebbe fatto, a riconoscerlo: aveva una reputazione da mantenere. «lo so che non hanno bisogno di noi» Come, d’altronde, Kanye non aveva mai mancato loro di ricordare – comodo però quando aveva bisogno del ca$h da papi riconoscere l’autorità paterna, uh. Meara non aveva avuto bisogno di specificare a chi si riferisse, e non solo perché CJ poteva tranquillamente leggerne i pensieri: con una frase d’esordio del genere, certamente non poteva accennare a Preston, o ai due ventunenni. Loro avevano chiaramente bisogno dell’Hamilton ed i Cooper. «ma spero che stiano bene» Capitan Ovvio. «non mi dire» commentò impassibile, arcuando un sopracciglio verso la bionda. «credevo volessi liberarti della potestà genitoriale» osservò un flacone di balsamo, ed arricciò il naso. «e ne abbiamo perse due in un colpo solo,» ancora terribilmente deadpan, l’Hamilton; dopo anni, chi lo conosceva imparava a distinguere quando l’impenetrabilità del tono celasse sincera preoccupazione – ma non era un dono per tutti. «che botta di culo» un sorriso, decisamente più cinico e velenoso, a arcuare gli angoli della bocca verso l’alto. Sì, gli girava il cazzo. Da morire. Non si fidava delle sue due creature sataniche, e non ne aveva mai fatto segreto. Figurarsi in una realtà alternativa dove genitori e nonni erano fottutamente ricercati. «te sai qualcosa di loro?» Si fermò al centro del corridoio con ancora una – candela? – fra le dita, ruotando lento gli occhi acquamarina sulla ragazza. «questa domanda è troppo stupida perfino per te, cooper» posò la cera laddove l’aveva trovata, superando la ragazza per giungere ai bagno schiuma. «mi avvalgo della facoltà di non rispondere.» un diritto che aveva avanzato e preteso per anni, in una famiglia di avvocati o falsi tali – il suo marchio di fabbrica, oramai. Inspirò dalle narici, uno sguardo liquido lanciato alle proprie spalle mentre cercava, fallendo, di captare i pensieri di qualcuno della loro realtà. Secondo Meara, se avesse saputo qualcosa delle loro figlie, non sarebbe con loro in quel momento? Non gliel’avrebbe detto subito? Che terribile opinione aveva, di lui. Si immobilizzò ancora, schiena dritta e spalle rigide. Sollevò improvviso un indice verso la Grifondoro, intimandole di tacere mentre piegava il capo sulla spalla. «sta…arrivando qualcuno» non dovette specificare che parlasse di uno dei loro - gli altri, l’Hamilton, non li considerava come persone. Alzò il tono di voce così da farsi sentire: «se sai di starmi sul cazzo» aka: plausibilmente chiunque. «il prossimo passo è a tuo rischio e pericolo» beh? Solo perché li aveva etichettati come qualcuno e non qualcosa, non significava che li volesse vivi. Sorrise a Meara, gli occhi un’ammaliante mezzaluna verde: vedi? Posso essere anche gentile, quando voglio. Dopotutto aveva avvisato, no?
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