from yesterday, it's coming

hyde + chelsey. 02.03.2018 @ new hovel

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    «ed anche oggi,» strascicò Jack Daniels, con l’usuale tono incolore e freddo, lanciando un’occhiata all’orologio da polso. Poco importava che avesse smesso di funzionare una vita, letteralmente, prima: non aveva bisogno di guardare effettivamente l’ora per sapere di averne, quel giorno come le centinaia d’altri prima ed i probabili successivi, piene le palle degli studenti.
    Di quelli, nello specifico.
    «avete dimostrato di essere degli incompetenti.» Non sollevò le iridi azzurre verso la classe, chinandosi invece per afferrare la valigetta posata ai piedi della cattedra. Se qualcuno vi avesse guardato all’interno, avrebbe potuto costatare fosse piena di pergamene vuote - o tutt’al più riempite dalla traballante calligrafia di Jek, il quale aveva la malsana tendenza di scrivere le proprie “rime” ovunque gli capitasse – ma nessuno era abbastanza in confidenza con il Daniels da potersi avvicinare alla sua ventiquattro ore senza essere maledetto.
    Non in quella vita, perlomeno.
    Odiava insegnare ad Hogwarts. Odiava tante cose, il Daniels – o il CW che dir si volesse – ma Hogwarts era il suo tallone d’Achille per più di un motivo, primo fra i quali la stupidità degli studenti. Giustificabili, nella loro ignoranza? Fino ad un certo punto. Non aveva né la pazienza né la voglia necessaria per rendere quel branco di imbecilli meno cerebrolesi, ma – ed era la causa principale della sua supplenza al castello – aveva avuto la sfiga di nascere Winston, ed un cognome del genere portava con sé responsabilità non sempre piacevoli. Si sentiva in dovere, Hyde, di sostituire sua madre dietro la cattedra; qualcuno l’avrebbe visto come un modo per esserle vicino malgrado di lei non vi fosse più traccia da mesi… E quel qualcuno avrebbe avuto ragione, ma non avrebbe avuto tempo di divulgarlo prima che Hyde gli staccasse permanentemente la lingua: aveva una reputazione da mantenere. Il secondo motivo che più gli rendeva intollerabile essere docente alla scuola di magia, era riassumibile in viaggiatori.
    Tanti, piccoli, bastardelli Messaggeri che lo guardavano con occhi opachi ed incoscienti, privi della memoria che li aveva spinti, quasi vent’anni dopo, a scegliere quella strada. Li aveva odiati quando ancora era previsto lui ci rimanesse, nel 2043 – figurarsi quando, tutti i maledetti giorni, era costretto ad incrociarne lo sguardo coscienzioso del fatto che loro non avessero la benché minima idea di chi lui fosse realmente. Juno, Jess, Tupp e Noah erano il minimo dei suoi problemi; Maverick, Eugene, Lilith ed Heathcliff, i suoi maledetti cugini, erano già una goccia oltre il traboccare d’odio di Hyde Crane Winston, ma ancora non raggiungevano il livello dolore fisico. Quello era riservato ad altri nomi, alcuni fra i quali - Amalie - non presenti nella stanza: se l’era risparmiato, Hyde, lo sguardo vuoto di sua sorella. Avrebbe preferito risparmiarsi anche quello di Chelsey Dallaire, ma a quanto pareva non si poteva avere (un cazzo) tutto dalla vita. In un mondo ideale, in un mondo fatto di Jekyll, avrebbe dovuto essere felice di rivedere la ragazza – la stessa ragazza che, anni dopo e prima, aveva creduto di non rivedere mai più; l’unica persona all’infuori della sua famiglia che avesse avuto il coraggio di definirsi sua amica, e l’unica al quale Hyde l’avesse lasciato credere - ma malgrado la presenza di una lettera, quello non era un fottuto programma serale condotto da Maria De Filippi: era la sua vita.
    Ed era ingiusta. Ed era crudele. Ed era un pessimo fottuto scherzo del destino.
    Battè le mani secco, una volta sola, affatto impressionato. «complimenti.» impassibile, ruotò lo sguardo su di loro senza soffermarsi su nessuno in particolare, ma in modo che fosse cristallino li ritenesse forme di vita inferiori e non particolarmente stimolanti, poggiando con un tonfo la valigia sulla scrivania. «come compito per il prossimo venerdì…» prese la giacca dalla sedia e la infilò con calma, lasciando temporaneamente appesi i giovani – così, giusto perché voleva far loro perdere tempo prima di dimetterli dalla sua aula. «sopravvivete alla vostra stessa idiozia.» curvò la bocca in una delle classiche smorfie alla Hyde, così poco avvezzo a sorridere da far sempre sembrare ogni sorriso il ghigno di uno squalo.
    Non che non lo fosse. La fame di sangue ed il distacco dall’umanità e dalla morale, d’altronde, c’era tutto. «buon fine settimana.» indicò con il capo la porta, e diede loro le spalle attendendo che uscissero – il dargli le spalle era, ovviamente, metaforico quanto letterale: se avevano domande sulla lezione, potevano chiedere ai loro compagni; se avevano dubbi esistenziali sulla vita, c’era Google. Non vedeva mezzo motivo al mondo per il quale avrebbero dovuto scocciare lui, che per inciso avrebbe dato loro risposte evasive per il puro gusto di confonderli.
    Era un insegnante di merda, e ne era perfettamente consapevole. Era solo un ruolo provvisorio, contava di abbandonarlo entro la fine dell’anno (spoiler: no, abbandona la cattedra solo l’anno scolastico successivo), ed Hyde era sinceramente non interessato a far fiorire quei boccioli in fiori che, sapeva già, non avrebbero potuto far altro che essere mediocri. Voleva l’eccellenza, o nulla affatto; voleva un mondo di Hyde Crane Winston, che di pezzenti qualsiasi n’era già pieno fino all’orlo – ed il sapere che fosse statisticamente impassibile, non abbassava comunque i suoi standard. Dai suoi genitori, dagli zii ed i cugini, il biondo aveva preso il meglio e l’aveva reso il suo personale peggio, rendendo l’intelligenza arrogante ed il senso dell’umorismo macabro e sempre a spese degli altri. Era geniale, era brillante, ed era idealmente il figlio che chiunque avrebbe desiderato d’avere.
    Idealmente. Perché nella pratica, Hyde era semplicemente uno stronzo.
    Con classe, ma pur sempre uno stronzo – presuntuoso, elitario, maniacale. Non che si meritassero molto altro, quegli individui inetti ed irriconoscenti che avevano fatto crepare l’intera umanità, e costretto i pochi sopravvissuti a viaggiare nel tempo per darsi una seconda possibilità: c’era un motivo di fondo, dietro l’odio interrazziale di Hyde.
    Ed erano le persone, il suo motivo. Tanto doveva bastare.
    Attese di non sentire più i passi strascicati degli studenti, prima di voltarsi ed abbandonare l’aula. Il suo itinerario per la giornata prevedeva una sosta a New Hovel, la zona ghetto dedicata agli special, e poco altro (un negozio di liquori) prima di vederlo tornare a casa a spalmarsi sul divano come un americano medio. Jek avrebbe cercato di convincerlo ad uscire, a fare vita!, ma il minore l’avrebbe liquidato con un gesto della mano (il dito medio, nello specifico) che non avrebbe lasciato spazio a contrattazione; si sarebbe infine addormentato, triste ed un po’ ubriaco, alle prime luci dell’alba sperando di non svegliarsi più, esattamente come ogni maledetto giorno della sua vita.
    Ah, amava le sue (brutte) abitudini – loro sì che non lo tradivano mai.
    Non appena si lasciò alle spalle i cancelli di Hogwarts, il biondo si smaterializzò a pochi passi dal quartiere dei mutati. Perché stava andando a New Hovel? Perché poteva dire e pensare quel che cazzo gli pareva, Hyde Joyce Crane Winston, ma la realtà era che malgrado fosse più intelligente della maggior parte della popolazione mondiale, restava comunque… stupido. Emotivamente stupido, incastrato in una ruota di crudo sadismo dalla quale non sapeva come uscire senza farsi più male che bene.
    Così passava a salutare zio Sin. Così, con una spalla poggiata alla cornice della porta, domandava a Jade o Euge se per quel giorno avessero bisogno di un baby sitter a Uran. Così, con il cuore sotto i tacchi ed il sangue delle proprie guance a sporcare la lingua, Hyde mostrava ad un mondo che non poteva comprenderlo quel poco di buono che aveva da offrire: perché loro non potevano saperlo, ma erano la sua famiglia. Era lo stesso Sinclair Hansen che l’aveva cresciuto alla morte dei suoi genitori, la stessa zia Jade che l’aveva portato centinaia di volte allo stesso museo solamente perché Hyde ne amava un dipinto, lo stesso zio Eugene che malgrado le smorfie ed i mugugni soffocati del Crane minore, non aveva mai smesso di stringerlo in abbracci sempre soffocanti. Erano solo più giovani. Se avesse avuto un cuore l’avrebbero spezzato la prima volta che aveva messo piede al quartiere, ma l’essere un insensibile stronzo aveva i suoi vantaggi: si sopravviveva più a lungo. I frammenti di quel ch’era stato il suo muscolo cardiaco non s’erano mai ricollegati l’uno con l’altro; ci si metteva più tempo, a rompere qualcosa di già rotto.
    Idealmente, quella sarebbe stata la sua routine.
    Nella pratica: «e tu,» sguainò la bacchetta prima ancora di voltarsi completamente, percependo il peso di una seconda persona non appena atterrò sul sentiero acciottolato di Diagon Alley. Chi dannazione aveva potuto pensare fosse una fottuta mossa intelligente attaccarsi a qualcuno mentre quel qualcuno si maledettamente smaterializzava? La rabbia lo fece, se possibile, impallidire ancor di più, rendendo più feroci ed alieni i sottili occhi fiordaliso. «chi cazzo saresti?» Puntò l’arma contro la figura, arcuando secco e metodico un sopracciglio: un solo movimento, ed un Foramen non gliel’avrebbe tolto nessuno.
    E con movimento, valeva anche respirare.

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    Immaginate di non avere nessun altro, a parte voi stessi, di cui potervi fidare, a cui poter confidare un segreto talmente grande che fa fatica a restare intrappolato tra i denti, la mascella serrata per non far sfuggire neanche un soffio che possa, in qualche modo, mettervi in pericolo.
    Immaginate di essere gli unici rimasti in piedi dopo una tempesta che ha sradicato la vostra intera famiglia. Estirpata dalle radici, distrutta da un tornado potente e inaspettato.
    Immaginate di esservi salvati sol perché voi, da quel nido, eravate lontano e che ora non possiate più farvi ritorno. Il cuore vi si stringe nel petto solo al pensiero di mettere piede in quella casa che vi ha visto nascere e che vi ha cresciuto. In quel luogo dove c’era sempre profumo di zuccotti appena sfornati, di crostate fumanti e di tè caldo. Dove c’era sempre qualcuno ad accogliervi con un abbraccio e a cui bastava vedervi lì per ammorbidire la postura e si sciogliersi in un sorriso, cingendo il vostro corpo e assicurandosi che voi stesse bene prima di iniziare a sistemare gli addobbi natalizi insieme, come da tradizione, o di borbottare allegramente un non sei neanche tornata che già sfrecci via per giocare a Quidditch!.
    Immaginate di non ricordare più il suono di quelle voci, di vedere quella casa spoglia, silenziosa, dove la polvere vi fa ormai da padrona. Vuota, come le due bare che erano dinanzi a voi poco più di un anno prima, riempite da freddi vi terremo aggiornati sugli sviluppi<i> e <i>stiamo facendo il possibile per catturare i colpevoli. Tutte scuse. Miserabili, fottute, scuse. Avreste voluto urlare ogni volta che vi si avvicinava qualcuno con l’aria impietosita, ogni volta che vi han trattato con i guanti di velluto quando tutto quello che vi serviva in quel momento era semplicemente essere capiti e lasciati in balia di un dolore insopportabile che vi spinge a restare appesi a un filo, perché è un modo come un altro per ricordare quei volti che non vi sorrideranno mai più.
    Immaginate di essere sballottolati da un Magiavvocato incompetente all’altro, di vedere i loro sguardi di sufficienza scansionarvi sul posto, decretando la vostra impossibilità ad essere presi sul serio, di dire la vostra, di aver voce in capitolo in una vita ormai ridotta al nome su una pergamena da timbrare, un caso burocratico come tanti altri.
    Immaginate di non poter avere accanto i vostri amici come vorrebbero, come vorreste, perché il cognome che portate non è abbastanza per le loro famiglie di Purosangue che vi considerano soltanto feccia e, per questo motivo, sareste dovuti sparire insieme ai vostri genitori.
    Immaginate di non riuscire più a cambiare colore, di non riuscire più a compiere quella magia che vi accompagna dalla nascita, perché non riuscite a provare più nessuna emozione. Siete rotti, in uno stato di totale e pura apatia. Non c’è neanche una traccia di disprezzo, di rabbia, un qualsiasi cosa che possa scuotervi, che possa restituire ai vostri capelli quel colore che li aveva sempre contraddistinti, che vi aveva sempre contraddistinto.
    Non vi resta che il Quidditch e sperare che tutto possa svanire. Non vi interessa quando, non vi interessa come, non vi interessa più niente… volete solo che il silenzio la smetta di essere così assordante.
    Immaginate di ricevere una visita, all’improvviso, e con essa una lettera. Immaginate di leggerla e di scoprire che quel qualcosa che non torna nella vostra vita, quel senso di inadeguatezza che avete sempre percepito quasi fosse la vostra ombra, in realtà è reale. La cosa più reale che vi resta. Perché voi non siete di questo universo, non ne avete mai fatto parte fino in fondo. Scavate nel vostro passato tramite il racconto sibillino della persona che eravate, che vi siete dimenticati di essere. Così venite a conoscenza di avere una famiglia – un’altra famiglia – e che tutto il vostro mondo, ciò che resta, inizia a sgretolarsi, a farvi andare sempre più a fondo, come se tutto quello che avete già passato non fosse ancora abbastanza. Perché, siamo sinceri, di cosa ve ne fareste di un legame caduto nell’oblio? Di volti che non ricordate e che non possono riconoscervi, perché ancora non sono arrivati a scrivere quei frammenti di storia insieme a voi. Eppure, se tutto fosse vero, molte cose riacquisterebbero un senso, tante cose troverebbero la loro giusta collocazione. Vi basta un nome, un solo nome, per darvi la possibilità di ricostruire qualcosa. Se fosse vero, se tutto ciò fosse vero, capireste perché quella persona ha fatto breccia nel vostro cuore, tenendo i vostri occhi incollati alla sua figura in volo. Rispondevate a quel richiamo di sangue che non può essere scalfito facilmente.
    Non potete ancora averne la certezza, avete ancora una cosa da fare. Vi conoscete bene, sapete di non essere tipi da basarvi solo sulle parole. Vi servono i fatti e non vi resta che recarvi a vedere cosa c’è nella camera blindata 822 della Gringott.
    Immaginate di aver preso quella decisione dopo averci pensato a lungo, di essere davanti quella porta rinforzata, di essere indecisi sulla vostra scelta fino all’ultimo. Siete tra due fuochi, perché forse sarebbe meglio non sapere, continuando la propria vita nell’ignoranza, bruciando la lettera, la chiave e tutto ciò che può esservi collegato. E’ la curiosità a spingervi fino a lì, la possibilità di trovare quelle radici che credevate perdute. E poi, una volta aperta la camera, immaginate di non trovarvi nulla al proprio interno.
    Come vi sentireste? Cosa provereste davanti alla consapevolezza che qualcuno vi sta negando la possibilità di ricongiungervi al vostro passato? Come la prendereste?
    Chelsey Weasley, non la prese bene. Decisamente.
    Si era sentita in qualche modo tradita, presa in giro, privata di ciò che le era dovuto.
    Perché Griff era stata molto chiara su quel punto, progettando una caccia al tesoro che le avrebbe permesso di conoscerla, conoscersi e accettare quella parte di sé che era stata cancellata. Le stava restituendo i suoi ricordi e qualcuno glieli aveva sottratti.
    Era furiosa. Dopo mesi era riuscita finalmente a provare qualcosa, a sentirsi viva. Livida di rabbia, nervosa, ma era pur sempre diverso dalla ormai solita apatia. Aveva addirittura ripreso a cambiare colore, le iridi cobalto ormai brillavano di un nero più scuro della pece.
    Per una volta nella vita, si era ritrovata a pensare a un modo per ottenere indietro i suoi ricordi. C’era un nome che riecheggiava nella sua testa, troppo occupata a lavorare su quel caso per occuparsi del resto, e c’era una foto che dissipava ogni dubbio.
    Avrebbe voluto affrontarlo sul momento, prendere la situazione di petto come al suo solito, fare una sfuriata appena i suoi occhi scuri avessero incontrato quelli freddi del Vigilante, ma non poteva. Sapeva che se lo avesse fermato nei corridoi del Castello, l’avrebbe ignorata. Le avrebbe dato dell’idiota, della ragazzina, liquidandola nel giro di pochi secondi. La sua verità era sempre stata a portata di bacchetta e lui non aveva mai, MAI, fatto un passo nella sua direzione. Non una parola di conforto, niente. Come se l’avesse dimenticata, nonostante non potesse, nonostante la sua mente non fosse stata toccata da quella spugna che le aveva cancellato i ricordi.
    Aveva atteso. Aveva sperato che il giovane professore tornasse sui suoi passi, che fosse venuto a conoscenza del fatto che qualcuno aveva cercato di riavere i propri beni dalla Banca dei Maghi e che, allora, l’avrebbe contattata per restituire ciò che le aveva sottratto. Confidava, stupidamente, che fosse lui a fare per primo un passo nella sua direzione. Gli aveva dato del tempo, tutto quello che poteva concedergli prima di passare all’azione, prima di fare la sua mossa. Un azzardo, ma era pur sempre qualcosa.
    Si era appostata sopra un albero vicino i confini del Castello, aspettando che passasse da lì, i capelli di un castano scialbo, i lineamenti del viso rubati a quelli di un passante delle vie di Hogsmeade. Lo aveva seguito silenziosa, il che la diceva lunga sulla serietà delle sue intenzioni, e appena il professor Daniels raggiunse il suo solito posto di Smaterializzazione, si lanciò in quel punto, afferrandolo per il bordo del cappotto un attimo prima di sentire la magia fare effetto, un secondo prima che lui potesse accorgersi della sua presenza e restare nel villaggio adiacente la Scuola. Perché tendergli una mini-imboscata? Per due motivi: non avrebbe mai scelto Hogwarts per svelare un segreto, non quando ogni sillaba pronunciata era a portata di quadro o fantasma o tubatura; se l’era cercata. L’aveva sfidata, almeno secondo la mente contorta e poco lineare della Grifondoro, e avrebbe ottenuto quello che voleva.
    Una volta che i piedi toccarono terra, si pietrificò sul posto, il braccio ancora teso a stringere quel piccolo lembo dell’indumento del professore.
    “Chi cazzo sono?”
    Tremò di rabbia a quelle parole, tutte le buone intenzioni andate liberamente a puttane non appena registrò il tono di Jack, la bacchetta puntata contro la sua figura. Tuttavia alzò la mano libera lentamente, molto lentamente, chiaro intento che no, non era lì per attaccarlo. Fisicamente, almeno. Non aveva la bacchetta, se fosse stato il genio che credeva di essere, avrebbe riconosciuto in lei una delle sue studentesse, avrebbe capito che non poteva compiere magie all’esterno del Castello. Ma avrebbe anche saputo che la Weasley non gli avrebbe risparmiato una testata sul setto nasale se le avesse fatto girare i coglioni con quell’atteggiamento di merda. No, non esisteva il divario Professore-Studente, non aveva autorità su di lei dal momento in cui aveva capito che era stato il Vigilante a non portare a termine l’unico favore che la Dallaire gli aveva chiesto.
    Dallaire. Faceva ancora così strano pronunciare quel cognome. Era così doloroso pensare di non essere mai stata una Weasley, non fino in fondo. Nonostante i capelli rossi e le lentiggini, l’atteggiamento di chi ne stava sempre per combinare una nuova.
    “Dimmelo tu chi cazzo sono.” perché in questo momento non sono nessuno.
    Non espresse quel pensiero, non a voce almeno. Erano le iridi grigie a tradirla, non riuscendo a stabilizzarsi su un colore preciso, ben determinato, specchio dell’emozione che stava provando. Era quello il motivo per cui era lì, era lei a dover fare le domande, non rischiare di essere maledetta, dannazione!
    “Hai qualcosa che mi appartiene e no, non me ne andrò finché non l’avrò ottenuta.”
    Strinse più forte la stoffa che aveva tra le dita, una muta richiesta di restare. Tecnicamente, non sarebbe potuta neanche tornare sola al Castello perché, avendo ancora 15 anni, non aveva il brevetto per la Smaterializzazione e lui era un suo docente. Era sotto la sua diretta responsabilità, che lo volesse o meno.
    “Mi devi delle risposte, Hyde Joyce Crane-Winston.”

    Another night, another war
    Another "what are we fighting for?"
    Another lost to bitter pain

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    CHELSEY WEASLEY
    DALLAIRE


    Edited by C h e l l S E Y - 13/12/2018, 01:35
     
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    In uno dei libri che ad Hemingway piaceva tanto leggere, quello sarebbe stato il momento in cui Hyde, pupille dilatate e bocca dischiusa in segno di sorpresa, sentiva il cuore accelerare la propria andatura; avrebbe abbassato la bacchetta, osservando con titubante timidezza lo sguardo consapevole di Chelsey Dallaire, portando una mano al petto come a voler fermare fisicamente la corsa impazzita del proprio battito cardiaco. E, quando lei avesse annuito con gli occhi lucidi di un’antica gioia condivisa, avrebbe aperto le braccia e le avrebbe strette attorno alle spalle della ragazzina, sentendola giovane ma sempre uguale, cercando il profumo di albicocca che nel 2043 albergava sempre nelle ciocche ramate. Magari avrebbe perfino detto, pur percependo la gola stretta ed il palato arido, ti ricordi di me, sei tornata, o un’altra di quelle frasi pre impostate che parevano ad effetto solamente per i cuori ingenui e buoni come quelli di Hemingway Winston-Crane.
    Ma quello non era, un libro – e Hyde certamente non era il protagonista dall’aspetto austero ma l’animo tenero e docile. Lo sguardo azzurro di Jack Daniels non si sciolse in pozze d’emotività, posandosi sul familiare profilo di Chelsey Weasley; il battito rimase lento e regolare, le guance non arrossirono, e le dita rimasero fottutamente e testardamente strette alla bacchetta ancora puntata contro di lei. E, per inciso, Chelsey non aveva mai profumato di albicocca: puzzava di crema da lucidatura per manici e dell’erba rimasta incastrata ai vestiti ogni qual volta ruzzolava dalla scopa. Sempre.
    «Chi cazzo sono?»Nessun sentimentalismo; nessuna colonna sonora a rendere l’incontro memorabile. La rabbia di Chelsey andò a schiantarsi contro la fredda imperturbabilità dell’occhiata anaffettiva di Hyde, le sue parole a rimbalzare sulle labbra del CW lasciandole strette in una linea dura e solenne. Non mosse un millimetro neanche quando lei, alzando una mano di fronte a sé, mostrò di essere innocua: buon per te, avrebbe voluto dirle, ma io non lo sono. Assottigliò lievemente le palpebre, impassibile ed annoiato - quando non direttamente seccato – dalla presenza della ragazza. Non solo l’aveva seguito, ed in una maniera invasiva che avrebbe potuto mettere in pericolo entrambi, ma…niente ma, la sua mera esistenza bastava ad infastidire Hyde Crane Winston; vorrei dire nulla di personale, ma il gelo nelle vene a irrigidire occhi e spalle, aveva tutto, di personale. «dimmelo tu chi cazzo sono» Lui, avrebbe dovuto dirle chi lei fosse? Lui? Curvò un angolo della bocca in un implacabile sorriso di scherno, le sopracciglia inarcate su un paio di palpebre così strette, da lasciar intravedere solo una scheggia delle iridi cerulee. Perlomeno, seppur con reticenza, abbassò la bacchetta infilandola nuovamente nella tasca della giacca: Chelsey era una seccatura, ma non era pericolosa - almeno, non nel modo che avrebbe necessitato una bacchetta con la quale difendersi – e per quanto, egoisticamente, avrebbe amato ricambiare in maniera crudele un millesimo del vuoto che tutti loro avevano scavato all’interno del suo sterno, non l’avrebbe mai realmente fatto.
    Mai. Era un infame, Hyde; avrebbe sacrificato le vite di migliaia di persone per salvarne solo una, se quell’una fosse stata abbastanza per lui: ci metteva anni e vite intere a dare la propria fiducia a qualcuno, ma quando lo faceva non era più in grado di riprendersela – una volta abbassate le difese, quando le rialzava lo faceva sempre inglobando chiunque l’avesse costretto a farle calare. Chelsey Dallaire, in un modo che ancora sfuggiva ad ogni barlume di raziocinio, ce l’aveva fatta: l’aveva preso per esasperazione, probabilmente.
    Ma l’aveva fatto - e, come tutti gli altri, se n’era comunque andata. Cosa poteva aspettarsi da lui? Cosa voleva? Che la comprendesse ed accettasse la sua scelta? Che fingesse di non aver perso la sua unica amica, l’unica stra fottuta persona, all’infuori della sua famiglia, a cui avesse mai rivolto un sorriso che non fosse beffardo o ironico? Ricordava tutto, Hyde; ricordava le opache giornate a scuola, dove – come prevedibile – odiava tutti i suoi compagni ed i bisbigli che seguivano il suo passaggio. Ricordava di aver odiato come tutto fosse grigio all’interno di Hogwarts, fatta eccezione per la chioma scarlatta di Chels: se n’era sempre sbattuta, la Dallaire, che Hyde fosse volutamente daltonico. I colori, glieli aveva sempre costretti, obbligandolo a rilasciare i pugni stretti lungo i fianchi ed a respirare senza voler perennemente desiderare che ogni fiato fosse l’ultimo.
    Ricordava tutto, Hyde Crane Winston, di Chelsey Gryffith Dallaire.
    «una ragazzina stupida.» fu la secca risposa che ricevette la Weasley al suo interrogativo: non era altro, per lui. Aveva scelto di non essere altro anni prima - anni dopo - nel momento stesso in cui si era unita alla Missione. Non lo so, chi cazzo sei - come avrebbe potuto? Assomigliava, a Chels; indossava la sua espressione, quella sempre sul punto di prenderlo a calci, ma non era la sua Chelsey: di quella di fronte a lui, non ne sapeva nulla. «Hai qualcosa che mi appartiene e no, non me ne andrò finché non l’avrò ottenuta» La osservò impassibile, gli occhi a scivolare dalle tenaci dita di lei strette alla sua giacca, fino allo sguardo di un cangiante ed indeciso grigio. Avrebbe potuto farle notare che non aveva bisogno fosse lei ad andarsene – l’avrebbe fatto lui togliendo il disturbo per entrambi – ma tendeva a non sprecare mai parole per qualcosa che già sapeva essere ovvio, e che la presa di lei sui suoi abiti tacitamente riconosceva, demandando un sottile non andartene. Conosceva quegli occhi, Hyde; conosceva il bisogno di sapere, e di non volersi sentire così vuoti, e di voler supplicare qualcuno di non lasciarlo, ma puntare invece sulla dignità sottolineando le proprie salde intenzioni a non volerli seguire.
    Come poteva non riconoscerlo. Mabel. Hemingway. Uran. Rude.
    Chelsey. «mi devi delle risposte, Hyde Joyce Crane-Winston.» Non reagì al nome, così familiare pronunciato dalla sua voce, con cui la rossa lo esortò. Non smise di respirare; non indietreggiò, non vacillò né abbassò lo sguardo. Quello che fece, dopo un’incredula manciata di secondi in cui quell’assurda richiesta vibrava nell’aria fra loro, fu ridere. Una risata roca e sconfitta, vetrata ed appuntita, piacevole quanto unghie su una lavagna. Strappò la propria giacca dalla presa di Chelsey, scuotendo il capo con la bonaria amarezza di un insegnante che si ritrovasse a punire uno studente per il medesimo misfatto. Quando la risata si spense con l’immediatezza con la quale era giunta, puntò lo sguardo in quello di lei, tenendo sulle labbra il ghigno da squalo che nulla aveva a che vedere con un sorriso. «lo credi davvero?» l’inflessione della voce lasciò trapelare un briciolo - ed era già qualcosa - della rabbia trattenuta così, così dannatamente bene nei denti stretti fra loro. Chinò leggermente il busto in avanti, il capo piegato sulla spalla. «non ti devo niente, weasley» non negò di essere Hyde Joyce Crane-Winston – perché avrebbe dovuto? Sapeva che avesse ricevuto la Lettera; sapeva che fosse andata alla Gringott alla ricerca di qualcosa di cui Hyde si era occupato non appena aveva messo piede nel passato. «non so chi sei, e non mi importa» continuò, perdendo nuovamente colore nel tono e nel viso, studiandola da capo a piedi con l’accademico interesse che avrebbe potuto riservare ad un parcheggio per biciclette. «qualcosa che ti appartiene?» inarcò un sopracciglio biondo schioccando con disapprovazione la lingua sul palato. «ti sbagli. non è tuo» serrò le palpebre, lo sguardo a sfuggire al volto della Grifondoro per posarsi su un punto imprecisato alle sue spalle: voleva, e doveva, farla sentire una nullità, Jack; voleva, e doveva, scordare che fosse Chelsey Dallaire, la stessa che l’aveva costretto a seguire ogni partita di Quidditch, la stessa che lo cazziava quando i suoi avversari sbandavano in volo perché sapeva fosse stata colpa sua, e la stessa che Hyde, puntualmente, ignorava, perché nessuno aveva più diritto di dirgli cosa poteva o meno fare nella sua vita – neanche lei, Hyde, e non era facile quando i suoi occhi lo guardavano da un viso sconosciuto. «non più.» sancì, tornando infine a ricambiare la sua occhiata. «vuoi un consiglio?» accennò un sorriso distratto e riflessivo, che mai sarebbe giunto a scaldare le iridi color ghiaccio. Non attese risposta. «vai avanti con la tua vita, chelsey weasley. e» abbassò il tono di voce, in confidenza o sottile minaccia, alzando di nuovo entrambe le sopracciglia. Non mi cercare. Non ti cercare «non credere a tutto quello che vedi.» Le foto insieme; le parole della Lettera. Qualunque cosa potesse legare Hyde Crane Winston e Chelsey Dallaire, perché oramai non erano più niente.
    Non gli importava neanche come la Grifondoro avrebbe potuto tornare al castello – poteva anche non farlo, per quanto lo riguardava. Indietreggiò di un passo, ponendo più spazio fra loro. «tu hai fatto la tua scelta» quando mi hai detto che saresti partita. «ed io la mia.» quando ti ho detto addio.


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    Sentì la stoffa sfuggirle dalle dita e, per un lungo attimo, credette che con essa fosse sparito anche il professore. Immaginò quel pop, il vuoto improvviso nell’aria. Aveva gli occhi sgranati, in gola un insulto che avrebbe tanto voluto pronunciare. Aveva fatto un passo, avanzando di poco, come se quello potesse bastare a fermarlo. Si aspettava di cadere in avanti, afferrando nuovamente il nulla, l’ennesimo tentativo fallito di trovare quel tassello mancante di un puzzle che le lasciava il vuoto dentro. Era come se avesse dovuto ricostruire una serata brava partendo dalle memorie di altri, perché le sue non bastavano, annebbiate dal troppo alcol. In questo caso, però, Chelsey doveva assemblare nuovamente un’intera vita. Non si trattava di una manciata di ore, bensì di giorni, mesi, anni. Le mancavano volti, storie, sorrisi, legami. C’era un intero mondo che le era appartenuto e che ora non era altro che un ricordo svanito, lavato via da un incantesimo talmente potente da aver resettato la sua intera esistenza.
    La risata di Jack squarciò il velo dei suoi pensieri. Era fredda, graffiante. Per essere quella di un quasi perfetto sconosciuto, faceva male. Dannatamente male. Eppure non lo erano, non erano stati così distanti; c’era stato un tempo in cui si erano incontrati, erano stati amici. Amici.
    “Non sono stupida.”
    Ragazzina, quello sì, ma non si sarebbe fatta insultare. Non da un vigliacco come lui. Perché il mondo di Chelsey si divideva in chi era abbastanza coraggioso da sfidare il proprio destino per salvare il mondo e chi non aveva abbastanza palle per farlo. Non sapeva cosa fosse successo tra Gryff e Hyde, non sapeva in quali termini fossero quando era giunto il momento di partire, ma lei aveva scelto di salvarlo. A Chelsey bastava sapere questo. La capiva e no, non era per la grafia simile sulla pergamena o per quel viso così familiare e simile al suo, o perché entrambe portavano lo stesso nome: se glielo avessero chiesto, se l’avessero posta davanti alla condizione di dover scegliere di sacrificarsi per salvare Kain, per avere indietro i suoi genitori, lei lo avrebbe fatto, senza battere ciglio. Era talmente incosciente, generosa, ingenua, da mettere sempre gli altri al primo posto; non perché volesse morire, quanto per dare significato alla sua stessa vita. Che fosse Dallaire o Weasley, che fosse Eleanor o Gryffith, lei era sempre “Chelsey. Solo Chelsey.”
    Non le restava che quel nome, spoglio di tutto il resto. Non indietreggiò davanti a quello sguardo freddo, tagliente. Non aveva paura. Più che ucciderla non poteva far nulla e lei, a quanto pare, era già morta una volta, almeno per il Crane-Winston, per quel mondo che i suoi occhi non ricordavano di aver visto. Probabilmente sarebbe ritornata sotto forma di fantasma a infestare le case e le strade di New Howel, ma di più cosa avrebbe potuto farle? Era stufa di essere trattata con saccenteria, con velato disprezzo, come se fosse ancora una bambina. Aveva appena iniziato a muovere i suoi primi passi nell’età adulta, in un modo che non avrebbe mai augurato a nessuno, è vero, ma non per questo sentiva il bisogno di essere protetta, di essere succube delle decisioni altrui. Sembrava tutto scritto in un grande libretto d’istruzioni, in cui si spiegava con minuzia di dettagli come sistemare quei pezzi sparsi che restavano di lei. Tuttavia, lei era sempre stata il difetto di fabbrica, costruita con quell’errore di programmazione che aveva sempre mandato in tilt il sistema. Non c’erano regole nel suo caos, nessuno schema ricorrente o analogie.
    Strinse la mano attorno al suo cappottino, stringendo così forte da far sbiancare le falangi, da farle iniziare a perdere una sfumatura di colore. Sentiva il bisogno di distruggere qualcosa, di sfogare la rabbia, di urlare, di prendere a schiaffi il biondo fino a farlo diventare castano. Le prudevano le dita, così tanto che se non fossero state serrate attorno a quel tessuto pesante, sicuramente avrebbero incontrato la guancia del Daniels. La prima. La seconda. La terza volta. La decima se quelle precedenti non fossero bastate a fargli cambiare idea. Non poteva, sapeva di non poterlo attaccare. Glielo diceva lo stomaco, glielo suggeriva la posa aggressiva del ragazzo dinanzi a lei.
    “Voleva che io lo avessi. Voleva che io la ricordassi. Si fidava di te e tu… TU…”hai tradito la sua fiducia. Non lo disse. C’era qualcosa di sbagliato in quella frase, qualcosa che le suonava terribile e definitivo, che avrebbe chiuso quella discussione ancora prima di iniziarla. Non aveva prove del fatto che, qualsiasi cosa fosse, fosse stata distrutta o persa per sempre. Non poteva sapere se ce l’avesse ancora Hyde o se fosse addirittura a portata di mano. Era stanca. Si sentiva frustrata, alla costante ricerca di qualcosa che continuava a sfuggirle dalle dita. Ogni passo che faceva verso la verità, ogni centimetro che riusciva a guadagnare in quella ricerca, la prosciugava di ogni energia, sembrando sempre più lontano.
    “Ti importa.” Non urlò, non alzò la voce come avrebbe voluto per evitare che la rabbia che provava in quel momento la facesse implodere. Ingoiò il groppo che le serrava la gola, le spalle abbassate, schiacciate da quella situazione che, ormai, erano mesi che non riusciva a gestire. “Altrimenti mi avresti depistato, mi avresti dato un contentino solo per tenermi lontana. Ti importa perché per lei, per Griffith, eri come un fratello. Ti importa perché, altrimenti, avresti fatto in modo che non ti trovassi. Può non interessarti chi io sia, puoi anche pensare sia una stupida ragazzina che ha scoperto di avere un passato diverso da quello che conosce, ma tieni a lei.”O non saresti rimasto, saresti tornato nel 2043 e saresti andato avanti con la tua vita.
    Era testarda Chelsey. Più le dicevano di non fare qualcosa e più si impuntava. Più le si intimava di lasciar perdere, più lei restava ferma nelle sue convinzioni. E Jack, in quel momento, non aveva neanche provato a negare chi fosse, spezzando quel filo di pensieri che l’aveva condotta a lui.
    “No. Non puoi decidere per me. Non devi compiere una scelta al posto mio. Ho bisogno di sapere, di conoscere la persona che ero e tu non puoi impedirmelo. Non puoi. Perché forse non sono la persona che ti era accanto, quella con cui sei cresciuto; perché forse non sono chi ero nel 2043 ma se c’è anche solo una possibilità, anche la più piccola, di avere qualcosa in comune con lei, allora merito di vedere cosa lei ti ha lasciato. Puoi anche tenerlo dopo, se per te è tanto importante, se Griffith significa ancora qualcosa per te. E se ha scelto te, è perché voleva facessi ancora parte della sua vita. Della nostra vita e io non mi tiro indietro. Non ho mai voltato le spalle ai miei amici e non inizierò a farlo ora.”
    Parlò tutto d’un fiato, le iridi cobalto fisse in quelle fredde di Hyde. Non vacillava Chelsey, mai. Neanche quando gli occhi rischiavano di tradirla, quando pizzicavano al punto da rischiare di lasciar scappare qualche lacrima. Si portò una mano al viso, un movimento veloce, quasi distratto. Odiava piangere, più di quanto non odiasse sentirsi con le spalle al muro.
    “Fanculo.”
    Perché, in fondo, era pur sempre una signorina.

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    Edited by C h e l l S E Y - 10/2/2019, 19:10
     
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    «Voleva che io lo avessi. Voleva che io la ricordassi. Si fidava di te e tu… TU…» Seguì la rabbia di Chelsey con lo sguardo, impassibile alla ferocia di quelle parole. Desiderò, in maniera del tutto sadica e masochista, che completasse la frase, mettendo un punto laddove Gryff aveva testardamente deciso per entrambi dovesse esserci una virgola. Ne aveva bisogno in maniera quasi fisica, abbastanza da ritrovarsi con le labbra dischiuse in un ghigno crudele pronto ad esortarla a farlo, dirgli cosa lui…cosa lui. Perchè, per quanto Chelsey Weasley avesse tratto le sue poco legittime conclusioni, non sapeva un cazzo di lui – non era a conoscenza di quanto fosse meschino, calcolatore, freddo. La Dallaire, anni prima e dopo, si era fidata di Hyde, ed era stata stupida quanto la ragazzina ora in piedi di fronte a lui con lo sguardo più infuocato e determinato che il Crane Winston avesse quasi mai visto: perchè lei l’aveva conosciuto, ed avrebbe dovuto farlo abbastanza da sapere che il biondo non fosse il genere di ragazzo che manteneva la sua parola.
    Non a quel prezzo. La lealtà di Hyde era peculiare, ma non inesistente – semplicemente, si basava sulla propria logica anziché su quella altrui. Era abbastanza leale al ricordo di Gryff, di voler impedire alla Weasley di appropriarsene: come le avrebbe fatto notare di lì a poco, la cosa migliore che potesse fare era andare avanti con la propria vita, ignorando qualunque cosa l’altra Chelsey le avesse lasciato in eredità. Quando nel 2043 si parlava di Missione</>, aveva sempre trovato stupido il ruolo dei Custodi: quel ch’era andato smarrito, <i>avrebbe dovuto rimanere nell’oblio. Poteva comprendere, con un certo piccato disappunto, perchè I volontari avessero avuto bisogno di quella labile certezza, ma non comprendeva come potesse essere stata realmente messa in pratica; per Hyde, avrebbero dovuto mentire, dire che nel passato si sarebbero ritrovati ed avrebbero saputo, ma senza stra fottutamente farlo sul serio.
    Del tutto onesto, nel dirle che non ne avesse bisogno. Che non fossero più cazzi suoi: lo pensava davvero, Hyde. Lo pensava ogni volta che una giovane Tupp gli domandava se volesse, quando (se, la correggeva lui) avesse trovato I suoi genitori, provare a parlargli; lo pensava ogni volta che un più impacciato, ma altrettanto ragazzino, Noah, gli chiedeva cosa si fossero persi. Lo pensava quando si ritrovava a guardare un Uran incapace di parlare ad agitare I piccoli pugni dal passeggino, o quando River camminava a tentoni da una parte all’altra del corridoio. Lo maledettamente pensava quando incontrava gli occhi azzurri di Jade, vivi e assenti, sentendo in gola tutte le parole che avrebbe potuto dirle nel suo futuro, e per le quali sempre aveva deciso di no. E quindi lui - lui cosa? Si era comportato da fottutamente se stesso? Non era stato lui ad imporsi nella vita di Chelsey; Cristo, non si era neanche mai imposto nella vita dei suoi fratelli, preferendo il margine al centro in cui loro lo trascinavano: lo sapevano a cos’andavano incontro, strappando gli Hyde dai bordi per rotolarli nell’inchiostro. Lo fottutamente sapevano. Ed allora perchè cazzo continuavano ad aspettarsi che potesse essere diverso? Non l’aveva chiesto lui di esistere, per loro. Non avrebbe permesso che lo facessero sentire in colpa per decisioni in cui non aveva avuto voce in capitolo, e dove sempre aveva rimarcato, con gesti ed azioni, quanto poco meritasse quella considerazione. Problema vostro.
    Ma non completò la frase, Chelsey; il fatto ch’ella avesse impedito alla voce di gridare, non bastò a salvare i timpani del biondo, che quelle parole le percepì concrete a conficcarsi nel cervello: «ti importa» ed era proprio quello il problema, no?
    Gli importava. Gli stra fottutamente importava, e non poteva fare un cazzo in proposito. Si sentì quasi in dovere di rispondere, di correggerla - di correggersi: perchè era vero, che gli importava.
    Ma di Chelsey Dallaire, non Weasley: se la rossa avesse deciso di tuffarsi nel Tamigi, non l’avrebbe fermata. L’unica persona del quale gl’importasse, era già morta. Replicò con un sorriso artefatto e cattivo, alzando con lenta intenzione le sopracciglia in segno di sfida.
    Ti importa perché per lei, per Griffith, eri come un fratello.
    Forse quello era il momento in cui avrebbe dovuto interromperla, facendole notare ironico come tutte le sue sorelle l’avessero abbandonato, ma decise di farla continuare quell’ostinato, superfluo, monologo di supposizioni non completamente errate, scuotendo appena il capo con uno sbuffo d’aria fra i denti.
    Come un fratello: un altro modo per dire sacrificabile.
    Ma tieni a lei.
    La osservò impassibile, lasciando ancora che il tono iracondo di lei rimbalzasse sul suo sorriso di gomma senza scheggiarlo. «tenevo.» rettificò, spalmando ghiaccio sulle fiamme. Perchè Cristo continuava a usare il presente? Non conosceva le regole basi della grammatica? Gryff non c’era più, ed Hyde non poteva tenere a qualcuno che avesse smesso di esistere. «E se ha scelto te, è perché voleva facessi ancora parte della sua vita. Della nostra vita e io non mi tiro indietro. Non ho mai voltato le spalle ai miei amici e non inizierò a farlo ora» Non furono le parole ad impressionarlo, nè tanto meno il tono determinato che tanto aveva imparato a odiare nel tempo trascorso con la rossa – fu la sua espressione a lasciarlo interdetto.
    Furono gli occhi lucidi, e la voce a rompersi, ed i denti stretti fra loro mentre una lacrima scivolava liquida sulle guance imporporate di quella che un tempo era stata la sua migliore amica, a costringerlo ad allentare il respiro trattenuto sulla lingua. Non era il genere di persona che fosse solito intenerirsi per un pianto, più il tipo di fratello che osservava critico un Jekyll in lacrime e gli lanciava contro oggetti contundenti, ma… era inaspettato. Non lasciò che la propria espressione cambiasse, tenendo la bocca in una linea impossibile da ammorbidire, ma – contro ogni logica – rimase in silenzio, anziché farle notare quanto poco se ne fottesse delle sue ragioni. Attese una manciata di secondi, il tempo di chiudere gli occhi e respirare, prima di tornare a guardarla. E se ha scelto te, è perché voleva facessi ancora parte della sua vita. «chelsey dallaire non è mai stata famosa per il suo buon gusto» Prese una sigaretta dalla tasca, infilandola fra i denti mentre ancora la osservava. Fu quasi tentato, semplicemente per indispettirla, di offrirgliene una: aveva sempre preso troppo sul serio la faccenda dell’essere sportiva, e non dover compromettere la propria salute.
    Roba sopravvalutata, la salute. «ha fatto scelte di vita non condivisibili» ha scelto me, avrebbe voluto dirle, e tu non sei costretta a fare lo stesso. «ma va bene» si strinse nelle spalle, poco impressionato quanto all’inizio di quell’assurda conversazione. «come preferisci» Ironico nel sorriso piatto che le rivolse, offrendole una mano perchè la prendesse nelle proprie: dovevano smaterializzarsi, e preferiva sapere di avere un passeggero, piuttosto che ritrovarsi a destinazione con un bagaglio non richiesto. «ti fidi?» e l’aveva fatto sempre, e non avrebbe dovuto farlo mai.
    For a fortune he'd quit But it's hard to admit How it ends and begins On his face is a map of the world
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    Chelsey aveva lo strano vizio di imporsi nelle vite altrui, senza chiedere il permesso, senza lasciare agli altri una minuscola, quanto vana, possibilità di scelta. Era successo così tante volte in quelle vite che sarebbe parso strano il contrario. Arrivava sempre come un uragano: implacabile, devastante, distruttiva. Avere a che fare con lei poteva risultare sfiancante e la Rossa non riusciva neanche a rendersene conto. Lo aveva fatto con Kain, incastrandolo nella sua vita a colpi di bolidi e Quidditch, lo aveva fatto con Hyde inseguendolo a carponi per ogni dove quando ancora non era in grado di muovere neanche i suoi primi passi. Poi ancora con i Weasley, piombando nelle loro vite e colmando un vuoto fin troppo grande da sopportare, lo aveva fatto con sua madre. Non lo sapeva, ma si era imposta anche con Bells, con quella figura che aveva idolatrato da quando aveva memoria, e che aveva amato prima, fino al giorno in cui aveva barattato la sua vita, i suoi ricordi, unendosi a quella Missione quasi suicida, arrivando persino a snaturarsi, a dimenticare se stessa.
    Chelsey entrava di prepotenza nelle esistenze altrui e, quando decideva di restare, lo faceva fino in fondo, a quanto pare rendendo anche labili i confini di spazio e tempo, distruggendoli come solo lei sapeva fare.
    Si legava alle persone, si attaccava a loro e non le lasciava più andare, ma non come un parassita bisognoso di attenzioni e con l’unico scopo di risucchiare la linfa vitale di chi le stava accanto: consevava sempre la sua indipendenza, il suo essere rumorosa, quell’energia in grado di generare tornadi.
    Era veramente facile essere considerati suoi amici, bastava poco per starle simpatici, ma la fiducia… beh, la fiducia era una questione estremamente delicata che persino lei la maneggiava con cura.
    “No, non mi fido.” Rispose diretta, come sempre, mettendo le cose in chiaro fin da subito. Non erano in un cartone della Disney, dove Hyde faceva un passo oltre il precipizio, consapevole di avere un tappeto volante e lei non era Jasmin, che lo avrebbe seguito in capo al mondo per una notte fantastica. Come avrebbe potuto? Ogni fibra del suo corpo era in allerta, ogni muscolo era teso fino al punto di rottura. Il suo istinto le diceva di andarsene, solo dopo aver tirato un pugno al suo professore, aver fatto i bagagli, lasciato una lettera di scuse a Kain e varcare il confine, ma era così determinata ad andare fino in fondo a quella storia che non avrebbe ammesso alcun passo indietro. Osservò scettica la mano dell’altro, tesa davanti a lei, e il sorriso che le rivolse il Daniels non faceva altro che confermare la sensazione che doveva tenersi lontana, che non doveva avvicinarsi, che faceva ancora in tempo ad abbandonare quel piano suicida.
    Tuttavia, come aveva detto prima il CW, non era famosa per il suo buon gusto, né per aver preso le decisioni migliori nella sua vita. Poteva aggiungere anche questo alla lista di cose che aveva in comune con la Dallaire: in fondo, in quell’epoca, aveva come miglior amico un Tassorosso. Che indossava cravatte canterine e calzini con i canarini senza pudore. Che tifava Vespe. Che adorava disarcionare dalla scopa.
    Scegliere di seguire il biondo poteva rientrare nell’ordinaria gestione delle sue giornate, a quanto pare era piuttosto brava a sfidare la morte e quello sguardo assassino che le stava rivolgendo non la spaventava: lei sarebbe morta in campo, abbracciando un bolide, davanti a tutto lo stadio che urlava il suo nome, che tifava la sua squadra, che supportava le sue giocate. La morte degli eroi del Quidditch, in pratica. Non avrebbe permesso privasse il mondo di uno spettacolo simile! “Ma, come ho già detto, non ho intenzione di tirarmi indietro.” Senza contare che non aveva altro posto in cui andare. Sarebbe rimasta lì, bloccata a New Howel, nella speranza che qualcuno la raccattasse e che la riportasse a Hogwarts, possibilmente senza chiedere spiegazioni. E il Daniels era la sua garanzia, no? Era fuori i confini del Castello e questo, forse, poteva costarle l’espulsione. No, quasi sicuramente, Jack al posto di coprirla, l’avrebbe sicuramente affondata. Era arrivata così lontano, così vicina a sfiorare il suo passato che sarebbe stato da stupidi (e vigliacchi) tirarsi indietro. Nonostante potesse ucciderla e far sparire il suo cadavere. Nonostante non potesse utilizzare la magia in quanto minorenne.
    Allentò la presa sul cappotto, lasciando che le sue dita tentennassero qualche istante sulla mano del maggiore, prima di stringerla con decisione.
    “Niente scherzi.”
    Non sarebbe servito comunque a nulla sottolinearlo, era solo per scacciare via la sensazione di aver appena commesso una cazzata. Forse la più grande della sua vita.
    Sentì ancora una volta lo strappo all’altezza dell’ombelico e si sentì sbalzata via, la terra che, all’improvviso, veniva a mancarle sotto i piedi, per poi ritrovarsi in un vicolo di Londra.
    Ecco, ora l’avrebbe spinta sotto un bus.
    Lasciò andare la mano del Crane Winston, ma solo per poter stringere la stoffa del suo cappotto, seguendolo in silenzio nel vicolo stretto fino all’edificio che doveva ospitare la sua casa. Diverse congetture si susseguirono nella sua mente, il caos della Capitale che li rendeva invisibili agli sguardi dei passanti, troppo assorti dai loro impegni per poter prestare attenzione a loro, al rosso vivo della sua chioma. Non lo lasciò andare neanche quando si ritrovarono a salire delle scale, né quando aprì l’uscio di quello che, a tutti gli effetti, sembrava fosse un appartamento. Tentennò appena, prima di entrare, concedendosi un solo istante di riflessione, un secondo per essere veramente consapevole e conscia di quella decisione, che non sarebbe più potuta tornare indietro: né se avesse scelto di varcare la soglia insieme al più grande, né se avesse cambiato idea, voltando le spalle alla Dallaire, ad Hyde e a quella parte sconosciuta di sé che stava cercando da mesi.
    “E’... vivo?”
    Domandò superando la figura collassata sul pavimento dell’ingresso, quasi fosse una sorta di macabro tappetino di benvenuto, nonché preludio di quello che le sarebbe potuto succedere. Voleva provare a tirare all’uomo? Ragazzo? Essere? un piccolo calcetto per vederne la reazione - ed eventualmente chiamare i soccorsi, o i pavor a seconda di quanto fosse defunto -, ma la sua attenzione fu catturata dalla cura degli ambienti, da quella semplicità che rifletteva l’animo pragmatico del professore. Niente fronzoli, niente cose fuoriposto. Persino i quadri erano allineati al millimetro e, per un istante, si domandò se in quella casa ci vivesse davvero qualcuno o se fosse semplicemente un oggetto funzionale alla mera sopravvivenza, quasi fossero perennemente di passaggio.
    Fece un mezzo giro su se stessa, continuando a guardarsi attorno incuriosita, prima di seguire Jack in quella che doveva essere la sua stanza. Restò sulla soglia, fissandolo da lontano, conscia del fatto che - come in una serie babbana - le servisse un invito per entrare. Fosse stato Kain, si sarebbe lanciata sul suo letto senza cerimonie, servendosi da sola con le api frizzole che aveva nel primo cassetto del comodino, prendendo la prima rivista che le capitava tra le dita, sentendosi perfettamente a suo agio, perché era consapevole di essere la benvenuta. Ma con Hyde… beh, non poteva vantare di aver ripristinato questo privilegio - perché avrebbe scommesso il suo manico di scopa che anche Gryff faceva così con lui! Magari non trovava riviste di Quidditch vicino al suo letto, ma chi erano loro per giudicare? - e aveva come la sensazione che non avrebbe fatto altro che far infuriare il biondo, più di quanto già non fosse.
    Lo studiò trafficare nell’armadio, soffermandosi sulla sua espressione, chiedendosi cosa lo avesse fatto cambiare idea così, all’improvviso, dandole in questo modo accesso a quei ricordi che non riusciva a capire se volesse proteggere o dimenticare. O entrambe le cose.
    Solo quando le porse una scatolina di latta rossa, si accorse di aver trattenuto il respiro, di star tremando appena. Evitò lo sguardo dell’altro e strinse il contenitore freddo tra le dita. Sorrise appena, sedendosi sul divano, quando si rese conto che fosse dello stesso colore dei suoi capelli e che, all’apparenza, non avesse nulla di speciale. Era semplice, senza decorazione alcuna, quasi anche Gryffith fosse una persona in grado di concentrarsi solo sull’essenziale, andando dritta al sodo, senza mai dimenticare quel dettaglio minuscolo che le avrebbe consentito sempre di lasciare il segno.
    Non sapeva cosa aspettarsi da lei, non sapeva cosa avrebbe potuto trovare una volta rimosso il coperchio e, a rigor di logica, era quella l’unica azione da fare per scoprirlo.
    Prese un lungo respiro e fece scattare la piccola serratura, svelando il contenuto del tanto agognato box.
    Sollevò lo sguardo su Hyde, confusa, perché “Credo sia per te…” disse porgendogli una busta con il nome del ragazzo sopra. Dimostrò di mostrarsi delusa per essere stata snobbata da Gryffith (prima ti fai cercare e poi pensi a qualcun altro!?!) e si concentrò sul resto del contenuto “Fiale?” Domandò più a se stessa che al ragazzo accanto a lei, estraendone una con estrema delicatezza. Sembrava contenessero tutte un liquido argentato, quasi impalpabile. Sul vetro di ogni boccetta c’era un’etichetta con un nome e una data: Uncle Arci ❤, Mum, StupHyde, Uran, Rude, Uncle Elijah, Aunt Rea, Uncle Vik, Uncle Euge, Aunt Jade, Levi e tutta una serie di nomi di gente che non conosceva e che avrebbe dovuto. C’era tutta una storia tra le sue mani e, una volta finito di riempire il tavolino del soggiorno dei suoi pensieri, si rese conto che nel fondo della scatolina c’era ancora un oggetto, un piccolo anello finemente intarsiato con la testa di un leone e un altro bigliettino, questa volta indirizzato a lei: only if you choose to stay.
    “Arrivati a questo punto, credo ci serva un pensatoio.”

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    ** Il testo della lettera lo metto sotto spoiler qui! E l'ultima frase è cancellata perché solo Hyde può leggerlo
    “EHI CAZZONE (ihihih in realtà sappiamo entrambi sia più piccolo di un boccino, ma è sempre divertente ricordartelo), hai visto che ho sempre avuto ragione nel dire che, almeno un pochino, il tuo organo pulsante raggrinzito (chiamarlo cuore mi sembra un po’ eccessivo, ma è sempre meglio specificare!) è ancora in grado di voler(mi) bene! E tu che andavi in giro a terrorizzare i vecchietti per dimostrare il contrario!
    So che adesso mi odierai (e forse per la prima volta lo farai per davvero), che la lotta per rendere illegale il Quidditch sarà la tua unica valvola di sfogo per farmi soffrire, che impedirai a mia madre di far sesso, sbucando all’improvviso, in modo tale che io non nasca, che rinnegherai anche il pensiero di essermi amico ma, credimi, non rimpiango nulla di questa scelta. Mi mancherai. Te l’ho già detto e avrei tanto voluto registrare queste parole per fartele sentire all’infinito, fino a convincerti, finalmente, che non sarai mai solo, che non è stato facile. Non ho sbandierato per anni la nostra amicizia, non ti ho molestato per quasi due decenni con la mia presenza per poi far finta tu non sia mai esistito. Che io, per te, non sia mai esistita.
    Ho mosso con te i miei primi passi, sei stato una delle mie prime parole, il primo amico, la prima spalla, la prima persona preferita. Volevo far parte della tua famiglia, così come volevo che tu diventassi un Dallaire, perché sei sempre stato meglio di quanto non abbia mai voluto dare a vedere. Perché sei sempre stato un’orgogliosa testa di cazzo, una delle peggiori, ma sempre lì, at the corner of my eye.
    Prenditi cura di me, io farò lo stesso. Sempre. Che tu lo voglia o meno.
    Ho mantenuto la promessa, Hyde, così come tu hai mantenuto la tua: in un modo o nell’altro, sono tornata per darti tormento e spero non sia troppo tardi per chiederti scusa. Per provare a rimediare, per dimostrarti che non è così semplice liberarsi di me.
    Se hai questa pergamena tra le mani, può significare solo tre cose:
    1) SEI UNO STRONZO. Perché non hai mantenuto la parola data, perché hai voluto farmi male, soprattutto quando non posso più prenderti a pugni per l’oltraggio subìto;
    2) Hai mantenuto la promessa. Nonostante tutto. Nonostante l’odio e il rancore. E non posso non ringraziarti e ammirarti, perché, alle fine, anche tu hai scelto di non arrenderti e… sii forte. Il più forte di tutti noi. Hai scelto di restare, vero? Sentivi troppo la nostra mancanza, sotto sotto sei un tenerone!
    3) Non sei Hyde. Allora chi cazzo sei???
    Ti voglio bene.
     
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    Rimpiangeva tutto, Hyde Joyce Crane Winston – quasi banale da ricordare, considerando che ripeteva quella frase fra sé e sé in ogni post ogni secondo della sua esistenza, ma non meno sincero di volta in volta. Umettò le labbra, un braccio poggiato contro l’armadio e l’altro ivi infilato alla ricerca della scatoletta (aperte virgolette, anche mentali, nel dire:) trafugata dal biondo. Sarebbe stato più semplice, per il neo Jack Daniels e per tutti quei pezzenti ingrati viaggiatori del tempo, se nessuno avesse saputo un cazzo, del mondo che si erano lasciati alle spalle – ma perché ascoltare l’opinione di un diciottenne, quando si poteva mandare tutto a puttane con insensati sentimentalismi fini a se stessi? Non era mai stato d’accordo con quella politica, e fu incoerente da parte sua cedere alle richieste della rossa, le dita strette attorno all’eredità della Dallaire. Faticava ad mettere d’accordo il buon senso con la sottile, e stupida, speranza che quelle testimonianze potessero cambiare le cose rendendolo più reale d’un fantasma – sapeva d’essere solo quello, Jack Daniels, nella loro vita: un’ombra.
    E sapeva, Dio se sapeva, fosse giusto così, ma faceva, Cristo se faceva, più male di quanto avrebbe mai potuto immaginare. Un dolore sordo e asciutto, come una spinta fisica a premergli le spalle contro il muro, e schiacciare ancora andando a sfavore di ogni legge della fisica. Era così…patetico, che l’usuale impassibilità del CW tendeva a creparsi di rancore ed odio più caldo di quello freddo cui era amico di vecchia data, minacciando le basi stesse della sua identità.
    In parole povere, quella situazione del cazzo fotteva il suo brillante, geniale, ed atipico, cervello.
    Sarebbe stato tutto più semplice, se fosse nato stupido; la vita dei deficienti era priva di scalini, tanto di botte in testa ne avevano già prese abbastanza: Jekyll ne era una sempre verde testimonianza.
    Porse la scatola a Chelsey senza troppe cerimonie, quasi - quasi - sollevato dallo svincolarsene. Se tutto fosse andato bene, con quel piccolo atto di fede si sarebbe liberato anche della fu Dallaire: come avrebbe detto zio Sin in uno dei suoi (rari) momenti di saggezza, due piccioni con una coppola. Stava per lasciare la stanza, decisamente poco interessato alla reunion delle due Chelsey, quando la voce della ragazza lo fermò: «credo sia per te…»
    Pure.
    Tienitela, avrebbe voluto dirle; bruciala, fanne il cazzo che te ne pare - quello, Jack Daniels, avrebbe dovuto dire, già troppo invischiato in stronzate che nessuno di loro poteva permettersi. Ma abbassando lo sguardo sulla busta, e sulla sbilenca grafia della Dallaire, si limitò in silenzio ad allungare una mano. Si ripetè che fosse sua; che prenderla, era stata mera questione di principio. Era troppo complesso da capire ed accettare, che potesse semplicemente mancargli quella ch’era stata la sua unica amica – che per sentirla sparare minchiate anche solo un’altra volta, sarebbe stato disposto a mettere a rischio ben più che la propria posizione da non me ne fotte un cazzo, lasciatemi stare. Infilò il pollice sotto l’apertura, strappando cauto la carta della busta. In piedi, una spalla ancora poggiata alla cornice della porta, si decise a –
    EHI CAZZONE (ihihih in realtà sappiamo entrambi sia più piccolo di un boccino, ma è sempre divertente ricordartelo)
    - buttare la lettera.
    Sollevò lento e metodico un sopracciglio su Chelsey, sbattendosene le palle che non fosse la stessa ragazza che l’aveva scritta – tanto dubitava che il suo senso dell’umorismo fosse cambiato. Come le aveva fatto notare più volte, e più volte, lui le battute sulle madri o sulle dimensioni falliche, non le capiva. Non le capiva. Aveva un limite deontologico nella comprensione delle minchiate, e quelle lo superavano a livello vertiginoso – sì, Hyde era esattamente quel genere di ragazzo che fissava impassibile lo schermo del televisore dal primo secondo di Scary Movie, all’ultimo (fun fact: dopo essere stato costretto a guardare american pie da jek, non mangiava più torte di mele).

    hai visto che ho sempre avuto ragione nel dire che, almeno un pochino, il tuo organo pulsante raggrinzito

    Ma ancora?

    (chiamarlo cuore mi sembra un po’ eccessivo, ma è sempre meglio specificare!)

    Ah ecco. «ah ecco» appunto.

    So che adesso mi odierai (e forse per la prima volta lo farai per davvero), che la lotta per rendere illegale il Quidditch sarà la tua unica valvola di sfogo per farmi soffrire, che impedirai a mia madre di far sesso, sbucando all’improvviso, in modo tale che io non nasca, che rinnegherai anche il pensiero di essermi amico ma, credimi, non rimpiango nulla di questa scelta.

    Lo sapeva, Hyde. Certo che lo sapeva, ma leggerlo nero su bianco lo faceva incazzare come la prima volta – e la seconda, e la quinta, e la centesima - perché vaffanculo, Chelsey. Sarebbe stato paradossale dire che il biondo preferisse una menzogna alla realtà dei fatti, ma non significava che quella versione dei fatti gli piacesse. Avrebbe dovuto oramai esserne impermeabile, ma quelle erano ferite sempre aperte sul pavimento di bagno pubblico – l’infezione, era nello spazio di un respiro di troppo.

    Ho mosso con te i miei primi passi, sei stato una delle mie prime parole, il primo amico, la prima spalla, la prima persona preferita. Volevo far parte della tua famiglia, così come volevo che tu diventassi un Dallaire, perché sei sempre stato meglio di quanto non abbia mai voluto dare a vedere. Perché sei sempre stato un’orgogliosa testa di cazzo, una delle peggiori, ma sempre lì, at the corner of my eye.
    Prenditi cura di me, io farò lo stesso. Sempre. Che tu lo voglia o meno.


    Alzò una mano per zittire la Weasley, impassibile nello scorrere le parole sulla pergamena.

    spero non sia troppo tardi per chiederti scusa.
    E non posso non ringraziarti e ammirarti, perché, alle fine, anche tu hai scelto di non arrenderti e… sii forte. Il più forte di tutti noi.

    Ti voglio bene.


    In silenzio, Hyde – un paio di secondi, o di minuti. Quando infine aprì bocca, senza alzare lo sguardo dalla lettera accartocciata nel palmo, «ti, serva» se si concentrava, solo se si concentrava, poteva sentire l’eco del battito atono nello sterno. «io ho fatto il mio dovere, ora sono cazzi tuoi»
    Perché non capisci, Chelsey
    È così
    Difficile
    Crederti
    .
    «arrangiati»
    Tu-tum. tu-tum. Inspirò ed alzò i freddi occhi azzurri sulla ragazza, lo sguardo a scivolare sulle provette.
    Certo che è troppo tardi.
    Certo che non posso perdonarti.
    Dio, Chelsey, ma che cazzo hai fatto
    .
    «fuori da casa mia.» un secco cenno con il capo verso l’entrata, lo sguardo cieco di fronte alla ragazza che un tempo, non troppo prima, era stata parte di un piccolo, davvero fottuto piccolo, tutto, per Hyde.

    Che per quanto assurdo possa sembrare, ti volevo bene anche io.
    For a fortune he'd quit But it's hard to admit How it ends and begins On his face is a map of the world
    1998's | head of council | vigilante
    02.03.2018
    prelevi? // i panic at a lot of places besides the disco
    jack daniels
    hyde crane-winston
     
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