i love to hate the fight

elijah x rea

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    27 y.o. • wizard: clairvoyance
    01.12.2018
    elijah
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    Can you build my house with pieces?
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    Luglio 2018.
    Si rigirò il cilindro di tabacco tra le dita, ancora, il respiro tremendamente lento a fare da contrappeso al battito pesante e tachicardico dietro la cassa toracica; lo sguardo, inizialmente posato sulla punta della sigaretta, domandandosi silenziosamente se fosse o meno il caso di accenderla nell’attesa, si era andato a perdere chissà quanto tempo prima in un punto indefinito della città – sfocato e distante, vuoto e liquido come le stesse iridi verde acqua che, senza sforzo, cercavano di dargli una forma e renderlo visibile.
    Ma non lo avrebbe visto comunque, il chiaroveggente, nemmeno se fosse stato ad un palmo dal suo naso. Non aveva più la cognizione di quel tempo a farsi denso e vischioso sulla lingua ad ogni respiro che, prepotente e puntuale come un orologio svizzero, gli ricordava di aver bisogno dell’aria e permeare i polmoni - non per sé, per gli altri -; non sentiva i suoni di quell’estiva nottata nella metropoli inglese, che testarda non voleva saperne di coricarsi e di prepararsi per il solito trantran del giorno a seguire, preferendo piuttosto inondare le strade di Londra di schiamazzi volgari e sgommate sull’asfalto, di sirene della polizia e canti ebbri e delle urla indispettite di chi già, quella serata, l’aveva portata sotto le coperte. Assente persino a sé stesso, Elijah Dallaire a stento riusciva a percepire il freddo acciaio sul quale, chissà quanto tempo prima, si era seduto ad attendere – o a ricordare il momento in cui, assorto e distratto, aveva spinto il petto sulla ringhiera rossa, appena arrugginita dalle immancabili intemperie londinesi; in cui l’aveva stretta tra le dita tremanti, le pesanti palpebre calate sullo sguardo trasparente, per sporgersi un solo istante in tutta sicurezza ed avvertire le vertigini ed il vento pungente a pizzicare le goti irsute.
    Avrebbe voluto poter dare la colpa al whisky che anche quella sera, sebbene avesse (e si fosse) promesso di darci un taglio, aveva bagnato lingua e gola, che ancora bruciava le pareti dello stomaco e le vene come brace ardente sciolta nell’emoglobina. Gli sarebbe piaciuto davvero tanto, poter dire che se si trovava alle due della notte fermo immobile su scale antincendio di cui, a voler essere onesti, si fidava ben poco, era a causa dell’ennesima volta in cui il suo sistema nervoso non aveva maledettamente retto un’altra nottata priva di sonno, ed ancora aveva sperato che una piccola bevuta potesse conciliare un torpore – che fosse anche di un paio d’ore e turbolento, a quel punto non gli interessava affatto. In fin dei conti chi, vedendolo lì, avrebbe mai potuto dire il contrario? Era in un palazzo che niente aveva a che vedere con la villetta a schiera dei Dallaire, e per di più a cinquecento e passa miglia da quest’ultima: perso, in tutti i sensi possibili ed immaginabili.
    Ma non c’era abbastanza scotch nel sangue del biondo, quella volta, da usare come capro espiatorio: il distillato delle Highlands scozzesi ancora era pieno per metà, adagiato sullo scalino alle sue spalle ed intatto da un’ora o poco più, sfiorato dalle labbra sottili del Dallaire solo per umettare la gola arida; non era sobrio, quello no di certo, ma nemmeno abbastanza brillo da non ritenere più adeguato rimanere in casa e non fare assolutamente nulla - il solito, per intenderci. Inspirò dalle narici, soffrendo ogni singola molecola di umido ossigeno come fosse una stilettata dritta al miocardio; faceva sempre un po’ più male, tutte le volte che irrazionalmente percepiva il battito nel petto farsi più armonico ed equilibrato, e quella metafisica lama penetrare sempre un po’ più a fondo.
    Era il palpito stesso, così costante e perfetto, che lo metteva terribilmente a disagio - a fargli credere che fosse una cattiva (nel vero senso della parola) idea quella di presentarsi alla porta di Nathaniel Henderson ad un orario del genere. Su quelle scale di ferro scarlatto, si chiedeva se fosse ancora in tempo per ripensarci e tornare sui propri passi. Esattamente ciò che aveva già fatto in precedenza alla porta di Rea, dopo aver passato mezz’ora buona con il pugno sollevato ed il capo chino, incerto se picchiare il legno oppure no; o davanti a quella di Eugene e Jade, sempre più timoroso di dover guardare il migliore amico negli occhi conoscendo informazioni che non poteva, né doveva, sapere, e che gli avrebbero fatto del male sia se dette che meno.
    Ognuno di loro aveva la propria vita, ciascuno le proprie mancanze da affrontare.
    Elijah Dallaire, e problemi annessi, non voleva essere un peso nella loro quotidianità – non più di quanto già non lo fosse, naturalmente.
    Nathaniel aveva un cuore infranto da ricucire, rapporti familiari da revisionare e un lavoro da tenersi ben stretto: sebbene fosse colui che l’aveva visto nelle situazioni peggiori (mai raccontato di quella volta in cui, lerci come le merde, il chiaroveggente si era attaccato dieci cavatappi alle nocche delle mani e, convintissimo, girava per Londra affermando di essere Wolverine? E di come ovviamente il professore, assecondandolo e mettendosi il casco di una bicicletta – rubato, e rubata anche la bicicletta nel dubbio -, aveva deciso di essere Magneto e di voler volare via dall’Inghilterra? Mistico. Ed ancora più assurdo era stato credere di essere magicamente arrivati a Malibù e di aver visto Heidrun e Murphy lanciare granate ad uno Stiles coltivatore di arance) (ah beh l’aveva anche visto morire, ma quello era stato uno spettacolo pubblico - quindi, insomma) non era certo di volersi accollare al Lowell in quel periodo. Non se lo meritava.
    Ma. Ma - aveva poche altre opzioni.
    Poteva sempre andare a far visita a papà Sin: qualcuno doveva pur aiutare la povera Lydia a fare da badante all’Hansen. Non che fosse ancora realmente necessario, ecco.
    Aveva vissuto per un anno intero per strada. Sua sorella non glielo avrebbe mai perdonato, ma era comunque un’ipotesi – no? No.
    Conoscendo Nate, e considerando che venti minuti prima aveva bussato alla sua porta e questi gli aveva assicurato che “tra cinque minuti” sarebbe arrivato, aveva ancora un quarto d’ora buono per prendere tutta la sua roba e sloggiare – magari sarebbe tornato ad Inverness.
    Doveva invece già essere passata una mezz’ora, perché quando si girò a controllare che tutte le sue cose fossero ancora sul pianerottolo, si trovò la visuale inaspettatamente ostacolata. «aspetti che si fumi da sola?» alzò distratto un angolo della bocca verso l’Henderson, senza proferir parola.
    Un errore, considerato che l’altro stava attendendo l’effettiva risposta: oh, dopo anni ancora non capiva quando il suo migliore amico era retorico o scemo onestamente curioso. «no, io…» distratto, lasciò scivolare lo sguardo sulla vestaglia da notte di Nate per poi riportarlo sul cilindro di tabacco, i denti a mordere l’interno della guancia. «stavo, mh…» pensando che dovrei davvero andare, eh! scusa il disturbo, ci sentiamo un giorno di questi bruh - «mi stavi aspettando? awww» deglutì, strinse le labbra tra loro; annuì appena, facendo spazio sullo scalino per lasciare che il mago si sedesse al suo fianco. In fin dei conti , lo stava aspettando: ovvio e palese, perché negarlo? Che non fosse stata poi la sua preoccupazione maggiore in quei trenta minuti appena trascorsi, era un altro discorso.
    La fiamma della bacchetta lambì appena la punta della sigaretta, ed Elijah ne trasse un primo, lento e cancerogeno respiro – l’unico rumore ad accompagnare quello del vento che si insinuava nei vicoli più stretti. Per più tempo di quanto non fosse necessario, quello della carta che bruciava fu tutto ciò che riuscisse a rendere il silenzio meno imbarazzante: non era affatto abituato ad una cosa del genere. Non che fosse mai stato un gran chiacchierone, ma Nate? Farlo stare zitto era difficile quasi quanto convincerlo a mettere all’asta on-line la sua collezione personale di Twinings – il che per il biondo era un bene, era bello.
    Umettò le labbra, e stanco di quella calma anomala si voltò verso l’altro (temendo che si fosse addormentato: si sarebbe spiegato tutto); quando aprì bocca, si accorse di non sapere da dove iniziare - come al solito, ovviamente: ecco spiegato perché, negli ultimi mesi, aveva ben pensato di farsi sentire sempre di meno da lui, da Rea o da Eugene.
    Vergogna.
    «nate,» si schiarì la voce, distogliendo gli occhi da quelli celesti. Ammetterlo davanti a Bells era stato difficile, difficilissimo, ma almeno con la sorella era talmente sbronzo da percepire di meno il viso avvampare, il desiderio di nascondersi dietro le mani più tollerabile – ed in quella situazione, gli sarebbe stato impossibile negare l’evidenza. Non che questa fosse un mistero per il migliore amico, o per la mora: dopo un anno e mezzo ancora faticava a capire come funzionasse quel legame, oltre al mero tenerlo ancorato al mondo dei vivi, ma era sicuro che in un modo o nell’altro loro avessero già una mezza idea di come stavano le cose.
    Ed era per questo che era fuggito da Villa Hamilton - per questo che non aveva bussato, il cuore a palpitare talmente prepotente contro la scatola toracica da turbare il sonno della donna. Condividevano lo stesso battito e lo stesso respiro caldo a riempire i polmoni; era la persona con la quale non aveva nemmeno bisogno di pensare all’alcol o ai sonniferi, che bastava sentire il fiato di lei lento alzare ed abbassarle il petto, a pochi centimetri di distanza, per calmare ogni turbamento. Eppure, con lei la vergogna di se stesso scalava vette che mai aveva ritenuto possibile raggiungere.
    Avrebbe voluto comprendere meglio il perché, Elijah Dallaire. Un perché che scavava nei meandri di una tabula rasa, scalpello di un professionista a riesumare fossili che nessun archeologo prima di lui aveva potuto riportare alla luce; il semplice battito a diventare più frenetico in sua presenza, o le goti febbricitanti ed il sorriso, pur sempre presente, ancora più facile da sollevare quando distratte le iridi verdi andavano ad immergersi nel caldo cioccolato dei suoi, non gli bastavano più. Erano già motivi validi, ma aveva bisogno d’altro ancora.
    E non sarebbe stato dicendole «ho un problema.», che avrebbe migliorato la situazione.
    Forse sì, certo. Sicuramente sì.
    Aveva paura anche solo per provare a pensarci seriamente – non di lei. Di perdere, lei.
    Con Nate, inutile girarci troppo attorno, il timore era più o meno lo stesso; egoisticamente, contava sulle volte in cui (almeno per ciò che gli era stato raccontato) i ruoli erano stati più o meno inversi, o su tutte quelle lerciate che avevano già condiviso da quando era tornato.
    Si rendeva conto fosse troppo da chiedere, ma Dio!, quanto avrebbe voluto non doversi ritrovare, di nuovo, quello sguardo – probabilmente e sicuramente involontario, oramai, ma dannatamente onnipresente. Avrebbe voluto chiedergli di non guardarlo in quel modo, di non essere compassionevole.
    Purtroppo, lo capiva. «scusa, io…» scosse la testa, chiuse gli occhi. «non volevo disturbarti» onesto fino ad un certo punto: se davvero avesse voluto evitarlo, non sarebbe lì. «hai già tante cose a cui pensare, meglio che -» «coglione» beh, sì, anche. Sbadigliò sonoramente, e si rese (stupidamente: erano le fottute tre di notte, che cosa si aspettava) conto che doveva aver disturbato il suo sonno – era davvero un amico di merda. Avrebbe voluto smaterializzarsi.
    O trascendere al piano astrale ed abbandonare il suo corpo all’imbarazzo, vagando per lo spazio cosmico ed andando a meditare nell’iperuranio: quello poteva farlo.
    «davvero, vado» si alzò in piedi, schiacciando la sigaretta contro la ringhiera per spegnerla e – no niente, tenersela in mano; non avevano pattumiere sulla scala antincendio? Bestie. «tanto avevo da, mh, fare» «eh, alle tre meno venti della notte» Nathaniel aguzzò lo sguardo azzurro, divertito ma non troppo. Non capiva se era solo assonnato o se voleva fare la persona seria, e ciò lo metteva a disagio; gli faceva quasi paura, quando non lo capiva. «posso solo immaginare.» poteva?
    No, okay - Elijah, riacchiappati. Non rispose, solo perché aveva un po’ di amor proprio. In compenso si abbandonò con la schiena contro la balaustra, un sorriso appena accennato a prendersi gioco di sé. «posso…» «tutto il tempo che vuoi.» fermo e conciso, impedendogli di replicare in alcun modo. Non che ne avesse intenzione, sia chiaro; si chiese come facesse a sapere cosa aveva da chiedergli? Nemmeno troppo: «ho già portato dentro la tua roba.» annunciò, togliendo ogni plausibile dubbio. «eli… vuoi -» «parlarne?» stanco, alzò un sopracciglio sardonico. «no» Voleva soltanto dormire - era chiedere tanto? «niente che tu già non sappia, comunque» insomma, sempre la solita storia: perché avrebbe dovuto annoiarlo ulteriormente?
    «è solo per qualche giorno, te lo prometto»

    Dicembre 2018.
    Non era stato solo qualche giorno.
    Qualche mese, magari. Non rientrava nelle più rosee aspettative del Dallaire, che confidava potesse bastare una boccata d’aria nuova e routine diverse per mettere tutto, se non al proprio posto, almeno in un disordine meno confuso.
    E invece, oltre a rompere le palle a Nate, si era misticamente trovato a dover convivere con Rea nella sua villa.
    Mentirei, e di brutto, se dicessi che non ne era felice: gli bastava un singolo sguardo di lei, anche incazzato o snervato che fosse, per rendere la propria giornata un po’ più luminosa.
    Ma. C’è sempre un ma.
    Ossia, che la paura non intendeva schiodarsi dal suo cervello.
    E, oltre a quello, c’era la questione degli au. Affascinanti, certo - passava più tempo di quanto non volesse ammettere ad assecondare le teorie shipper di Nate, prendendo appunti ed ipotizzando coppie che, oggettivamente, non avevano senso -, ma anche abbastanza… preoccupanti?
    Cioè, erano nel loro mondo da cinque mesi, ed ancora non erano riusciti a tornare a casa; avevano lasciato amici, famiglie; alcuni erano ancora dispersi, e nessuno sapeva che fine avessero fatto. Erano in pericolo, e non sapeva assolutamente come aiutarli.
    Avrebbe voluto, ed era per quello che aveva proposto una riunione - giusto per capirci qualcosa in più, conoscerli meglio e capire dove provare a cercarli. Credeva negli schemi, Elijah: comprendendo un po’ meglio le persone, potevano seriamente arrivare a metodi più veloci per scovarli.
    Come fossero arrivati a parlare di quello, non ne aveva idea.
    Aveva senso, eh - però insomma.
    Bevve un sorso d’acqua per smorzare la tensione, molto probabilmente avvertita solamente da lui nella stanza, e Dio soltanto sapeva quanto avrebbe voluto fosse un buon Jim Beam. Una parte di lui, infima e bastarda, che gli ricordava d’essere dall’altra parte del presunto varco temporale e che loro non avessero niente a che vedere con l’altra parte, trovata tutto quanto estremamente esilarante.
    L’altra, oh boi. «quindi…» non volse lo sguardo né a Rea né a Nate, portando tutta la sua attenzione unicamente su quel particolare esemplare di Hamilton. Non che avesse mai davvero conosciuto quello canon - il minimo indispensabile, ecco -, ma quello lì era… troppo.
    Non pensava avrebbe mai visto un sorriso solcare le labbra di un Gemes qualsiasi, ed invece ancora una volta la vita l’aveva sorpreso.
    Deglutì, non sapendo bene come porre la domanda. O ripetere l’affermazione dell’uomo: poco cambiava. In ogni caso, era rude. «quindi di… di noi» si indicò, per poi col pollice puntare prima l’una poi l’altro del suo universo, allargando idealmente il gesto ad Eugene. «sono… l’unico sopravvissuto.» piatto, distaccato.
    Gemes non emise suono: le labbra morse e lo sguardo triste, ombra di un lutto ancora scavato nel petto, si limitò ad annuire. «mh.»
    Mh. Non voleva… non voleva davvero pensarci ad un’evenienza simile. Si sentiva quasi fortunato, a pensare che se uno dei due presenti se ne fosse andato, lui l’avrebbe raggiunto in un battito di ciglia.
    Come avrebbe potuto vivere altrimenti?
    Effettivamente, c’era solo un motivo per il quale l’altro doveva aver continuato a farlo. Non ebbe nemmeno bisogno di chiederlo, per immaginare la risposta: l’unico motivo che doveva aver fatto desistere il Dallaire cronocineta dal seguire le orme dei suoi migliori amici, della sua famiglia, aveva un nome ed il suo stesso cognome: Bells.
    Non era esattamente lì che sarebbe voluto andare a parare, quando a Gemes aveva chiesto “ci parli un po’ dei nostri /doppioni/ del tuo mondo?”. Non poteva aspettarselo.
    «poi, mh…» abbassò lo sguardo sul tavolo, tamburellando nervoso le dita sul mogano. Chissà se poteva svignarsela dicendo di avere una seduta con Stiles per poi finirla – di nuovo? di nuovo - in una sbronza triste.
    Sì, poteva. Ma non lo avrebbe fatto. «che… altro puoi dirci? magari dei superstiti, ecco» beh, gli sembrava onesto. Cambio di discorso tattico, palla al centro e si ricomincia daccapo.
    «ti sei sposato ed hai una famiglia!»
    Ti sei sposato ed hai una famiglia.
    Ti sei sposato. Ed hai una famiglia.
    «ah.» imbarazzante.
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    «non mi piaci» Rea Hamilton non era famosa per la propria onestà, ma all’interno della propria casa, e con individui così chiaramente inferiori al minimo sindacabile che rendeva l’uomo un essere umano, non doveva preoccuparsi della propria reputazione: poteva maltrattare psicologicamente ciascuno degli inquilini senza alcuna ripercussione sulla sua nomea - l’aveva sempre fatto. Fuori da villa Hamilton, nelle circostanze adatte, poteva immedesimarsi nel ruolo della miglior amica, ma dove a testimoniare c’erano solamente occhi che la conoscevano – o conoscevano quel che Rea voleva conoscessero – non doveva preoccuparsi di indossare impassibili maschere di cortesia: poteva odiarli apertamente. Qual gaudio. Incrociò le braccia sul petto, una spalla poggiata allo stipite della porta nell’osservare il ragazzo chinato sull’isola della cucina. CJ Hamilton (non suo parente, grazie a Dio, ma per i suoi gusti c’erano già troppi Hamilton in circolazione) curvò le labbra in un sorriso sardonico e freddo, sottili occhi verdi a studiarla di sottecchi. «è reciproco» Pure. Sollevò un sopracciglio e reclinò il capo sulla spalla, invitandolo silente, se tanto il malessere era reciproco, a togliersi dalle palle.
    Il bello, se così si poteva definire l’invasione della privacy, di avere a che fare con i telepati, era che per mandarli a farsi fottere non aveva bisogno d’usare gesti o linguaggio volgare: CJ poteva chiaramente vedere la direzione indicata nei suoi pensieri, ed ella poteva continuare a sorridere piacevole quanto un quadro in un museo d’arte moderna. «se potessi tornare a fottutamente casa mia, lo fottutamente farei.» Malgrado la scelta del turpiloquio, fu probabilmente la prima cosa detta dell’Hamilton che non lo fece disprezzare alla ex Serpeverde – perché c’era qualcosa nel tono giovane, e strascicato, che diceva quanto fosse stanco di spalare merda. Non poteva biasimarlo, Rea, ma lo faceva comunque: non era stata creata per il politicamente corretto; metodi simili li lasciava a Gesù, o Elijah Dallaire. «non cambia il fatto che non mi piaci» Non sapeva neanche il motivo. Solitamente i giovani frustrati e con chiari disturbi emotivi erano la sua cup of tea, ma qualcosa – qual-fottutamente-qualcosa, volendo usare gergo giovanile – le dava fisicamente fastidio, nel ventitreenne. Se l’au di Gemes fosse stato più Hamilton e meno ew, Gemes, nessuno gli avrebbe risparmiato la paternale sulla sua scelta in fatto d’amicizie; ahimè, anche con l’Hamilton adulto aveva poco cui spartire. La fauna della villa aveva raggiunto un livello di insopportabilità pari solo ai giorni successivi il labirinto, fra pusher improvvisati Paolo Fox (ciao judas) ragazzini con problemi di gestione della rabbia (smak a jay) e aloysius angus crane (un nome, una condanna). Quanto doveva essere disperata per trovare allettante l’idea di passare del tempo, e senza alcun obbligo!, con Nate ed Elijah? Tanto - la risposta era tanto. Quando li aveva invitati ad alloggiare, temporaneamente, con lei, l’aveva fatto perché non riusciva a tollerare il denso silenzio a rimbalzare fra le mura della villa, ma raramente era rimasta nella loro stessa stanza per più di cinque minuti. Li evitava, e senza alcun motivo specifico; per abitudine, forse.
    O forse perché le ricordavano quanto avesse perso - quanto si fosse persa. Per una maniaca del controllo come lei, ancora era difficile accettare la Situazione nel quale s’era infilata salvando Elijah Dallaire. Lo rimpiangeva? No, ma non ne era neanche un’affermata ammiratrice. Ancor più complesso era tollerare gli occhi verdi, e gonfi di rammarico, dell’ex Grifondoro: già era difficile avere a che fare con la versione basic di Eli, ma quella è-tutta-colpa-mia-Dallaire raggiungeva un livello che spesso le aveva fatto valutare il Sacrificio Massimo del suicidio, così da portarlo con sé all’inferno. Non era fatta per le rassicurazioni; anche dopo il legame mistico, non possedeva abbastanza empatia per essere una spalla su cui piangere – non era adatta neanche alle pacche sulle spalle. Cristo santo, cosa doveva fare una donna per liberarsi di un’occhiata del genere, quando non bastava amare abbastanza da riportare maledettamente in vita? Perché di amore s’era trattato, e sul genere preferiva non interrogarsi. Avrebbe davvero, davvero voluto che la questione si chiudesse lì, e che lo sguardo giada del Dallaire non la mettesse sempre nella posizione di sentirsi in dovere di dare una giustificazione - che non aveva, maledizione. Non aveva, ed anche l’avesse avuta, non avrebbe avuto alcun piacere nel condividerla. Per Rea Hamilton, la parte più difficile era quella: per la prima volta in vita sua, non era in grado di reggere l’aspettativa. «anche alla nostra rea, non piacevo; nulla di nuovo, zia» Zia – gli sembrava forse sua zia? Fottuti giovani e fottuti modi di dire; avrebbe voluto strappargli il ghigno divertito con una frustata sui denti, e non era certa del motivo per il quale non fosse ancora ricorsa alla violenza.
    Forse stava diventando troppo buona. Maledizione. «non piacevi? vuoi forse dirmi che siamo diventati migliori amici?» ed all’appiccicoso sarcasmo della Hamilton, il più giovane rispose con un altro sorriso piatto e crudele, divertito da neanche Dio avrebbe saputo dire cosa. «potrebbe essere; non vado d’accordo con i morti come mia sorella» «cosa?» «cosa»
    Cosa.
    «REEEEEE/EEEEE/AAAAA» Inspirò dalle narici massaggiando la radice del naso, l’acuto di Nathaniel a richiamarla sull’attenti. C’era un motivo ben preciso se se l’era filata prima che iniziasse la riunione, preferendo criticare l’esistenza stessa di CJ Hamilton che sedersi sul suo divano nel suo salotto – ed il motivo aveva un nome: si chiamava Gemes Hamilton; esatto, trovava più seccante l’avvocato di Elijah o Nate: era davvero un mondo al contrario. «ARRIVO.» Ruotò gli occhi bruni alle proprie spalle, prima di tornare a guardare il giovane uomo nella sua cucina. «sei salvo» CJ sorrise, ma non sembrò sentirlo realmente. «per ora» anche Rea, sorrise.
    «per ora.»

    […]

    Non avrebbe potuto dire lo stesso per Gemes Hamilton. Chi aveva inventato il detto ambasciator non porta pena, era evidentemente stato un paraculo allucinante; Rea fremeva dal bisogno di colpire l’avvocato con violenza ed insistenza, ma, dato ch’era una signora, si limitò ad osservarlo truce: poteva non essere un telepata come il suo figlio amico, ma non ci volevano super poteri per comprendere fosse il momento di chiudere la bocca.
    Cioè.
    Non solo era morta, ma – ancor più allucinante – ELIJAH ERA SOPRAVVISSUTO. Cristo Santo, se non era un au quello! Ed aveva osato - aveva OSATO! – farsi una famiglia: con che coraggio? «fuori» fu il calibrato, metallico, commento della Hamilton. Non si era scomposta, gambe elegantemente incrociate e mani giunte sulle ginocchia; non s’era mossa d’un millimetro, sempre algida ed aggraziata, ma c’era qualcosa, nel tono di Rea, che non era affatto gentile e posato quanto la seduta avrebbe potuto lasciar intendere. «fuori da qui» Mosse il capo secca invitando tutti - tutti - a lasciarla sola: avrebbe potuto andarsene lei, ma perché avrebbe dovuto? Era maledettamente casa sua; erano le sue, dannate, regole. «vi do trenta secondi per sparire dalla mia vista, dopodiché non risponderò delle mie azioni» Si permise un sorriso distratto e sadico, le ciglia a battere lente sugli occhi scuri. «uomo avvisato -» muore male comunque, perché vi odio tutti.
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    «fuori» lento e metodico, temendo che un movimento troppo brusco del capo potesse allarmare Rea e metterla maggiormente sul piede di guerra, posò gli occhi chiari sul profilo della mora. Immobile e statuario, Elijah Dallaire, nel studiare i lineamenti della ventottenne – non un sorriso a solcargli le labbra, non un’ombra ad incupire il verde traslucido delle iridi. Non si era aspettato molto, dal momento in cui il Gemes dell’universo alternativo aveva aperto bocca rivelando loro quanto greve fosse la vita dall’altra parte del velo dimensionale, se non vero e proprio disagio; per quanto lo riguardava, nel venire a conoscenza della morte dei suoi migliori amici e della famiglia che s’era costruito l’altro biondo, ci aveva preso in pieno: si sentiva spesso in imbarazzo, in quasi ogni istante della propria esistenza, ma quello provato in quel momento sfiorava un livello trascendentale. Capace di sentirsi colpevole per ogni infima stronzata, non poteva impedirsi di prendersi anche le responsabilità delle scelte e del destino del proprio doppione; non riusciva a non immedesimarsi, per quanto le loro vite avessero seguito sentieri differenti: era lui, solo con una storia smussata su alcuni angoli e resa tagliente laddove quella del chiaroveggente sembrava più morbida. «fuori da qui» la reazione della Hamilton, il tono con cui concisa diede quell’ordine, non era qualcosa che aveva, in qualche assurdo modo, previsto. Immaginava potesse parere strano che lui, Elijah!, fosse l’unico superstite del team; fastidioso che si fosse costruito qualcosa senza di loro, lo era anche per lo scozzese. Ma… non pensava così tanto.
    Corrugò le sopracciglia dorate, volgendo prima la propria attenzione ad un Gemes sull’orlo di una risata isterica – poteva quasi sentire gli ingranaggi del suo cervello mentre, incastrandosi tra di loro, cercavano di comprendere se quello della ragazza fosse un modo di dire o facesse sul serio -, poi a Nathaniel, teso e confuso tanto quanto lui. Ormai poteva dire di (essere tornato a) conoscere la fu strega quel tanto che bastava a capire che la situazione non l’avesse semplicemente seccata: non era una pentola a pressione; non si caricava semplicemente di rabbia a muso duro per scoppiare nel momento più opportuno. Rea Hamilton trasudava ira ad ogni sorriso piccato, ad ogni fulgente occhiata color cioccolato – almeno, così amava vedersi lei: il Dallaire, in tutto quel tempo, non era mai riuscito a percepire davvero quel furore.
    Non come avrebbe dovuto, non come avrebbe voluto. «vi do trenta secondi per sparire dalla mia vista, dopodiché non risponderò delle mie azioni. uomo avvisato-» si umettò le labbra, le braccia incrociate sul petto. Dieci secondi dell’ultimatum imposto erano già trascorsi, quando si osò alzare lo sguardo su Gemes, che aveva infine deciso che rompere ulteriormente le uova nel paniere della proprietaria di casa non era la migliore delle idee che avesse mai avuto; quindici, quando incontrò lo zaffiro degli occhi di Nate. Venti, e gli fece un cenno con il capo: sapevano (meglio, speravano) entrambi che non li avrebbe potuti uccidere nemmeno se lo avesse voluto, ma ciò non significava che non capisse il bisogno di lei di mandare tutti quanti via.
    Ma quando l’Henderson si alzò, uscendo dalla stanza, Elijah non lo seguì; mosse qualche passo, ed ai trenta secondi appena conclusisi si sedette più vicino alla mora. «pensi mi ucciderai per essere rimasto?» domandò, l’ombra di un sorriso a premere sulle labbra. «o torturerai? vorrei essere preparato» capiva il suo bisogno di rimanere da sola, e probabilmente lo avrebbe anche fatto, ma sarebbe stato davvero lui se non ci avesse quantomeno provato, a capire cosa stesse succedendo? No, ed aveva maledettamente bisogno di sapere che ci fosse ancora un po’ di se stesso lì dentro.
    Giusto un po’, e se ne sarebbe andato: glielo aveva detto già più volte, che non la aveva mai voluta disturbare. «vuoi… parlarne? ti vedo turbata» per non dire “vagamente incazzata”, solo perché era una signorina dalle buone maniere ed il termine incazzata non si addiceva alla sua personalità.
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    prelevi? // i panic at a lot of places besides the disco
    Perché Elijah Dallaire doveva sempre sfidare la sorte? E la sua già sottile, sottilissima, pazienza, portata all’esasperazione da minacce che non potevano rivelarsi altro che bluff, considerando che ucciderlo – com’era tentata di fare più volte di quante fosse civile ammettere a voce alta, ma delle quali non si vergognava affatto – avrebbe significato uccidersi, ed a Rea la vita piaceva abbastanza da non metterla a repentaglio per un biondo qualunque.
    Anche se l’aveva fatto.
    Capiva quanto fosse frustrante quella situazione? Probabilmente no - probabilmente perché in fondo, non lo era abbastanza neanche per Rea: una piccola parte della Hamilton era grata d’avere quel taboo, perché quando nell’equazione entrava Elijah Dallaire, non si fidava di se stessa. Sapeva che per puro capriccio, per togliersi quel fastidioso, irritante, calore alla gola ed al petto, avrebbe potuto arrivare al punto di non ritorno, e liberarsene una volta per tutte; si conosceva, Rea, ed era abbastanza sadica da averlo potuto fare, se non avesse avuto il limite invalicabile del suicidio annesso all’omicidio. Orgoglio. Paura. Ruotò gli occhi scuri sull’ex Grifondoro, la lentezza studiata che faceva vibrare di terrore i suoi nemici – e che faceva, lui? Sorrideva.
    Che…bestia. «o torturerai? vorrei essere preparato» Figlio di una (tanto cara, scusi signora Davina, per farmi perdonare chiameremo la figlia ritardata con il suo nome) (SKè DAVI MAMMA TI AMA) buona donna. «potrei» secca e concisa, nel sopracciglio a sollevarsi verso l’attaccatura dei capelli. Sincera: avrebbe potuto, Rea.
    Il fatto che sapessero entrambi non l’avrebbe fatto, era quel che più la mandava fuori di testa. Digrignò i denti impassibile di fronte all’espressione quieta del Dallaire, freddi occhi color quercia ad affilarsi, sempre, in quelli color giada di lui. Era naturale per la Hamilton partire all’attacco anche quando non ce n’era alcun bisogno, lei che sul piede di guerra c’era da tutta una vita: non sapeva come deporre le armi, Rea. Non sapeva chi essere, senza lo sguardo affilato ed il sorriso crudele a curvare la bocca. «vuoi… parlarne? ti vedo turbata» Battè le ciglia, ma – per quante volte ci avesse provato nei sedici anni da che lo conosceva – Elijah non spariva: non era un illusione, e non poteva cancellarlo. Non voleva, d’altronde, fingere non esistesse. Che senso avrebbe avuto, a quel punto. «ci conosciamo da quasi vent’anni, elijah: ho mai voluto parlare di qualcosa?» con te, poi: lo lasciò implicito, ma l’espressione con cui accompagnò la retorica domanda, completò la frase da sé. Turbata. Non sapeva neanche lei perché fosse turbata: logicamente e razionalmente, non ne aveva alcun motivo. Era un universo alternativo, non aveva basi sulle quali poter giudicare – non si conosceva, non conosceva quell’Elijah. Non avrebbe dovuto importarle. «sono solo…» stanca, principalmente, ma quel che più la pungeva nel vivo, era gelosa: stupido ed infantile, eppure Rea era gelosa del fatto che Eli avesse potuto farsi una vita senza di lei. Perché? Non aveva motivo d’esserlo, considerando che non era roba sua, Elijah Dallaire, neanche in quella vita - ma il raziocinio aveva poco a che fare con il furore a scaldarle le vene. Avere emozioni era complesso; le mancava il masochistico controllo che per tutta una vita aveva avuto sul proprio range emotivo. «stupita.» concluse, strappando infine lo sguardo da quello del Dallaire per puntarlo oltre le sue spalle. Una reazione un po’ esagerata per un po’ di stupore, che dici Rea? Non avrebbe aggiunto altro alla questione; Elijah si sarebbe fatto bastare quella risposta. E se proprio era in vena di chiacchiere, che le togliesse una curiosità: «perché hai accettato di venire a vivere qui?» sarebbe stato tutto più semplice, se Elijah fosse stato un po’ più Rea. «potevi dire di no.»
    Più tollerabile, se solo Rea avesse accettato di essere un po’ Elijah.
    It wasn't made for you Looks who's left a prisoner
    rea
    hamilton
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3 replies since 16/12/2018, 02:48   274 views
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