Luglio 2018. Si rigirò il cilindro di tabacco tra le dita, ancora, il respiro tremendamente lento a fare da contrappeso al battito pesante e tachicardico dietro la cassa toracica; lo sguardo, inizialmente posato sulla punta della sigaretta, domandandosi silenziosamente se fosse o meno il caso di accenderla nell’attesa, si era andato a perdere chissà quanto tempo prima in un punto indefinito della città – sfocato e distante, vuoto e liquido come le stesse iridi verde acqua che, senza sforzo, cercavano di dargli una forma e renderlo visibile. Ma non lo avrebbe visto comunque, il chiaroveggente, nemmeno se fosse stato ad un palmo dal suo naso. Non aveva più la cognizione di quel tempo a farsi denso e vischioso sulla lingua ad ogni respiro che, prepotente e puntuale come un orologio svizzero, gli ricordava di aver bisogno dell’aria e permeare i polmoni - non per sé, per gli altri -; non sentiva i suoni di quell’estiva nottata nella metropoli inglese, che testarda non voleva saperne di coricarsi e di prepararsi per il solito trantran del giorno a seguire, preferendo piuttosto inondare le strade di Londra di schiamazzi volgari e sgommate sull’asfalto, di sirene della polizia e canti ebbri e delle urla indispettite di chi già, quella serata, l’aveva portata sotto le coperte. Assente persino a sé stesso, Elijah Dallaire a stento riusciva a percepire il freddo acciaio sul quale, chissà quanto tempo prima, si era seduto ad attendere – o a ricordare il momento in cui, assorto e distratto, aveva spinto il petto sulla ringhiera rossa, appena arrugginita dalle immancabili intemperie londinesi; in cui l’aveva stretta tra le dita tremanti, le pesanti palpebre calate sullo sguardo trasparente, per sporgersi un solo istante in tutta sicurezza ed avvertire le vertigini ed il vento pungente a pizzicare le goti irsute. Avrebbe voluto poter dare la colpa al whisky che anche quella sera, sebbene avesse (e si fosse) promesso di darci un taglio, aveva bagnato lingua e gola, che ancora bruciava le pareti dello stomaco e le vene come brace ardente sciolta nell’emoglobina. Gli sarebbe piaciuto davvero tanto, poter dire che se si trovava alle due della notte fermo immobile su scale antincendio di cui, a voler essere onesti, si fidava ben poco, era a causa dell’ennesima volta in cui il suo sistema nervoso non aveva maledettamente retto un’altra nottata priva di sonno, ed ancora aveva sperato che una piccola bevuta potesse conciliare un torpore – che fosse anche di un paio d’ore e turbolento, a quel punto non gli interessava affatto. In fin dei conti chi, vedendolo lì, avrebbe mai potuto dire il contrario? Era in un palazzo che niente aveva a che vedere con la villetta a schiera dei Dallaire, e per di più a cinquecento e passa miglia da quest’ultima: perso, in tutti i sensi possibili ed immaginabili. Ma non c’era abbastanza scotch nel sangue del biondo, quella volta, da usare come capro espiatorio: il distillato delle Highlands scozzesi ancora era pieno per metà, adagiato sullo scalino alle sue spalle ed intatto da un’ora o poco più, sfiorato dalle labbra sottili del Dallaire solo per umettare la gola arida; non era sobrio, quello no di certo, ma nemmeno abbastanza brillo da non ritenere più adeguato rimanere in casa e non fare assolutamente nulla - il solito, per intenderci. Inspirò dalle narici, soffrendo ogni singola molecola di umido ossigeno come fosse una stilettata dritta al miocardio; faceva sempre un po’ più male, tutte le volte che irrazionalmente percepiva il battito nel petto farsi più armonico ed equilibrato, e quella metafisica lama penetrare sempre un po’ più a fondo. Era il palpito stesso, così costante e perfetto, che lo metteva terribilmente a disagio - a fargli credere che fosse una cattiva (nel vero senso della parola) idea quella di presentarsi alla porta di Nathaniel Henderson ad un orario del genere. Su quelle scale di ferro scarlatto, si chiedeva se fosse ancora in tempo per ripensarci e tornare sui propri passi. Esattamente ciò che aveva già fatto in precedenza alla porta di Rea, dopo aver passato mezz’ora buona con il pugno sollevato ed il capo chino, incerto se picchiare il legno oppure no; o davanti a quella di Eugene e Jade, sempre più timoroso di dover guardare il migliore amico negli occhi conoscendo informazioni che non poteva, né doveva, sapere, e che gli avrebbero fatto del male sia se dette che meno. Ognuno di loro aveva la propria vita, ciascuno le proprie mancanze da affrontare. Elijah Dallaire, e problemi annessi, non voleva essere un peso nella loro quotidianità – non più di quanto già non lo fosse, naturalmente. Nathaniel aveva un cuore infranto da ricucire, rapporti familiari da revisionare e un lavoro da tenersi ben stretto: sebbene fosse colui che l’aveva visto nelle situazioni peggiori (mai raccontato di quella volta in cui, lerci come le merde, il chiaroveggente si era attaccato dieci cavatappi alle nocche delle mani e, convintissimo, girava per Londra affermando di essere Wolverine? E di come ovviamente il professore, assecondandolo e mettendosi il casco di una bicicletta – rubato, e rubata anche la bicicletta nel dubbio -, aveva deciso di essere Magneto e di voler volare via dall’Inghilterra? Mistico. Ed ancora più assurdo era stato credere di essere magicamente arrivati a Malibù e di aver visto Heidrun e Murphy lanciare granate ad uno Stiles coltivatore di arance) (ah beh l’aveva anche visto morire, ma quello era stato uno spettacolo pubblico - quindi, insomma) non era certo di volersi accollare al Lowell in quel periodo. Non se lo meritava. Ma. Ma - aveva poche altre opzioni. Poteva sempre andare a far visita a papà Sin: qualcuno doveva pur aiutare la povera Lydia a fare da badante all’Hansen. Non che fosse ancora realmente necessario, ecco. Aveva vissuto per un anno intero per strada. Sua sorella non glielo avrebbe mai perdonato, ma era comunque un’ipotesi – no? No. Conoscendo Nate, e considerando che venti minuti prima aveva bussato alla sua porta e questi gli aveva assicurato che “tra cinque minuti” sarebbe arrivato, aveva ancora un quarto d’ora buono per prendere tutta la sua roba e sloggiare – magari sarebbe tornato ad Inverness. Doveva invece già essere passata una mezz’ora, perché quando si girò a controllare che tutte le sue cose fossero ancora sul pianerottolo, si trovò la visuale inaspettatamente ostacolata. «aspetti che si fumi da sola?» alzò distratto un angolo della bocca verso l’Henderson, senza proferir parola. Un errore, considerato che l’altro stava attendendo l’effettiva risposta: oh, dopo anni ancora non capiva quando il suo migliore amico era retorico o scemo onestamente curioso. «no, io…» distratto, lasciò scivolare lo sguardo sulla vestaglia da notte di Nate per poi riportarlo sul cilindro di tabacco, i denti a mordere l’interno della guancia. «stavo, mh…» pensando che dovrei davvero andare, eh! scusa il disturbo, ci sentiamo un giorno di questi bruh - «mi stavi aspettando? awww» deglutì, strinse le labbra tra loro; annuì appena, facendo spazio sullo scalino per lasciare che il mago si sedesse al suo fianco. In fin dei conti sì, lo stava aspettando: ovvio e palese, perché negarlo? Che non fosse stata poi la sua preoccupazione maggiore in quei trenta minuti appena trascorsi, era un altro discorso. La fiamma della bacchetta lambì appena la punta della sigaretta, ed Elijah ne trasse un primo, lento e cancerogeno respiro – l’unico rumore ad accompagnare quello del vento che si insinuava nei vicoli più stretti. Per più tempo di quanto non fosse necessario, quello della carta che bruciava fu tutto ciò che riuscisse a rendere il silenzio meno imbarazzante: non era affatto abituato ad una cosa del genere. Non che fosse mai stato un gran chiacchierone, ma Nate? Farlo stare zitto era difficile quasi quanto convincerlo a mettere all’asta on-line la sua collezione personale di Twinings – il che per il biondo era un bene, era bello. Umettò le labbra, e stanco di quella calma anomala si voltò verso l’altro (temendo che si fosse addormentato: si sarebbe spiegato tutto); quando aprì bocca, si accorse di non sapere da dove iniziare - come al solito, ovviamente: ecco spiegato perché, negli ultimi mesi, aveva ben pensato di farsi sentire sempre di meno da lui, da Rea o da Eugene. Vergogna. «nate,» si schiarì la voce, distogliendo gli occhi da quelli celesti. Ammetterlo davanti a Bells era stato difficile, difficilissimo, ma almeno con la sorella era talmente sbronzo da percepire di meno il viso avvampare, il desiderio di nascondersi dietro le mani più tollerabile – ed in quella situazione, gli sarebbe stato impossibile negare l’evidenza. Non che questa fosse un mistero per il migliore amico, o per la mora: dopo un anno e mezzo ancora faticava a capire come funzionasse quel legame, oltre al mero tenerlo ancorato al mondo dei vivi, ma era sicuro che in un modo o nell’altro loro avessero già una mezza idea di come stavano le cose. Ed era per questo che era fuggito da Villa Hamilton - per questo che non aveva bussato, il cuore a palpitare talmente prepotente contro la scatola toracica da turbare il sonno della donna. Condividevano lo stesso battito e lo stesso respiro caldo a riempire i polmoni; era la persona con la quale non aveva nemmeno bisogno di pensare all’alcol o ai sonniferi, che bastava sentire il fiato di lei lento alzare ed abbassarle il petto, a pochi centimetri di distanza, per calmare ogni turbamento. Eppure, con lei la vergogna di se stesso scalava vette che mai aveva ritenuto possibile raggiungere. Avrebbe voluto comprendere meglio il perché, Elijah Dallaire. Un perché che scavava nei meandri di una tabula rasa, scalpello di un professionista a riesumare fossili che nessun archeologo prima di lui aveva potuto riportare alla luce; il semplice battito a diventare più frenetico in sua presenza, o le goti febbricitanti ed il sorriso, pur sempre presente, ancora più facile da sollevare quando distratte le iridi verdi andavano ad immergersi nel caldo cioccolato dei suoi, non gli bastavano più. Erano già motivi validi, ma aveva bisogno d’altro ancora. E non sarebbe stato dicendole «ho un problema.», che avrebbe migliorato la situazione. Forse sì, certo. Sicuramente sì. Aveva paura anche solo per provare a pensarci seriamente – non di lei. Di perdere, lei. Con Nate, inutile girarci troppo attorno, il timore era più o meno lo stesso; egoisticamente, contava sulle volte in cui (almeno per ciò che gli era stato raccontato) i ruoli erano stati più o meno inversi, o su tutte quelle lerciate che avevano già condiviso da quando era tornato. Si rendeva conto fosse troppo da chiedere, ma Dio!, quanto avrebbe voluto non doversi ritrovare, di nuovo, quello sguardo – probabilmente e sicuramente involontario, oramai, ma dannatamente onnipresente. Avrebbe voluto chiedergli di non guardarlo in quel modo, di non essere compassionevole. Purtroppo, lo capiva. «scusa, io…» scosse la testa, chiuse gli occhi. «non volevo disturbarti» onesto fino ad un certo punto: se davvero avesse voluto evitarlo, non sarebbe lì. «hai già tante cose a cui pensare, meglio che -» «coglione» beh, sì, anche. Sbadigliò sonoramente, e si rese (stupidamente: erano le fottute tre di notte, che cosa si aspettava) conto che doveva aver disturbato il suo sonno – era davvero un amico di merda. Avrebbe voluto smaterializzarsi. O trascendere al piano astrale ed abbandonare il suo corpo all’imbarazzo, vagando per lo spazio cosmico ed andando a meditare nell’iperuranio: quello poteva farlo. «davvero, vado» si alzò in piedi, schiacciando la sigaretta contro la ringhiera per spegnerla e – no niente, tenersela in mano; non avevano pattumiere sulla scala antincendio? Bestie. «tanto avevo da, mh, fare» «eh, alle tre meno venti della notte» Nathaniel aguzzò lo sguardo azzurro, divertito ma non troppo. Non capiva se era solo assonnato o se voleva fare la persona seria, e ciò lo metteva a disagio; gli faceva quasi paura, quando non lo capiva. «posso solo immaginare.» poteva? No, okay - Elijah, riacchiappati. Non rispose, solo perché aveva un po’ di amor proprio. In compenso si abbandonò con la schiena contro la balaustra, un sorriso appena accennato a prendersi gioco di sé. «posso…» «tutto il tempo che vuoi.» fermo e conciso, impedendogli di replicare in alcun modo. Non che ne avesse intenzione, sia chiaro; si chiese come facesse a sapere cosa aveva da chiedergli? Nemmeno troppo: «ho già portato dentro la tua roba.» annunciò, togliendo ogni plausibile dubbio. «eli… vuoi -» «parlarne?» stanco, alzò un sopracciglio sardonico. «no» Voleva soltanto dormire - era chiedere tanto? «niente che tu già non sappia, comunque» insomma, sempre la solita storia: perché avrebbe dovuto annoiarlo ulteriormente? «è solo per qualche giorno, te lo prometto»
Dicembre 2018. Non era stato solo qualche giorno. Qualche mese, magari. Non rientrava nelle più rosee aspettative del Dallaire, che confidava potesse bastare una boccata d’aria nuova e routine diverse per mettere tutto, se non al proprio posto, almeno in un disordine meno confuso. E invece, oltre a rompere le palle a Nate, si era misticamente trovato a dover convivere con Rea nella sua villa. Mentirei, e di brutto, se dicessi che non ne era felice: gli bastava un singolo sguardo di lei, anche incazzato o snervato che fosse, per rendere la propria giornata un po’ più luminosa. Ma. C’è sempre un ma. Ossia, che la paura non intendeva schiodarsi dal suo cervello. E, oltre a quello, c’era la questione degli au. Affascinanti, certo - passava più tempo di quanto non volesse ammettere ad assecondare le teorie shipper di Nate, prendendo appunti ed ipotizzando coppie che, oggettivamente, non avevano senso -, ma anche abbastanza… preoccupanti? Cioè, erano nel loro mondo da cinque mesi, ed ancora non erano riusciti a tornare a casa; avevano lasciato amici, famiglie; alcuni erano ancora dispersi, e nessuno sapeva che fine avessero fatto. Erano in pericolo, e non sapeva assolutamente come aiutarli. Avrebbe voluto, ed era per quello che aveva proposto una riunione - giusto per capirci qualcosa in più, conoscerli meglio e capire dove provare a cercarli. Credeva negli schemi, Elijah: comprendendo un po’ meglio le persone, potevano seriamente arrivare a metodi più veloci per scovarli. Come fossero arrivati a parlare di quello, non ne aveva idea. Aveva senso, eh - però insomma. Bevve un sorso d’acqua per smorzare la tensione, molto probabilmente avvertita solamente da lui nella stanza, e Dio soltanto sapeva quanto avrebbe voluto fosse un buon Jim Beam. Una parte di lui, infima e bastarda, che gli ricordava d’essere dall’altra parte del presunto varco temporale e che loro non avessero niente a che vedere con l’altra parte, trovata tutto quanto estremamente esilarante. L’altra, oh boi. «quindi…» non volse lo sguardo né a Rea né a Nate, portando tutta la sua attenzione unicamente su quel particolare esemplare di Hamilton. Non che avesse mai davvero conosciuto quello canon - il minimo indispensabile, ecco -, ma quello lì era… troppo. Non pensava avrebbe mai visto un sorriso solcare le labbra di un Gemes qualsiasi, ed invece ancora una volta la vita l’aveva sorpreso. Deglutì, non sapendo bene come porre la domanda. O ripetere l’affermazione dell’uomo: poco cambiava. In ogni caso, era rude. «quindi di… di noi» si indicò, per poi col pollice puntare prima l’una poi l’altro del suo universo, allargando idealmente il gesto ad Eugene. «sono… l’unico sopravvissuto.» piatto, distaccato. Gemes non emise suono: le labbra morse e lo sguardo triste, ombra di un lutto ancora scavato nel petto, si limitò ad annuire. «mh.» Mh. Non voleva… non voleva davvero pensarci ad un’evenienza simile. Si sentiva quasi fortunato, a pensare che se uno dei due presenti se ne fosse andato, lui l’avrebbe raggiunto in un battito di ciglia. Come avrebbe potuto vivere altrimenti? Effettivamente, c’era solo un motivo per il quale l’altro doveva aver continuato a farlo. Non ebbe nemmeno bisogno di chiederlo, per immaginare la risposta: l’unico motivo che doveva aver fatto desistere il Dallaire cronocineta dal seguire le orme dei suoi migliori amici, della sua famiglia, aveva un nome ed il suo stesso cognome: Bells. Non era esattamente lì che sarebbe voluto andare a parare, quando a Gemes aveva chiesto “ci parli un po’ dei nostri /doppioni/ del tuo mondo?”. Non poteva aspettarselo. «poi, mh…» abbassò lo sguardo sul tavolo, tamburellando nervoso le dita sul mogano. Chissà se poteva svignarsela dicendo di avere una seduta con Stiles per poi finirla – di nuovo? di nuovo - in una sbronza triste. Sì, poteva. Ma non lo avrebbe fatto. «che… altro puoi dirci? magari dei superstiti, ecco» beh, gli sembrava onesto. Cambio di discorso tattico, palla al centro e si ricomincia daccapo. «ti sei sposato ed hai una famiglia!» Ti sei sposato ed hai una famiglia. Ti sei sposato. Ed hai una famiglia. «ah.» imbarazzante. | |