looking through the glass find the wrong within the past knowing

ade + theodore [challange: 07]

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    prelevi? // i panic at a lot of places besides the disco
    «hai un’aria familiare» Adelaide Milkobitch, sotto lo sguardo inquisitorio di Rea Hamilton, si lasciò sfuggire un debole sorriso. Le labbra si curvarono d’istinto attorno alla ceramica della tazza di tè tenuta fra le mani, divertiti occhi blu a studiare la donna di rimando. «ho un viso comune» corresse gentilmente, il tono diplomatico ed asciutto ad accompagnare il sospetto della donna verso un territorio amichevole e neutrale, privo delle difficoltà date da quel tipo di familiarità riconosciuto dalla ex Serpeverde. Non che Rea potesse comprendere cosa la disturbasse nel viso a forma di cuore di Ads – non che chiunque, senza sapere del 2043, potesse supporre i motivi di quel disagio - ma era compito della Milkobitch liquidare quel genere di intuizioni offrendo soluzioni semplici ed immediate. Rea, senza far nulla di specifico se non rimanere seduta e fissare Adelaide dalla parte opposta del tavolo, inarcò scettica un sopracciglio. «sì, ads, hai un’aria decisamente familiare» Il tono di scherno di CJ Hamilton, seduto al suo fianco ed impegnato a ricambiare l’occhiata severa della padrona di casa con altrettanta ruvidità, le fece intuire che stesse facendo del proprio meglio per non ridere. Ade batté le lunghe ciglia corvine guardandolo di sottecchi, trovando la bocca di lui forzatamente piegata verso il basso. A vederli vicini, CJ ed Adelaide, non avevano nulla in comune: dove lei era bruna, lui era biondo; lei aveva incredibili occhi blu, lui di un verde privo di speranza; lei emanava quiete, e lui solo tempesta. Non poteva biasimare Rea Hamilton per la sua incapacità di mettere insieme i pezzi: ne mancava uno. Senza BJ a far da ponte e collante fra Ade e CJ, era impossibile cogliere le sottili sfumature che, malgrado le differenze, li rendevano identici. Quando i tre fratelli erano stati insieme, un altro tempo di un’altra vita, era stato impossibile non veder subito che dove finiva uno, iniziasse l’altro – letteralmente. Erano l’evoluzione costante della loro forma precedente, una modifica della stessa materia prima per tre risultati concatenati. Parevano una sperimentazione, un gioco fatto di cambi di colore e dimensioni. Adelaide, primogenita, non presentava angoli – solo curve – dalla forma tonda del viso, a quella morbida delle labbra, alla linea fine dei fianchi e del busto; le iridi erano di un indiscutibile blu scuro, ornate da ciglia corvine della medesima tonalità inchiostro dei capelli; era piccola, bassa e sottile. BJ, il primo a nascere dei gemelli, aveva sia angoli che curve – il secco rettangolo della mandibola, il mento sfuggente, le spalle grosse e l’arco morbido della schiena; gli occhi un brillante nocciola, gentili ma più rigidi di quelli della Milkobitch; alto, spesso e concreto: tutto in lui gridava reale, laddove i fratelli sembravano più brandelli di sogno, od incubo a seconda dei punti di vista, impalpabili ed impossibili da raggiungere. CJ Hamilton, ultimo fra loro, era l’esatto opposto di sua sorella: aveva solo angoli, come se l’arista avesse finito le curve nei fratelli, ed ogni linea era affilata e crudele, una nota enfatizzata dalle labbra sottili e mai cordiali; sguardo verde bottiglia, brillante e freddo quanto quello di Ade era opaco e caldo, capelli di un fine biondo fra l’oro e la sabbia; troppo alto e slanciato, una linea all’orizzonte fra cielo e cemento, leggero nella propria pesantezza quanto una spina conficcata sotto l’unghia. «mi chiedo come mai» «cj» lo ammonì, tornando a guardare la propria tazza, senza degnarlo di una seconda occhiata. «non è divertente.»
    Andiamo, Ads. È esilarante. La voce di suo fratello le accarezzò la mente, spingendola – suo malgrado – ad un sorriso distratto.
    Un po’. Ammise, lasciando che quelle parole venissero lette dal telepata, il quale le rispose con un affilato ghigno sornione. Non aveva bisogno di incrociare gli occhi scuri della Hamilton, per sapere come potessero apparire dall’esterno: entrambi con lo sguardo offuscato e distante, entrambi a sorridere di battute di cui erano artefici e vittime, ed entrambi a tacere. C’era un motivo se quand’erano bambini, tutti i loro vicini di casa li ritenevano strani: ad alta voce parlavano poco, ma fra loro conversavano gran parte del tempo. «cosa non è divertente?» la Milkobitch, senza muovere la parte superiore del corpo, quando Gemes entrò in cucina diede un calcio alla gamba del fratello, che mascherò – male – una risata in un colpo di tosse. Per compensare la mancanza di eleganza di CJ, Adelaide sorrise serafica a Rea Hamilton, il cui sguardo, se avesse potuto uccidere, avrebbe già lasciato Fawn e Kanye orfane di padre.
    «rea ci stava giusto dicendo che adelaide le sembra familiare» a suo onore, il tono dell’Hamilton aveva perso la nota d’ilarità in favore di un tono leggero e non curante – al contrario dei contorti, e non piacevoli, pensieri con la quale la stava bombardando. CJ stava assorbendo la confusione di Rea, e con sorrisi meschini e languidi stava inevitabilmente scavando un tarlo che la mora, sottile quanto lui, non sarebbe riuscita ad ignorare. Avrebbe dovuto immaginarlo che sarebbe finita così - che i due CJ, Knowles ed Hamilton, fossero uguali: laddove il primo era stato più diretto ed onesto nell’annunciare la missione, il secondo giocava d’astuzia e studiato sadismo. «oh.» Il commento di Gemes cadde in un silenzio denso di sottintesi. Dovette dolentemente ammettere che suo fratello avesse ragione: era esilarante. Si mise nei panni di Rea Hamilton, a guardarli tutti e tre, l’uno vicino all’altro, di fronte a lei: le spalle di Ade sfioravano appena quelle di CJ e Gemes, senza davvero toccare nessuno dei due, minuta e doppiamente sottile al loro fianco; i capelli bianchi spezzavano l’armonia con quelli ebano ereditati alla nascita, ma con i tondi occhi blu identici a quelli del padre, c’era poco da fare. Sorrisero tutti e tre nello stesso momento, seppur per motivi diversi, e vide gli occhi di Rea guizzare rapidi su ciascuno di loro.
    Lo sa, la avvisò CJ, senza che il sorriso tentennasse. Sta mettendo insieme i pezzi.
    No, ribattè calma la Milkobitch, mantenendo anche lei la docile curva delle labbra. Non può. Seppe di avere ragione (perché aveva sempre ragione.) nel momento in cui suo fratello corrugò le sopracciglia, deluso e infastidito da quel che aveva intravisto nella mente di Rea. Ragazzini - come poteva immaginare che Rea potesse arrivare alla conclusione esatta, comprendendo cosa la inquietasse del quadretto seduto nella sua cucina? Era impossibile ed assurdo - la loro intera esistenza la era. Non importava quanto la somiglianza fosse ovvia; non avrebbe fatto alcuna differenza neanche se, vicino a CJ, ci fosse stata seduta Roy, completando i tratti come l’ultimo tocco di un’artista. «noi inglesi ci somigliamo tutti» si strinse debolmente nelle spalle, senza distogliere lo sguardo dagli interrogativi occhi bruni della donna, avvicinando ancora il tè alle labbra per soffiarvi sopra. «parla per te» bofonchiò CJ, inorridito all’idea di poter avere somiglianze con il resto della (plebe) popolazione mondiale. Adelaide inarcò lenta un sopracciglio volgendo il capo verso il fratello, e sentì che al proprio fianco anche Gemes stava lanciando un’occhiata scettica a CJ: sotto quello stesso tetto vivevano le sue figlie, non era esattamente il momento – o la vita – più propizia per marcare la propria spiccata individualità. L’Hamilton minore si risolse ad un sorriso satollo ad entrambi.
    Talvolta dimenticava, quanto fosse giovane. Quando cinque anni prima l’aveva trovato, si erano trovati, CJ Hamilton non era che la deformata ombra di quel ch’era stato al suo tempo: appuntito, crudele, gelido – un caso, ed un ragazzo, disperato. Aveva appena perso BJ, quel CJ; aveva appena perso la sua famiglia. Le era parso antico ed usurato, il diciassettenne che aveva ricambiato la sua occhiata sul prato sporco di sangue e guerra di Hogwarts.
    Il CJ Hamilton ventitreenne seduto al suo fianco, era più bambino del neanche maggiorenne che le aveva detto di non essere la benvenuta. Più simile al CJ cui aveva detto addio nel 2043. Rea aprì la bocca, e dall’espressione del telepata quel che avrebbe detto non sarebbe piaciuto a nessuno, ma le parole rimasero inespresse, quando lo sguardo di lei ricadde su un punto oltre le loro spalle: «cosa ci fai sveglio?» sebbene il tono non fosse stato più amichevole di quello che fino a quel momento aveva usato con loro, ad Ade non sfuggì come gli occhi si fossero fatti più attenti e caldi - il che poteva significare si trattasse solo di una persona: River Crane.
    Suo zio, River Crane. Quando la Hamilton si alzò per riportarlo a letto, Ade spostò gli occhi su CJ, lasciandogli intravedere spezzoni di un film visto e rivisto - ma del quale nessuno dei due si stancava mai: l’Hamilton non ricordava del 2043, ma Adelaide sì. Non era la prima volta che mostrava al fratello com’era stato. Adelaide chiuse la comunicazione con immediatezza sospetta che le fece guadagnare un sopracciglio arcuato da CJ, ed a cui – saggiamente – non rispose. Non aveva segreti con suo fratello, ma neanche dopo cinque anni era riuscita ad abituarsi al fatto che non fosse lo stesso CJ che innumerevoli volte, stringendolo fra le braccia, aveva fatto addormentare. Dubitava sarebbe mai arrivato il momento in cui avrebbe smesso di rendersene conto - o avrebbe smesso di far male.
    Essere Vigilanti, era una tortura. A Gemes non sfuggì come le spalle di ambedue si fossero irrigidite, né si stupì della conversazione silenziosa fra i due – oramai era abituato. «tutto bene?» CJ ed Adelaide si osservarono a lungo, prima di rispondere. Fu CJ il primo a distogliere lo sguardo, le palpebre pigramente abbassate ed un sorriso sghembo sulle labbra. «togliendo il fatto che non abbiamo idea di dove sia roy, che dj e rj stanno crescendo senza genitori, che siamo fottutamente morti e non abbiamo una fottuta idea su come tornare a casa – sì, direi una meraviglia» Adelaide ignorò suo fratello sorridendo premurosa e rassicurante a Gemes, il capo reclinato sulla spalla. «siamo a posto.» confermò, fingendo di crederci. Lanciò un’occhiata all’orologio, poggiando conclusiva la tazza – quasi vuota – sul tavolo. «ed io devo uscire.»

    Neanche mezz’ora dopo, Adelaide Milkobitch camminava per le strade deserte di Diagon Alley con le mani immerse nelle tasche del cappotto nero, e curioso sguardo blu a soffermarsi sulle vetrine illuminate dei negozi. Non era un’amante del Natale – non a livello di alcuni suoi cugini – ma c’era qualcosa di intenso, in quel periodo dell’anno, che Ads non riusciva ad ignorare: i colori, i profumi, come l’aria stessa pareva farsi più densa e dolce nei polmoni. Sorrideva senza reale intenzione di farlo, distratta da pensieri che poco avevano a che fare con il mondo concreto, e più con quello nella propria testa – o con i sussurri dei fantasmi al suo orecchio- sentendosi complice di un mondo che, invero, non era il suo. Erano le dieci e un quarto di sera, l’orario più propizio per uscire in centro quando non si faceva parte di quella maledetta realtà, quando battè le nocche contro la vetrina della Lanterna Dorata. Credevate forse che la Milkobitch avesse affrontato le polari temperature di Dicembre solamente per una passeggiata?
    Beh. In effetti non sarebbe stato così strano, considerando che Adelaide era internazionalmente conosciuta per fare solo quello che le piaceva fare – senza secondi fini, per il puro piacere di farlo. Uno dei motivi che l’avevano condotta, malgrado il sole fosse calato da ore, ad indossare occhiali dalle lenti scure.
    Le piacevano. Non vedeva perché avrebbe dovuto metterli solamente in caso di necessità – non erano mica un paracadute. «rhodes boy?» (–semi cit Rihanna; non era trash quanto il resto della sua famiglia, ma non era neanche del tutto immune a quel tipo di fascino) chiamò dal vetro, poggiando una spalla alla porta.
    Theodore Rhodes era un ragazzo… decisamente particolare ed inusuale. Ancora non concepiva cosa l’avesse convinto a partecipare alla missione, o come – in seguito – fosse sopravvissuto fino ad essere trovato, per puro caso, da Meara Cooper. Non capiva neanche perché, abituato ad una famiglia numerosa come la sua, avesse deciso di vivere in una libreria come un’eremita: non gli mancavano i suoni di altri esseri viventi? Non si sentiva solo? Non sapendo in quali rapporti fosse con gli altri /colleghi/ dell’AU, scontato che Adelaide si fosse infine decisa ad andare a cercarlo: era abbastanza persuasiva da parlare con i morti, letteralmente!, il che lasciava poche possibilità al buon Teddy di ignorarla. La prima volta che aveva udito (di una delle sue) della sua fobia nei confronti delle belle donne, considerando che lui le stava parlando, aveva ruotato offesa gli occhi al cielo, divertendosi con poco nel vederlo andare in difficoltà – ma la verità era che non poteva biasimarlo: Ads diffondeva controllata calma, ed era pressochè impossibile perdere la propria verve con lei. Costrizione di famiglia: almeno uno degli Hamilton doveva provarci, a non terrorizzare il resto del mondo ed essere confortante. Quando lo vide sbucare dagli scaffali, attese che abbassasse (…notevolmente.) lo sguardo fino a trovarla, prima di sorridergli ed indicargli con un cenno del capo di uscire. «ho due domande per te» iniziò, sospirando nella fredda notte di Quo Vadis, quando l’altro fu infine al suo fianco. Era abituata al fatto che tutti torreggiassero su di lei, considerando che era (bassa) alta poco più di un metro e cinquanta, quindi si sentì perfettamente a suo agio a superare le (trenta??) decine di centimetri che li dividevano cercandone gli occhi chiari. «panettone o pandoro?» Priorità. Ed in secondo luogo: «a natale vieni da noi» /noi/, fingendo – con classe – fosse casa sua. Nessuno avrebbe dovuto passare il Natale con l’unica compagnia di libri eccetto Sara, la quale ne sarebbe onorata. Rea metteva soggezione anche individui meno delicati di Theodore, quindi potevano condividere quel malessere in compagnia. «te lo sto chiedendo, ma lo sto anche affermando» tornò a guardare la strada, adocchiando ogni vicolo e negozio ivi affacciato.
    Ah, e considerando che era appena piombata /nella sua dimora/ senza avvisare, e l’aveva trascinato fuori senza alcun indizio su cosa stesse succedendo, decise di essere abbastanza magnanima da offrirgli un sorriso ed una spiegazione: «stiamo cercando gli altri.»
    Si potevano dire tante cose di Adelaide Milkobitch, ma certamente non che non prendesse l’iniziativa.
    Per tutti.

    Born with a void, hard to destroy with love or hope
    ads
    (ade milkobitch)
    30 y.o.
    medium
    vigilante
    23.12.2018


    Edited by #epicWin - 21/12/2018, 02:37
     
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    «Non è la prima volta.» pronunciò quella frase con tono pacato, senza particolari sfumature; un ascoltatore interessato avrebbe potuto scorgerci una lieve nota di imbarazzo, mascherata da un improvviso – quanto inutile – moto d’orgoglio. Un tono distante, tanto da lasciar credere che quelle parole si fossero susseguite, spontaneamente, come parte di un flusso di ricordi difficile da arginare. Lo confermava il suo sguardo perso, le iridi fisse su un preciso punto della stanza senza vederlo davvero. Theodore Rhodes era assorto nei suoi pensieri ormai da diversi minuti, le ginocchia in gola, le braccia attorno a queste ultime e la testa leggermente inclinata, così invischiato in quei ragionamenti da non far caso a quanto fosse scomoda e innaturale la posizione in cui era seduto. «Sono già stato lontano da casa.» per ben tre giorni avrebbe voluto aggiungere, ma persino in quello stato di totale distacco dalla realtà circostante riuscì a rendersi conto che in nessun universo, in nessun’epoca, in nessun caso quella conclusione avrebbe deposto a suo favore. Era un’informazione superflua, come i dettagli di quella che era stata una fuga a tutti gli effetti. Non soltanto in senso letterale: lui e sua sorella non si erano limitati ad abbandonare la sfarzosa villa in cui erano cresciuti e tutte le comodità che ne derivavano, dalle ampie camere ai pasti pronti ad ogni ora del giorno, dall’aiuto di servizievoli elfi – che per lungo tempo aveva creduto fossero la sua vera famiglia – alla possibilità di attingere illimitatamente al conto del padre – l’unico modo, conosciuto dall’uomo, per dimostrare amore ai suoi figli –; erano scappati dalle responsabilità pressanti, dalla prospettiva di un futuro incerto, dalla paura di non essere all’altezza delle aspettative altrui, né delle proprie. Si erano imbarcati in quell’impresa folle in nome di un’indipendenza che credevano di poter raggiungere, ma di cui non conoscevano il prezzo. Erano fuggiti, con un tamburello, delle poesie e poco altro perché convinti di poter sopravvivere come moderni menestrelli, artisti itineranti che si sarebbero esibiti nelle stesse, improbabili, declamazioni con cui avevano tormentato i Rhodes per anni. Inutile dire che «Non è andata come previsto, però, uhm... è stata un’esperienza, ecco.» sollevò gli angoli della bocca in un sorriso spento, incapace di coinvolgere le iridi chiare. Era stata tante cose, indubbiamente. Spaventosa, perlopiù, specie per chi passava gran parte del suo tempo a tentare di tenere a bada ripetuti attacchi di panico di differente entità. Era stata anche divertente e, seppur per poco tempo, lo aveva fatto sentire completo. In quei giorni, Theodore aveva uno scopo; avevano un piano, per quanto strampalato potesse essere, un progetto, un futuro da condividere e di cui entrambi erano entusiasti. Non era mai più riuscito a sentirsi allo stesso modo, sempre alla ricerca di un compromesso tra ciò che voleva essere e ciò che avrebbe potuto essere, di un senso da attribuire ad un’esistenza che sembrava scorrergli davanti agli occhi. «Posso cavarmela anche questa volta. Ho solo paura che… – inclinò il capo verso il basso e prese a massaggiarsi nervosamente la nuca. Non riusciva a pronunciare quelle parole, spaventato all'idea di sentirne il peso ed esserne schiacciato all'istante. – … che siano cambiate troppe cose.» non era previsto che andasse così, non aveva messo in conto la reale possibilità di perdersi in un universo differente dal proprio. Temeva ciò che avrebbe trovato una volta tornato – perché sarebbero tornati, non voleva pensarla diversamente. Temeva di dover entrare in punta di piedi nella vita che, in un modo o nell’altro, gli era sempre appartenuta e ritrovarsi al punto di partenza, come quel bambino spaventato che ventisei anni prima aveva varcato la soglia di casa. Temeva che le cose fossero andate fin troppo avanti, fin troppo veloci, per poter riavere il posto che si era ritagliato a fatica. Temeva, soprattutto, che sua sorella non avrebbe capito, che non lo avrebbe mai perdonato per averla abbandonata, temeva si fossero irrimediabilmente persi mentre non faceva altro che cercare se stesso. «Però dovevo farlo, capisci?» solo in quel momento si voltò verso il suo interlocutore, incontrandone lo sguardo perplesso. Un bambino di poco più di due anni se ne stava seduto, composto, attorno ad un piccolo tavolo in legno presente all’interno della libreria in cui si trovavano; e Theo, in tutti i suoi centottantacinque centimetri di altezza, aveva preso posto al suo fianco su uno sgabello che, in proporzione, sembrava uscito dall’arredamento di una casa per le bambole. Provò ad allungare le gambe per sgranchirle e sbatté contro il piano che aveva davanti, scatenando la reazione divertita da parte del suo nuovo psicologo amico. Gli sorrise, questa volta più convinto, e afferrò il libro di fiabe che il bimbo aveva scelto di porgergli. «Uh, è vero, tua madre ti ha lasciato qui per questo. Sarebbe strano, altrimenti. Vediamo...» per i minuti successivi lessero di potenti stregoni, spaventosi draghi e laboriosi folletti, sfiorando le pagine incantate per veder comparire riproduzioni dei personaggi descritti, per lasciarsi avvolgere da scie colorate, per sentire i versi delle creature magiche, per immergersi in quel mondo a misura di bambino. E, per un po’, Theodore fece lo stesso: si perse in quegli occhietti curiosi, in quella risata spontanea, nelle domande incalzanti e nelle risposte sorprendenti. Per un po’, ritrovò una parte di sé e dimenticò il resto.

    Lavorava in quella libreria da poche settimane, un lasso di tempo decisamente più lungo rispetto alla durata del suo primo impiego nell’altro universo. E del secondo. E del terzo. E di molti altri, per farla breve. Gli era sembrata una buona idea proporsi per quel posto, il giusto compromesso tra lo stare a contatto con la gente e non esserlo mai del tutto, un modo per convincersi di non essere completamente solo nonostante di fatto lo fosse, solo in mezzo ad un gruppo di sconosciuti che avrebbero sfiorato la sua vita per pochi istanti. Aveva bisogno anche di quello, Theodore. Aveva bisogno del caos che sapeva di casa quanto di momenti per restare con se stesso, di tenersi occupato per non pensare a nulla quanto di abbandonarsi alle sue riflessioni, di trovare quello stato di confusione controllata cui era sempre stato abituato. Di trovare il giusto equilibrio nel suo mondo fatto di ossimori.
    Anche quella sera era rimasto all’interno del locale, oltre l'orario di chiusura, per riordinare i libri abbandonati lontano dai rispettivi scaffali. Avrebbe potuto farlo qualcun altro, e in pochi secondi, con un rapido sventolio di bacchetta, ma a lui non dispiaceva affatto; si divertiva ad immaginare quale dei clienti del giorno avesse deciso di abbandonare un classico come A Merenda con la Morte o quale strega non avesse trovato sufficientemente interessanti le ricette contenute in Banchetti in un minuto: questa sì che è magia! – non aveva nulla da fare, d’altronde. Aveva appena messo a posto uno degli ultimi volumi rimasti quando un suono lo paralizzò. Gli occhi sgranati in un’espressione di chiaro terrore, si nascose dietro un alto scaffale e fece capolino con lentezza, qualche istante dopo, per tentare di capire chi avesse bussato contro la vetrina del negozio. Inutile dire che, in quel breve lasso di tempo, le immagini della sua triste esistenza si susseguirono alternandosi ai volti dei potenziali assassini che lo avrebbero accoppato quella notte: alcuni avrebbero potuto pensare a mangiamorte, altri a ribelli, altri ancora a special, a seconda della fazione di appartenenza; lui, invece, era certo si trattasse di un barbone. Perché, sì, aveva paura anche dei vagabondi. Temeva di vederli sbucare da un vicolo oscuro e di essere toccato con quelle mani che raccoglievano la più vasta classificazione di germi mai conosciuta – e lui, da bravo ipocondriaco, avrebbe preferito morire sul colpo. Si sollevò pian piano, ampliando il suo campo visivo fino a che non la riconobbe: Adelaide Milkobitch se ne stava con la spalla appoggiata sul portone d’ingresso, in attesa che lui la raggiungesse. Visibilmente sollevato, abbandonò ciò che stava facendo, raccolse la sua roba e si precipitò fuori dal locale. «Sei, di gran lunga, la cosa migliore che mi sia capitata oggi.» esordì con naturalezza, riservandole il primo, vero, sorriso della giornata; uno dei pochi degli ultimi mesi. Si strinse nel cappotto, affrontando il freddo pungente, e prese a camminare al suo fianco senza avere la minima idea di dove fossero diretti. Non gli importava, in realtà; gli bastava la compagnia di qualcuno che potesse capirlo senza bisogno di troppi giri di parole e con Adelaide si sentiva a suo agio: non aveva il fiato corto, il respiro rimaneva piuttosto regolare, nessuna goccia di sudore gli imperlava la fronte e non avvertiva nessuno dei noti segnali che lo avrebbero portato a credere di avere un imminente attacco di panico; in sintesi, non doveva preoccuparsi della sua fobia delle belle donne. Non che lei non lo fosse, sia chiaro; ma in quel momento, in quel tempo, significava molto di più. Vedeva un’amica, Theodore, prima che una donna e non si soffermava sul suo aspetto fisico, ma cercava negli occhi blu quella tranquillità di cui aveva disperatamente bisogno. Era una certezza in un mondo in cui faticava a trovare qualcosa – e qualcuno – cui aggrapparsi.
    «Pandoro!» esclamò, come se fosse la scelta più ovvia, come se fosse facile immaginare uno come lui impegnato a togliere ogni più piccola traccia di canditi all’interno di quel dolce natalizio. «Ma posso anche mandare giù il panettone senza masticare, se serve.» a chi? A non farlo sembrare ancor più strano forse, ma in un modo o nell’altro finiva sempre per risultare tale. «Oh.» spiazzato dall’affermazione successiva, abbassò lentamente lo sguardo, e poi il capo, e si ritrovò a fissare il manto stradale di Diagon Alley con un interesse che non aveva mai provato prima. E che non provava davvero, ma aveva bisogno di qualche secondo per sé. «Io...» non sapeva cosa aggiungere, né come sentirsi. Aveva pensato di ignorare il Natale, quell’anno, illudersi che non esistesse, che fosse un giorno come gli altri. Non avrebbe avuto senso festeggiarlo senza la sua famiglia, per quanto strana potesse essere, per quanti litigi costellassero puntualmente quei giorni di festa, per quanto molti di loro non si sentissero legati ad ogni componente di quel gruppo così eterogeneo. Nulla di tutto questo importava davvero, agli occhi di Theodore. Non esisteva una definizione che andasse bene per tutti, univoca e incontestabile; aveva sempre pensato assumesse un significato diverso in base ai membri che la costituivano, che si modellasse e adattasse come avevano fatto loro una volta che ne erano entrati a far parte. Erano una famiglia, nonostante tutto e nonostante tutti. Continuò a tenere le iridi puntate verso il basso, coperte da un velo di malinconia che sperava non venisse notato dalla donna; troppo limpide, fin troppo espressive per non lasciare che vi si leggesse tutto ciò che provava. Era piuttosto ironico possedere un potere che gli avrebbe permesso di controllare le emozioni altrui, ma non riuscire a farlo neppure con le proprie. «Verrei volentieri. Grazie.» sollevò lo sguardo verso Adelaide e le sorrise con tutto se stesso. Pur avvertendo un senso di vuoto, una fitta che gli ricordava costantemente quanto quel distacco lo lacerasse dentro, percepiva anche un calore che sembrava aver dimenticato e di cui aveva bisogno più di quanto riuscisse ad immaginare. Sentiva di appartenere a qualcosa, di avere qualcuno, di non essere del tutto solo. Soprattutto non quel giorno.
    «Sai, ho dato fuoco ad un uomo nel pomeriggio.» cambiò discorso, utilizzando un tono di voce tale da farlo sembrare un imprevisto come un altro. Non fornì alla ragazza ulteriori spiegazioni; non soltanto perché dava per scontato che non lo credesse svitato a tal punto da poter bruciare un altro essere umano, ma perché, neppure lui, era riuscito a ricostruire l’esatta dinamica dell’incidente. Ricordava di aver generato delle fiamme apparentemente innocue, di aver sentito il peso di un individuo franare su di sé e di averlo istintivamente bloccato, dando fuoco al pesante cappotto che indossava in quel momento. «È successo così in fretta. Un secondo prima era tutto tranquillo, l’attimo dopo… whaaam!» riprodusse quello che, nella sua mente, era l’inconfondibile suono di un incendio che si propaga, aprendo le mani per darle un’idea della portata dell’accaduto e sgranando gli occhi per fornire un assaggio dell’espressione che aveva assunto in quegli istanti. «Ho ancora il lavoro comunque, sono riuscito a rimediare dicendogli che era la più bella cometa mai vista.» non mentiva. Gli aveva stretto la mano con le proprie e, senza mollarlo o smettere di shakerarlo, si era complimentato per la rapidità con cui il suo cappotto aveva preso fuoco – neanche fosse stato cosparso di benzina, avrebbe voluto aggiungere –; gli aveva detto che si trattava di un’iniziativa della libreria, che le fiamme erano totalmente innocue e che la sua partecipazione straordinaria a quell’esibizione gli aveva fatto guadagnare la possibilità di ricevere un libro gratuitamente. Neanche a dirlo, aveva scelto un tomo così costoso da aver accumulato polvere dal giorno in cui era stato portato in quel locale fino a quello in cui Theodore era stato costretto a pagarlo. Poco male.
    «Non voglio essere invadente, ma...» non lo disturbava il fatto che la ragazza indossasse occhiali scuri in una serata in cui non era prevista alcuna eclissi, doveva aver avuto le sue ragioni; che si trattasse di un profondo fastidio, a causa della gran quantità di luci che ricoprivano i negozietti di Diagon Alley, che fosse imbarazzo, per un rigonfiamento della palpebra grande quanto una gobbiglia, che derivasse da un'eccessiva prudenza, per tentare di passare inosservata in un mondo in cui si sentivano costantemente in pericolo, o che semplicemente avesse scelto di farlo perché ne aveva voglia, non faceva differenza. Dopotutto, Theodore era l’ultima persona nel multiverso che avrebbe potuto giudicare un comportamento bizzarro. Ruotò il capo nella sua direzione, lievemente a disagio per quella probabile invasione della privacy della ragazza. «… non hai pianto, vero?» non le avrebbe posto domande se quella possibilità non gli avesse attraversato la mente, ma, a quel punto, non avrebbe potuto far finta di niente. Si trattava pur sempre di una delle principali ragioni per cui la gente ricorreva a quel tipo di lenti in ambienti chiusi, ad orari improbabili o in giornate senza sole.
    Annuì, muovendo il capo, quando Adelaide gli spiegò il motivo di quella passeggiata notturna e rimase qualche istante in silenzio, a pensare agli altri e a loro stessi. «Ti chiedi mai come sarebbe, davvero, se restassimo qui?»

    THEODORE
    (AIDON T. NOU)
    RHODES

    28 y.o. ✖ former hufflepuff
    upside
    down
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    Penitenza - [caccia /xmas/]
    20. dai fuoco a qualcuno e complimentalo per essere la cometa più bella.
     
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