new number who dis

cj + fawn

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    «CJ, giusto?» Toh, sparire per due anni doveva averlo reso famoso. Abbassò (ed abbassò…ed abbassò…) lo sguardo verso la ragazza che per un motivo non meglio definito, aveva ritenuto saggio ed opportuno rivolgergli la parola: erano in pochi quelli che si approcciavano al Knowles, ed ancor meno quelli che conoscevano il suo nome. Inarcò un sopracciglio, gli occhi giada a guizzare dall’evidentemente Barrow redivivo, al viso ovale di una perfetta sconosciuta. Rimarchiamo il fatto che il Tassorosso non la conoscesse, perché l’angoscia dipinta sui tratti morbidi del volto della ragazza, ai suoi occhi non aveva alcun senso - a meno che non conoscesse la sua fama, certo. In effetti, un pizzico di terrore era del tutto legittimo e giustificato. «quasi sempre» un vago sorriso a curvare le labbra, pregno di un divertimento difficilmente comprensibile a chiunque non fosse lui, che quel nome se l’era portato come condanna e benedizione in ogni mondo e vita; quasi, perché nella versione demente dell’upside down, a quanto pareva si chiamava RJ: felice di non averci nulla da spartire. «dobbiamo parlare» evitò di sottolinearle il sardonico non lo stiamo già facendo? solamente perché qualcosa lo turbò, quand’ella infine si decise ad alzare il capo, ed incrociarne così lo sguardo.
    Una persona qualunque non ci avrebbe fatto caso.
    Perfino CJ, nelle traballanti luci di quella stanza, in un primo momento faticò a comprendere cosa di quegli occhi smeraldo l’avesse interdetto, levigando l’irritazione di essere stato interrotto in un momento abbastanza delicato da quella che poteva benissimo essere una spia russa in cerca di reclute, o una venditrice di materassi. Impenetrabile nel soppesarla con sguardo critico, tentando di scindere il (non biasimabile) terrore del ritrovarsi di fronte un altro pezzo di famiglia, da quello (ancora lecito) del sentire una tale determinazione da una sconosciuta; perché tutto, nei sottili occhi verdi di lei, strillava al Knowles Crane, e CJ già arrancava con quelli esistenti e conosciuti: chi cazzo era, quella. Una sorella che non sapeva di avere? Una zia? Sua nonna? Neanche a dire che il ragazzo tendesse ad aspettarsi il peggio: di quei tempi, era solo realista. Battè le palpebre, dicendosi infine che – vaffanculo! – doveva trattarsi solo di paranoia: le probabilità di trovarsi davanti un altro Crane non erano poi così rare, ma non poteva neanche essere l’unico stronzo ad attrarli tutti come calamite. «uh-uh» concesse, finto distratto e scettico, distogliendo lo sguardo dalla ragazza per portarlo ancora sul palco: se avesse aspettato altri due (2) minuti, quella fichetta del Barrow non avrebbe atteso un altro osso rotto, prima di fiondarsi fra le braccia della Shapherd – sapeva che avesse un deficit d’attenzione, quando entrava in gioco la patata. Non poteva pensare lo aspettasse per sempre, ed al contempo era quasi - quasi - certo che non l’avrebbe perdonato, se fosse andato a scambiare liquidi con zia Amy prima che al Knowles fosse data la stessa possibilità ma con modalità diverse, e non reciproche (aka: farlo sanguinare). «sono vagamente impegnato, al momento» non mancò di sottolineare l’ironia del vagamente con un crudo sorriso a metà che non giunse agli occhi, un vago cenno con la testa al resto dei suoi amici. «facciamo più tardi? Ti vengo a cercare io.»

    Più di un mese dopo, era un lecito più tardi per presentarsi infine di fronte alla porta di quella che il campanello chiamava Siobhan O’Hara: dati i ritmi dei Crane e degli Hamilton (ci vediamo fra cinque minuti – cit freddie prima di sparire per anni), poteva ritenersi fortunata. Non aveva indagato su di lei più del necessario, limitandosi a chiedere in giro se qualcuno avesse mai visto la ragazza descritta, e sapessero dove potesse trovarla; non ne aveva parlato con i freaks, CJ, che temeva il momento in cui avrebbe dovuto ammettere di aver trovato un altro 2043 smarrito (aveva già BJ, non era abbastanza una tortura da solo?) sopportandosi così gli sfotti di avere un altro caso umano da portarsi appresso – di conseguenza, non ne aveva parlato neanche con Sersha. D’altronde, il Knowles che cazzo ne sapeva potesse essere importante: in quel mese, non si era neanche dato modo di pensarci, disinteressato e vagamente inquietato dal peculiare approccio della bionda.
    Fece ciondolare una Houdini trasfigurata in portachiavi da una mano all’altra, il capo reclinato nell’osservare il triste profilo dell’appartamento di New Hovel – non che potesse giudicare, considerando che ufficialmente viveva ancora come un barbone, ma cristo il Ministero avrebbe potuto metterci un po’ più impegno nel costruire quel ridicolo quartiere nazista. Sospirò, fiero sostenitore del via il dente via il dolore, già attendendo la fine di quell’incontro per potersi mettere l’anima in pace, e buttarsi tutto alle spalle; non le avrebbe tolto la possibilità di parlare, ma non aveva mai dato la sua parola che se ne sarebbe effettivamente sbattuto qualcosa. Era equo, ma non faceva la cazzo di carità. Picchiò le nocche contro la porta, tre colpi secchi più soddisfacenti del mero suonare il campanello - roba che non faceva per lui – prima d’incrociare le braccia sul petto, e poggiato alla parete attendere che qualcuno gli aprisse. «sono cigei. volevi parlare, no?» masticò verso la soglia ancora serrata, chiudendo stanco gli occhi. Parlare, caso mai vi fosse sfuggito, non rientrava nella (corta) lista delle cose che amasse fare.
    Figurarsi con un ambiguo contesto del genere.
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    Tutto quello che Siobhan O’Hara aveva sempre desiderato era di essere normale. Una ragazza con la testa sulle spalle e dalle aspirazioni mediocri, non aveva mai chiesto più di quello che sapeva di non poter avere, ad eccezione di quella volta. Voleva quella famiglia di cui aveva letto fino a consumare le pagine di quella lettera, anche se solo per qualche attimo - voleva smettere di essere insignificante. Nessuno l’aveva cercata, né tantomeno sapeva della sua esistenza, tanto che si era convinta di essere persona non grata all’interno della famiglia. Non poteva saperlo, magari sua madre era stata una sfasciafamiglie e ora tutti le odiavano, per scoprirlo avrebbe effettivamente avrebbe dovuto avere una conversazione con la fam ma l’ansia sociale glielo aveva impedito fino a quel momento. Era passato un mese da quando aveva raccolto il poco coraggio che aveva e aveva approcciato per prima CJ, e nulla era ancora successo da quando il ragazzo l’aveva liquidata alla festa, tanto che i sospetti della O’Hara si erano rafforzati: la odiavano. Non era nemmeno riuscita a farsene una ragione, troppo patata per non tormentarsi con dubbi e sensi di colpa dal mattino alla sera, le mille scuse che elaborava nel suo tempo libero peggio della telenovela argentina che si guardava la sera. Ecco perché, francamente, l’ultima cosa che si era aspettata quel giorno era di ritrovarsi suo padre alla porta di casa. Non l’aveva beccata nel suo finest moment, con un gatto stretto al petto petto e un tagliaunghie nell’altra mano, ancora nel suo pigiama da Gattara ™ alle cinque del pomeriggio -Cristo, sperava di non aver lasciato nessun porno in giro- «sono cigei. volevi parlare, no?» sinceramente? Ora che se lo trovava davanti si pentiva di tutto, tanto che considerò per un momento di sbattergli la porta in faccia. Si morsicò il labbro nervosa, dibattendo se farlo davvero, dandosi poi una sberla mentale per averlo anche solo pensato: basta fare il caso umano della situazione. «ehi. Entra pure» si fece da parte per farlo passare, lo sguardo a vagare sul pavimento per controllare che quelle bestie degli altri gatti non ne approfittassero per sgattaiolare fuori, grata di quel pretesto per poter evitare gli occhi del tassorosso. Ora che era arrivato il momento di affrontare la conversazione non aveva idea di da dove iniziare, si chiedeva quanto sarebbe stato strano tirare fuori la lista con i talk points che si era fatta un mese prima, probabilmente abbastanza dafarla desistere. «vuoi qualcosa da bere? O da mangiare, anche se ho solo scatolette per gatti» ah ah ah risata nervosa aiuto, si vedeva che non era fatta per le interazioni umane. Intanto ne approfittò per far sparire il tagliaunghie dietro un vaso e per smollare il gatto bianco che ha rubato a Sersha, CJ salvalo sul pavimento, non poteva pretendere di avere una conversazione seria con quella peste che continuava a dimenarsi. «non so quanto tu sappia del…..futuro, ma penso abbastanza da starmi a sentire» ancora incapace di sedersi, preferì temporeggiare con la prima cazzata che le venne in mente, come se quelle foto che stava tirando fuori dallo scaffale avrebbero cambiato qualcosa. Strette al petto insieme alla lettera che aveva custodito tanto gelosamente, si fece finalmente verso il Patibolo. «avevano poco meno della tua età quando meara e cj hanno avuto una figlia, non penso che fosse voluta, né che qualcuno al di fuori della famiglia sapesse di lei» non osò sedersi sul divano, convinta che nel momento in cui avesse incrociato il suo sguardo, le parole sarebbero rimaste bloccate in gola «cj ha lasciato londra prima che meara potesse dirglielo, e non ha mai risposto al telefono quando ha provato a contattarlo. Sono passati anni prima che tornasse, e la prima cosa che ha trovato è stata sua figlia» ecco cosa accadeva ad andare a comprare le sigarette e fuggire in Messico «credo che volessero una seconda chance, i miei genitori, ecco perché hanno deciso di portarmi con loro» era stata trascinata in quella missione senza che nessuno glielo chiedesse, ed ora si ritrovava abbandonata in un buco di appartamento in New Hovel, che bella vita di merda «anche se non so quanto abbia funzionato, dato che nessuno si ricorda di me» si strinse tra le spalle, ormai rassegnata a quella verità, non si sorprendeva nemmeno più «speravo che almeno mio padre mi riconoscesse, ma mi sbagliavo» perché per quanto potesse averlo accettato, doveva almeno a quelli che erano stati i suoi genitori un’ultima possibilità, per una volta nella sua vita avrebbe preso quello che voleva senza più aspettare che nessuno lo facesse per lei.
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    Dal suo quasi metro e novanta, difficile per CJ non sovrastare qualcuno, gli occhi il mero bagliore malato di un lampione fatiscente. Non cercava di mettere gli altri a loro agio; sfruttava la sua altezza per far sentire i suoi interlocutori a disagio, accompagnando l’aspetto di suo ostile con un sorriso poco raccomandabile, ed un divertimento nelle iridi verdi fine a se stesso. Aveva cessato d’essere intenzionale diventando semplicemente parte di quel che era: non c’era cattiveria nello sguardo del Knowles, o nel portamento languido di un gatto che stirasse i muscoli prima di saltare sulla sua preda; non era malvagio, né sadico quanto il portachiavi a forma di motosega potesse lasciar intendere – CJ, semplicemente, non voleva essere approcciabile. Voleva far desistere eventuali curiosi, allontanare chiunque di modo da non doversi porre il problema del motivo di quella vicinanza: protezione? animo da crocerossina? Dietro le mani allungate verso il Tassorosso, c’erano sempre stati solo artigli egoisti intenzionati a strapparne un altro pezzo, e grande o piccolo che fosse aveva poca importanza quando portava con sé brandelli di carne e sangue.
    Non ci provò neanche quel pomeriggio, a cercare una terra di mezzo con la O’Hara. Le rivolse lo stesso sguardo critico che le aveva rivolto al prom, soppesando il gatto stretto al petto ed il pigiama a pendere sopra il corpo magro e sottile della ragazza. Avrebbe potuto - certo, che avrebbe potuto - andarle incontro, dirle che se non aveva in progetto di avere ospiti, poteva passare un’altra volta. L’avrebbe quasi preferito, a dire il vero. Ma come poteva, come poteva, mostrare così sfacciatamente di essere attento? Di non avere cattive intenzioni? La reputazione del Knowles, in parte vera ed in parte leggenda, era quel che gli risparmiava giornalmente di avere a che fare con seccature che, per quanto risolvibili, gli avrebbero rubato tempo e sbattimento; se fosse girata voce che non aveva intenzione di disturbare, che figura ci avrebbe fatto? Sarebbe stato sfiancante, e cremisi di sangue, cancellare i ghigni di chi credeva di potersi scavare un pezzo di Knowles da quella minuscola fessura. «ehi. Entra pure» Attese solo un paio di secondi, gli occhi smeraldo a fuggire oltre gli altri appartamenti del quartiere, prima d’infilarsi oltre la soglia, bloccando delicatamente con un piede uno dei (tanti….) felini in procinto di fuggire.
    Un gatto perfino familiare, a dire il vero. Corrugò le sopracciglia verso la creatura, il cui miagolio distorto non fece che far scattare un altro allarme nell’impeccabile memoria del Knowles: «sono tutti gatti randagi?» tono privo di giudizio, ruvido solo perché CJ era incapace di fare altrimenti. Si chinò per tamburellare l’indice sulla testa del gatto, che ricambiò con una testata e fusa così dense da far vibrare i polpastrelli.
    Il tuo gatto ama più me di te.
    Sì che i felini erano un po’ come i cinesi – sembrano tanti perché sono gatti – e neanche il Knowles poteva mettere la mano sul fuoco nel riconoscerli, ma Cristo…era proprio uguale al gatto di Sersha. Perfino l’amore nei suoi confronti, era lo stesso.
    O forse era semplicemente l’effetto che il Knowles faceva ai raminghi. Fra simili, ci s’intendeva. «vuoi qualcosa da bere? O da mangiare, anche se ho solo scatolette per gatti» Alzò il capo ed il sopracciglio verso Fawn, un «passo.» sbrigativo strizzato in un sorriso sbilenco. I convenevoli non piacevano a nessuno, figurarsi al Knowles. Era sul punto di metterle fretta, insistendo perché arrivasse al punto così da non far perdere tempo a nessuno dei due, ma la medium sembrava già dello stesso parere, le mani impegnate nervose a raccogliere qualcosa dalla libreria.
    E Christopher Jeez Knowles, quasi diciannove anni e poco dell’estate ancora da respirare, ebbe davvero un brutto - brutto - presentimento in merito, tanto da ritrovarsi a schiudere la bocca prima ancora di avere idea di cosa dire.
    Istintivo.
    Primitivo.
    Perché a volte te lo sentivi nelle fottute vene, quando era il momento di smettere: di fumare, di mangiare biscotti, di rubare – di ascoltare sconosciuti parlare di viaggi nel tempo.
    «non -»
    Dirlo.
    Provarci.
    Sperarci - che alla fine era quello, a turbarlo maggiormente. Ogni volta, ogni fottuta volta, che incontrava qualcuno di già conosciuto, amato, salutato, il Knowles odiava il velo di speranza ad adombrarne tono ed occhi. Odiava l’aspettativa. Odiava essere stato incastrato in una vita assurda senza via d’uscita; odiava guardare Sandy sapendo di aver già vissuto, una vita con lui; odiava baciare Sersha, e sapere di averlo già fatto. Odiava l’esistenza di CJ di cui CJ stesso era ignaro, e non - non - sopportava di essere già stato un CJ: si sentiva un falso, una brutta copia dell’originale. Si sentiva preso per il culo, quasi che l’Hamilton fosse stato un prestigiatore dallo scarso senso dell’umorismo e del tempo.
    Abbiamo troppe cose in sospeso, CJ.
    Non mandare tutto a puttane.

    Responsabilità. Non era mai stato bravo a gestirle.
    «avevano poco meno della tua età quando meara e cj hanno avuto una figlia, non penso che fosse voluta, né che qualcuno al di fuori della famiglia sapesse di lei»
    Pausa. Avvolse quella frase sulla lingua, rimbalzandola da un dente all’altro. Cercò di arrotolarci la mente attorno, di comprenderla - di morderla per sentirne il sapore.
    Battè solo le ciglia, il capo ad abbassarsi verso la testa bionda della O’Hara.
    Il resto della storia scivolò fra conscio e subconscio, filtrato da una - una - cazzo di parola ch’era rimasta incastrata nelle orecchie del Knowles. Meara e CJ hanno avuto una figlia.
    Meara
    CJ
    Figlia.
    Forse l’avrebbe capito, forse l’avrebbe superato, se nel tono di Siobhan O’Hara non ci fosse stata l’urgenza di essere guardata. Nel suo nervosismo, nella voce a tremare e frammentarsi senza interrompersi mai, c’era quel genere di coraggio disperato di chi aveva non solo deciso di saltare, ma s’era già buttato. E faticò, faticò davvero un fottio, a battere le palpebre per metterne a fuoco gli occhi – per sentirla.
    Per sentirla.
    Lo sapeva, CJ, che in quegli occhi verdi c’era troppo Crane.
    «speravo che almeno mio padre mi riconoscesse, ma mi sbagliavo»
    Non aveva capito che il Crane in questione fosse lui.
    Aprì la bocca, la tenne socchiusa. Piegò il capo sulla spalla osservando un punto oltre le spalle di Fawn, privo del sorriso sgualcito che in qualsiasi altra occasione avrebbe indossato e sbandierato.
    Perché «non sono tuo padre» ancora secco, ancora ruvido - ancora CJ, nello sguardo smeraldo screziato d’ambra con cui ricambiò infine l’occhiata di Fawn. Deglutì, il cuore a battere così forte da fargli assaggiare bile e sangue sulla punta della lingua. «non…» chiuse gli occhi, un tremolio involontario sulle palpebre.
    Non voleva
    Non voleva
    Non poteva
    Essere…bugiardo. Era fuori dalle sue corde, linee sulle quali non trovava il giusto equilibrio. Eppure non voleva
    Non voleva
    Non poteva
    Spezzare quelle spalle sottili che avevano avuto il coraggio di vomitare una verità così scomoda: perché sembrava crederci, Fawn; sembrava legata a quella vita che CJ Knowles aveva cercato con tutto se stesso, con tutto fottuto se stesso, di dimenticare: non voleva essere il burattino di CJ Hamilton. Non poteva. «non sono quel CJ» il tono si ammorbidì di senso di colpa, perché – non sapeva che cazzo fare.
    Non sapeva
    Che cazzo fare.
    A chiunque altro avrebbe rivolto un dito medio ed un frega cazzi sputato in un sorriso dolceamaro, continuando la sua vita nell’eterna lotta del dimenticare, ma
    Quel pezzo di merda
    “Abbiamo troppe cose in sospeso”
    Se n’era già andato una volta. L’aveva di nuovo – Dio, di nuovo - messo in trappola, costringendolo ad espiare colpe che il Knowles non aveva. «onestamente, dovresti esserne grata: CJ Hamilton dev’essere stato un gran pezzo di merda; non ti sei persa niente» non si privò del sorriso a sporcare la bocca, fingendo che ogni parola pronunciata non fosse una lama a doppio senso.
    D’altronde, Fawn era sangue del suo sangue; poteva quasi sentirlo scorrere, poteva quasi sentirlo bruciare.
    Non so che idea ti sia fatta, avrebbe voluto dirle, ma è quella sbagliata. Forse sarebbe stata la risposta migliore.
    «mi dispiace» il sussurro impotente di un diciottenne che quel mondo fingeva di possederlo, e che invece continuava a non comprendere. Di un ragazzino che non conosceva paura, ma era amico di angoscia e solitudine, attratto dal vuoto emanato dalla O’Hara perché richiamava il proprio.
    Per forza
    È tua figlia, che cazzo ti aspettavi?

    «mi dispiace» ripetè, più ringhio che voce a far vibrare le corde vocali, con i pugni serrati lungo i fianchi. Arrabbiato? Sempre. Con Fawn? Quello mai. Che colpe poteva avere, lei; che ne sapeva, nel suo aulico sogno della famiglia mulino bianco, di quanto un pezzo di merda CJ fosse.
    In entrambe le vite, per giunta. «non so -» un cazzo. Inumidì le labbra, abbassando il capo ed il tono di voce. Fottutamente codardo, nel lasciare che fosse lei a rispondere per lui. Fottutamente CJ nel concederle di scegliere fra punto e virgola – nel lasciarle l’onere e l’onore di scavarsi la fossa da sola.
    Perché quello era ciò che ai CJ veniva meglio.
    Impassibile, ma non astioso. Deglutì, la voce frammenti di vetro contro pietra – acuto e tagliente, ma non con l’intenzione di far male.
    Un sospiro. «cosa vuoi che dica?»
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    (2043) - freak - 10.08.19
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