Dal suo quasi metro e novanta, difficile per CJ non sovrastare qualcuno, gli occhi il mero bagliore malato di un lampione fatiscente. Non cercava di mettere gli altri a loro agio; sfruttava la sua altezza per far sentire i suoi interlocutori a disagio, accompagnando l’aspetto di suo ostile con un sorriso poco raccomandabile, ed un divertimento nelle iridi verdi fine a se stesso. Aveva cessato d’essere intenzionale diventando semplicemente parte di quel che era: non c’era cattiveria nello sguardo del Knowles, o nel portamento languido di un gatto che stirasse i muscoli prima di saltare sulla sua preda; non era malvagio, né sadico quanto il portachiavi a forma di motosega potesse lasciar intendere – CJ, semplicemente, non voleva essere approcciabile. Voleva far desistere eventuali curiosi, allontanare chiunque di modo da non doversi porre il problema del motivo di quella vicinanza: protezione? animo da crocerossina? Dietro le mani allungate verso il Tassorosso, c’erano sempre stati solo artigli egoisti intenzionati a strapparne un altro pezzo, e grande o piccolo che fosse aveva poca importanza quando portava con sé brandelli di carne e sangue. Non ci provò neanche quel pomeriggio, a cercare una terra di mezzo con la O’Hara. Le rivolse lo stesso sguardo critico che le aveva rivolto al prom, soppesando il gatto stretto al petto ed il pigiama a pendere sopra il corpo magro e sottile della ragazza. Avrebbe potuto - certo, che avrebbe potuto - andarle incontro, dirle che se non aveva in progetto di avere ospiti, poteva passare un’altra volta. L’avrebbe quasi preferito, a dire il vero. Ma come poteva, come poteva, mostrare così sfacciatamente di essere attento? Di non avere cattive intenzioni? La reputazione del Knowles, in parte vera ed in parte leggenda, era quel che gli risparmiava giornalmente di avere a che fare con seccature che, per quanto risolvibili, gli avrebbero rubato tempo e sbattimento; se fosse girata voce che non aveva intenzione di disturbare, che figura ci avrebbe fatto? Sarebbe stato sfiancante, e cremisi di sangue, cancellare i ghigni di chi credeva di potersi scavare un pezzo di Knowles da quella minuscola fessura. «ehi. Entra pure» Attese solo un paio di secondi, gli occhi smeraldo a fuggire oltre gli altri appartamenti del quartiere, prima d’infilarsi oltre la soglia, bloccando delicatamente con un piede uno dei (tanti….) felini in procinto di fuggire. Un gatto perfino familiare, a dire il vero. Corrugò le sopracciglia verso la creatura, il cui miagolio distorto non fece che far scattare un altro allarme nell’impeccabile memoria del Knowles: «sono tutti gatti randagi?» tono privo di giudizio, ruvido solo perché CJ era incapace di fare altrimenti. Si chinò per tamburellare l’indice sulla testa del gatto, che ricambiò con una testata e fusa così dense da far vibrare i polpastrelli. Il tuo gatto ama più me di te. Sì che i felini erano un po’ come i cinesi – sembrano tanti perché sono gatti – e neanche il Knowles poteva mettere la mano sul fuoco nel riconoscerli, ma Cristo…era proprio uguale al gatto di Sersha. Perfino l’amore nei suoi confronti, era lo stesso. O forse era semplicemente l’effetto che il Knowles faceva ai raminghi. Fra simili, ci s’intendeva. «vuoi qualcosa da bere? O da mangiare, anche se ho solo scatolette per gatti» Alzò il capo ed il sopracciglio verso Fawn, un «passo.» sbrigativo strizzato in un sorriso sbilenco. I convenevoli non piacevano a nessuno, figurarsi al Knowles. Era sul punto di metterle fretta, insistendo perché arrivasse al punto così da non far perdere tempo a nessuno dei due, ma la medium sembrava già dello stesso parere, le mani impegnate nervose a raccogliere qualcosa dalla libreria. E Christopher Jeez Knowles, quasi diciannove anni e poco dell’estate ancora da respirare, ebbe davvero un brutto - brutto - presentimento in merito, tanto da ritrovarsi a schiudere la bocca prima ancora di avere idea di cosa dire. Istintivo. Primitivo. Perché a volte te lo sentivi nelle fottute vene, quando era il momento di smettere: di fumare, di mangiare biscotti, di rubare – di ascoltare sconosciuti parlare di viaggi nel tempo. «non -» Dirlo. Provarci. Sperarci - che alla fine era quello, a turbarlo maggiormente. Ogni volta, ogni fottuta volta, che incontrava qualcuno di già conosciuto, amato, salutato, il Knowles odiava il velo di speranza ad adombrarne tono ed occhi. Odiava l’aspettativa. Odiava essere stato incastrato in una vita assurda senza via d’uscita; odiava guardare Sandy sapendo di aver già vissuto, una vita con lui; odiava baciare Sersha, e sapere di averlo già fatto. Odiava l’esistenza di CJ di cui CJ stesso era ignaro, e non - non - sopportava di essere già stato un CJ: si sentiva un falso, una brutta copia dell’originale. Si sentiva preso per il culo, quasi che l’Hamilton fosse stato un prestigiatore dallo scarso senso dell’umorismo e del tempo. Abbiamo troppe cose in sospeso, CJ. Non mandare tutto a puttane. Responsabilità. Non era mai stato bravo a gestirle. «avevano poco meno della tua età quando meara e cj hanno avuto una figlia, non penso che fosse voluta, né che qualcuno al di fuori della famiglia sapesse di lei» Pausa. Avvolse quella frase sulla lingua, rimbalzandola da un dente all’altro. Cercò di arrotolarci la mente attorno, di comprenderla - di morderla per sentirne il sapore. Battè solo le ciglia, il capo ad abbassarsi verso la testa bionda della O’Hara. Il resto della storia scivolò fra conscio e subconscio, filtrato da una - una - cazzo di parola ch’era rimasta incastrata nelle orecchie del Knowles. Meara e CJ hanno avuto una figlia. Meara CJ Figlia. Forse l’avrebbe capito, forse l’avrebbe superato, se nel tono di Siobhan O’Hara non ci fosse stata l’urgenza di essere guardata. Nel suo nervosismo, nella voce a tremare e frammentarsi senza interrompersi mai, c’era quel genere di coraggio disperato di chi aveva non solo deciso di saltare, ma s’era già buttato. E faticò, faticò davvero un fottio, a battere le palpebre per metterne a fuoco gli occhi – per sentirla. Per sentirla. Lo sapeva, CJ, che in quegli occhi verdi c’era troppo Crane. «speravo che almeno mio padre mi riconoscesse, ma mi sbagliavo» Non aveva capito che il Crane in questione fosse lui. Aprì la bocca, la tenne socchiusa. Piegò il capo sulla spalla osservando un punto oltre le spalle di Fawn, privo del sorriso sgualcito che in qualsiasi altra occasione avrebbe indossato e sbandierato. Perché «non sono tuo padre» ancora secco, ancora ruvido - ancora CJ, nello sguardo smeraldo screziato d’ambra con cui ricambiò infine l’occhiata di Fawn. Deglutì, il cuore a battere così forte da fargli assaggiare bile e sangue sulla punta della lingua. «non…» chiuse gli occhi, un tremolio involontario sulle palpebre. Non voleva Non voleva Non poteva Essere…bugiardo. Era fuori dalle sue corde, linee sulle quali non trovava il giusto equilibrio. Eppure non voleva Non voleva Non poteva Spezzare quelle spalle sottili che avevano avuto il coraggio di vomitare una verità così scomoda: perché sembrava crederci, Fawn; sembrava legata a quella vita che CJ Knowles aveva cercato con tutto se stesso, con tutto fottuto se stesso, di dimenticare: non voleva essere il burattino di CJ Hamilton. Non poteva. «non sono quel CJ» il tono si ammorbidì di senso di colpa, perché – non sapeva che cazzo fare. Non sapeva Che cazzo fare. A chiunque altro avrebbe rivolto un dito medio ed un frega cazzi sputato in un sorriso dolceamaro, continuando la sua vita nell’eterna lotta del dimenticare, ma Quel pezzo di merda “Abbiamo troppe cose in sospeso” Se n’era già andato una volta. L’aveva di nuovo – Dio, di nuovo - messo in trappola, costringendolo ad espiare colpe che il Knowles non aveva. «onestamente, dovresti esserne grata: CJ Hamilton dev’essere stato un gran pezzo di merda; non ti sei persa niente» non si privò del sorriso a sporcare la bocca, fingendo che ogni parola pronunciata non fosse una lama a doppio senso. D’altronde, Fawn era sangue del suo sangue; poteva quasi sentirlo scorrere, poteva quasi sentirlo bruciare. Non so che idea ti sia fatta, avrebbe voluto dirle, ma è quella sbagliata. Forse sarebbe stata la risposta migliore. «mi dispiace» il sussurro impotente di un diciottenne che quel mondo fingeva di possederlo, e che invece continuava a non comprendere. Di un ragazzino che non conosceva paura, ma era amico di angoscia e solitudine, attratto dal vuoto emanato dalla O’Hara perché richiamava il proprio. Per forza È tua figlia, che cazzo ti aspettavi? «mi dispiace» ripetè, più ringhio che voce a far vibrare le corde vocali, con i pugni serrati lungo i fianchi. Arrabbiato? Sempre. Con Fawn? Quello mai. Che colpe poteva avere, lei; che ne sapeva, nel suo aulico sogno della famiglia mulino bianco, di quanto un pezzo di merda CJ fosse. In entrambe le vite, per giunta. «non so -» un cazzo. Inumidì le labbra, abbassando il capo ed il tono di voce. Fottutamente codardo, nel lasciare che fosse lei a rispondere per lui. Fottutamente CJ nel concederle di scegliere fra punto e virgola – nel lasciarle l’onere e l’onore di scavarsi la fossa da sola. Perché quello era ciò che ai CJ veniva meglio. Impassibile, ma non astioso. Deglutì, la voce frammenti di vetro contro pietra – acuto e tagliente, ma non con l’intenzione di far male. Un sospiro. «cosa vuoi che dica?»
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