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godric ft. hyde

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    Da quando si era trasferito assieme ai Golden, Godric cercava di tornare dai suoi zii il meno possibile. Non è che non gli volesse bene - voglio dire, zia Deja lo aveva sempre trattato alla stregua di un figlio, lo avevano cresciuto e non gli avevano mai fatto mancare niente, e per questo non poteva che essergli grato. Il problema era che, i due zii paterni, erano quanto di più lontano esistesse dal concetto di Godric di 'accettabile.' Poteva imparare a convivere con Fake, poteva persino sopportare Delith a volte, ma Deja Osborne era su un altro livello di tollerabilità. Era rumorosa, ossessionata dalle soap spagnole, scaramantica verso qualsiasi cosa e, dulcis in fundo, non aveva mai superato l'idea di non poter avere figli, perciò continuava a prendere in affido ragazzini problematici a cui lasciava fare qualsiasi cosa nella speranza che restassero in quella casa il più a lungo possibile. Godric aveva passato l'intera infanzia in compagnia di quelle che considerava creature antropomorfe di dubbia intelligenza. Talvolta, era persino stato costretto a condividere la propria stanza con qualcuno di loro perché Deja, nei suoi slanci di materna follia, decideva di accogliere due, anche tre ragazzini per volta.
    Per lo più l'Osborne cercava di ignorare la loro esistenza e, di solito, in questo modo riusciva a sopravvivere senza dover neppure ricordare com'è che si chiamassero. Altre volte era più complicato, soprattutto quando qualcuno di loro decideva di pretendere la sua considerazione e, non riuscendovi, s'impegnava per rendere la sua vita un inferno. Il problema era che, con Godric, niente era mai realmente efficace, non c'era niente davvero in grado di scuoterlo - niente, meno che il fuoco.
    A quel tempo, le cicatrici impresse sulla sua pelle dalle fiamme erano ancora ben evidenti, a volte gli facevano un po' male, e la sola idea di bruciare ancora era in grado di paralizzarlo. Una sola volta si era lasciato cogliere alla sprovvista: doveva chiamarsi Alan, o Ilan, o una cosa del genere, e aveva deciso di dar fuoco alle sue lenzuola perché non sopportava la sua espressione eternamente impassibile.
    In quell'occasione non si era arrabbiato l'Osborne, non aveva urlato né aveva tentato di scappare. Era semplicemente rimasto lì, a osservare le fiamme, il fiato corto e il battito accelerato, con la piena consapevolezza di star avendo un attacco di panico senza tuttavia riuscire a controllare il proprio terrore. A trovarlo così era stato suo zio Aloysius che, dopo aver spento le fiamme, si era infine trovato un Godric dodicenne svenuto fra le braccia.
    Non sapeva come avessero affrontato la cosa con Alan-Ilan, fatto sta che Godric non lo aveva più visto dopo quell'episodio e, da allora, aveva imparare ad usare su di sé l'incanto Oblivion Amigdlae con estrema precisione, così da attenuare la propria paura e non trovarsi mai più in quel tipo di svantaggio.
    Per un po' di tempo non c'erano più stati nuovi ragazzini in casa Osborne, e solo dopo qualche anno era arrivato Ryan. Non era la persona che Godric avrebbe voluto - se glielo avessero chiesto, lui non avrebbe voluto proprio nessuno -, ma forse era quella di cui aveva bisogno. Non avrebbe saputo dire cosa nell'Allen lo avesse portato a incuriosirsi piuttosto che a respingerlo come aveva fatto con tutti gli altri, ma si era accorto troppo tardi di volergli bene e non era più riuscito a tornare indietro. Odiava ammetterlo ma, ora che Ryan non c'era più, a volte gli mancava.
    E in quel preciso istante, seduto sul suo vecchio letto in casa degli zii, fissava l'altro materasso, quello che un tempo era stato del Grifondoro, e quella nostalgia si faceva un po' più difficile da digerire. Non sapeva neanche perché si trovasse lì, tutto ciò che ricordava era che avesse cercato una via di fuga dalle urla caotiche di sua zia e che, l'attimo dopo, si fosse ritrovato nella sua vecchia camera. Ora rimpiangeva d'averlo fatto.
    Aveva insistito, Deja, perché il suo nipote preferito venisse a conoscere la loro nuova 'figlia adottiva' - una mocciosa di undici anni che non avrebbe mai potuto prendere il posto di Ryan -, e non che Godric fosse solitamente incline ad assecondarla... Diciamo che, dopo aver valutato tutti i fattori, aveva deciso che accettare l'invito della zia avrebbe potuto avere i suoi vantaggi. Quello che non aveva calcolato, però, era che si sarebbe trovato in mezzo a una riunione di famiglia in piena regola.
    Aveva semplicemente atteso che il tempo scorresse, lasciando che suo zio gli elencasse tutti gli ingredienti del suo stramaledettissimo whiskey e che un paio di vicine di casa si complimentassero per il suo vestito credendo di poter imbastire una specie di conversazione con lui, fino a che sua zia Deja non lo aveva chiamato in cucina perché le desse una mano a portare i biscotti. E poi era successo piuttosto all'improvviso: gli si era aperta un po' la giacca, sua zia aveva visto la pistola e aveva cominciato a urlargli addosso qualcosa a proposito della pericolosità delle armi da fuoco. Lui aveva ponderato l'idea di raccontargli di un certo episodio all'Amortentia di qualche anno prima, per poi decidere semplicemente di tagliare la corda e fuggire nella prima stanza vuota disponibile.
    Ecco com'era arrivato lì.
    Se avrebbe potuto risparmiarsi quella tragedia? Assolutamente sì. Il problema era che restare a casa ne avrebbe comportata una ben più grossa.
    Per intenderci, Godric non aveva mai valutato la possibilità che un giorno Hyde Winston avrebbe potuto chiedergli di fare qualcosa che non concernesse il lavoro. Eppure, quella stessa mattina, il Capo del Consiglio gli aveva esplicitamente chiesto di accompagnarlo ad una... festa? Qualcosa, e questo aveva fatto scattare nell'Osborne il Piano di Sopravvivenza. Punto uno: i Golden non dovevano saperne niente. Non si sarebbe scrollato mai più di dosso le loro domande e allusioni. Non voleva essere costretto a dare spiegazioni e, sinceramente, non avrebbe neanche saputo che cosa dire.
    Ed ecco perché l'invito della zia era calzato a pennello: si sarebbe incontrato con Hyde appena fuori dalla sua vecchia casa, nessuno avrebbe chiesto niente, e tanti saluti. Se anche qualcuno avesse osato fare domande, il fatto che non vivesse più insieme a quelle persone rendeva molto più semplice ignorarle e, a dirla tutta, preferiva mentire a loro che ai Golden.

    Diede un'occhiata all'orologio per accertarsi d'essere in orario, quindi si alzò in piedi e voltò le spalle a quella che per anni era stato il suo posto. Superò il corridoio con passo svelto, pregando che nessuno lo fermasse a un passo dall'ingresso.
    «Godric!!» illuso. «Ho un appuntamento zia, grazie per» niente «l'invito, ci sentiamo» le rivolse un frettoloso cenno di saluto prima di fiondarsi fuori sbattendosi la porta alle spalle. Dio, non voleva trattarli male, ma erano così difficili.
    Si passò una mano fra i capelli, un misto tra l'esasperazione e quel fastidioso vizio che aveva preso di mettersi a posto quando Hyde era nei paraggi. Si ficcò le mani in tasca per costringersi a farla finita, poi si affrettò a raggiungere il marciapiede, lì dove il maggiore lo stava aspettando.
    «Ti prego, portami via» commentò soltanto, un vago movimento del capo in direzione del ministeriale «qualunque posto sarà meglio di questo» ancora una volta: illuso.
    [verse 1]
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    Edited by ‚serendipity - 26/3/2022, 19:21
     
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    Hyde aveva sette fratelli, tre nipoti, e dodici cugini di primo grado, escludendo il parentame affine o gemellato: era ovvio, che odiasse i compleanni. Non credeva, in generale, che al mondo ci fossero particolari motivi per festeggiare, ma trovava particolarmente orribile il doverlo fare per essere sopravvissuto un altro anno, ed al contempo viverne uno in meno.
    Quindi, perché.
    Era una scelta che rimpiangeva dal momento in cui l'aveva compiuta, e sulla quale valutava spesso l'idea di tornare sui propri passi; il fatto che ancora non l'avesse fatto, purtroppo, lasciava intendere che sarebbe andato fino in fondo. Una tragedia. Esitò, sulla porta del proprio ufficio, conscio di poter ancora cambiare idea. Fino a che non avesse varcato quella soglia, fino a che non fosse uscito dal Ministero calpestando il malconcio cemento londinese, Jack Daniels aveva ancora la possibilità che qualcuno, visto che egli stesso sembrava non esserne in grado, cambiasse idea per lui, costringendolo ad ore in più dietro la propria scrivania a scremare informazioni che raramente erano di suo interesse, o a presenziare a qualche interrogatorio in via del tutto speciale. Magari il Black avrebbe avuto bisogno di un suo suggerimento; magari Deemer avrebbe necessitato di chiarimenti; magari i Ribelli avrebbero fatto saltare in aria tutto il fottuto edificio.
    Possibilità. Centinaia di migliaia di possibilità, e non accadde proprio un cazzo, lasciandolo in piedi ed immobile al centro di un corridoio deserto e silenzioso. Portò le nocche alle labbra, chiudendo gli occhi il millesimo di secondo necessario ad assorbire quella quiete – ne avrebbe avuto bisogno, di lì a qualche ora; avrebbe dovuto rilasciarla nel cosmo, come un profumo per ambienti, per permettersi di respirare e non alzare bacchetta o rivoltella su nessuno.
    Jack Daniels non esisteva. Dietro quel nome, fallace e vacuo, restava l’Hyde che il mondo vedeva e non capiva; non era l’identità a cambiarne l’essenza. Il ventunenne a capo del consiglio era lo stesso che un paio d’anni prima aveva scelto di rimanere, fuggendo da un mondo a pezzi che avevano promesso di salvare. Cambiava il titolo, ma copertina e contenuti restavano gli stessi: ecco perché non si parlava di Jack, e non si parlava di Hyde, quando si diceva fosse un bastardo egoista e crudele. Era lui, come persona, ad essere una persona di merda, fosse a casa o sul posto di lavoro.
    E lui non faceva mai niente che non gli andasse di fare.
    Ma c’era la fregatura, l’increspatura in un ragionamento altrimenti logico e lineare. Quelle… cazzo di dune che dall’alto parevano un percorso dritto, e su cui invece finivi immancabilmente per inciampare. Perchè non gli andava lo strazio che lo attendeva quella sera a casa; non gli andava il supplizio, auto inflitto, di aprire finestre su finestre di case che avrebbero dovuto rimanere segrete. Ma voleva farlo, il che era un grande, immenso, problema. Odiava che volesse farlo. Odiava che non lo odiasse abbastanza da non volerlo fare, perché sarebbe stato tutto più semplice, e si meritava qualcosa di semplice in una vita di insenature temporali. Ma no, figurarsi. Un’esistenza prima aveva deciso, perché di decisioni s’era sempre trattato, di permettere - di permettersi - a Gryffith Dallaire di rimanere, ed ancora pagava il prezzo di una scelta fatta in un’età ancora tenera e malleabile. Quando tutto aveva ancora senso, ed un lui bambino, pur rimanendo se stesso, era vagamente più… fiducioso. Più gatto randagio che selvatico. Più abbracci di Mabel e pomeriggi passati a guardare River lavorare.
    Più Crane e Winston, che Hyde.
    E così era rimasta, e l’aveva lasciata rimanere, diventando parte di un genere di famiglia differente rispetto a quella di nascita. Una che negli anni era sempre rimasta esclusiva, perché era l’unica amica che il Serpeverde avesse mai avuto, e che nella sua unicità si era trascinata negli anni – nelle vite.
    In Chelsey Weasley.
    Una Chelsey Weasley che ultimamente pareva più rabbiosa del solito, se possibile. E, cosa ancor peggiore – migliore, nel suo caso; sempre migliore, ma preoccupante - capitava che rimanesse in silenzio per dodici secondi di fila. Forse altri si sarebbero resi conto di cambiamenti più importanti nell’indole della Weasley, e alcuni non ci avrebbero fatto caso affatto, ma Hyde sapeva, perché lo sapeva sempre, che c’era qualcosa che non tornava. Sarebbe morto (punto. Un sogno) prima di ammettere che volesse fare qualcosa per… renderla più felice, ma – ma di quello si trattava. Messo in termini così blandi, era ancor più raccapricciante di quando si arrampicava su centinaia di scuse per giustificare La Scelta, ma per quanto volesse girarci attorno, il nucleo era lo stesso.
    A Hyde piaceva l’equilibrio. L’ordine. I cambiamenti, turbavano un ecosistema già fragile e precario. Quella Chelsey non era la solita Chelsey, il che aveva portato il CW a drastiche decisioni.
    Permetterle di organizzare una festa, contenuta, nel loro appartamento.
    Parteciparvi.
    Portarci Godric Non Grifondoro Osborne.
    Insieme.
    A lui.
    Provava spesso nausea - la vita era pur sempre una maledizione, e la sua salute cagionevole – ma quella era un genere di nausea diverso. Se non si fosse conosciuto meglio, l’avrebbe definito nervosismo.
    Qualcun fischiettò. Hyde alzò lo sguardo, e mai pensava che avrebbe provato sollievo nel vedere il volto all’orizzonte, ma – eh, c’erano sempre delle prime volte. «hilton» Il tono, seppur apatico e atono, dovette comunque far trapelare qualcosa di differente, perché Yale, avvicinandosi, lo squadrò curioso. «capo…?» Un interrogativo lecito, quello nelle iridi blu dell’americano. Si contavano sulle dita di una mano le volte che si appellava a lui direttamente, e non erano mai andate a finire bene. «hai bisogno di qualcosa?» Era la sua occasione. Non credeva nel destino, aberrava la sola definizione, ma era chiaramente un segno che - «uh? No, sono solo tornato a prendere la giacca» L’Hilton indicò l’attaccapanni presso cui era appesa una leggera giacca a vento, sorridendo come se non avesse appena distrutto un sogno.
    Hyde inspirò.
    «ok.»
    Fottute persone.

    Quindi.
    Rigirò la sigaretta, ancora spenta, fra le dita, schiena poggiata al muretto ed occhi intenti a studiare le pieghe della camicia. Le aveva già contate, e ne aveva imparato ogni curva, ma rimase testardo ad osservarle per fingere che quanto stesse per accadere, non fosse vero. Che ci fosse qualcosa di sensato, e logico, ed elaborato, dietro quello. Che potesse dare un nome, a quello.
    Un nome accettabile e che non fosse appuntamento, perché appuntamento richiedeva una serie di ammissioni di colpe che Hyde non era ancora pronto a fare. Era… un incontro organizzato. Una riunione in borghese. Una data ed un luogo. Si erano già visti, e insieme, fuori dal luogo di lavoro, ma quello… quello era diverso. Quello era un intero mondo del quale avevano sempre evitato accuratamente di parlare, fili a intrecciarsi che non avrebbero dovuto incontrarsi mai. Poco importava che Hyde sapesse Godric e Chelsey si conoscessero da prima di lui.
    Era diverso.
    Cos’era.
    Qualcosa.
    Ma cosa.
    «Ti prego, portami via» Alzò il capo lentamente. Raramente rimpiangeva le proprie decisioni, ancor più di rado quando non riguardavano Chelsey o Jekyll, ma in un effimero battito di ciglia, Hyde rimpianse tutto. Perfino nascere, non era abbastanza.
    Forse il primo incontro di Maeve e Al. Forse la loro, di nascita.
    Si diede una spinta in avanti, fingendo di avere il controllo di qualcosa che non aveva con il semplice atto di accendersi la sigaretta, pur sapendo quanto all’Osborne desse fastidio. Un piccolo gesto di ribellione nei propri confronti. Come avrebbero detto i giovani di quel millennio, un vibe check. Arcuò le sopracciglia, attendendo di essere raggiunto prima di incamminarsi. «qualunque posto sarà meglio di questo» Quello, quello, bastò ad alleggerire la tensione fra le scapole del mago, facendo sgusciare quello che avrebbe perfino potuto apparire come un sorriso divertito sulle labbra sottili del biondo. Cosa fosse in realtà? Isteria Non lo sapremo mai. «non sai quel che dici» commentò, arrotolando il fumo sulla lingua per soffiarlo verso il pavimento. Avrebbe potuto domandargli dove fosse stato, ma non era il genere di persona che chiedeva spiegazioni quando l’altro sembrava non intenzionato ad offrirne.
    Si, di base, parlavano molto poco, fra loro – la cosa che preferiva.
    Aveva rimuginato – lui, rimuginato: quando mai. - su cosa dire, su come dirlo, ed aveva raggiunto la conclusione che il fatto nudo e crudo bastasse. Via il dente via il dolore, narrava la leggenda. «stiamo andando al compleanno di chelsey» Non lo guardò. Sapeva quale espressione (nessuna.) avrebbe trovato sul suo volto. «weasley.» completò, perché fosse mai che pensasse si trattasse di qualche altra Chelsey. Ne aveva licenziata una, fra i consiglieri, per il puro principio di non doverne avere intorno un’altra. Offrì una smorfia che avrebbe potuto sembrare un mezzo sorriso.
    Forse perché lo era. «ora puoi iniziare con le domande»
    Tipo perchè.


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    Godric non aveva mai condiviso la filosofia del lasciarsi il passato alle spalle. Era un tipo riflessivo, ai limiti dell'ossessione, e per questo sentiva un bisogno quasi fisico di ripensare ai propri errori, di ripeterseli in testa ancora e ancora, di sviscerarli sino al loro più piccolo elemento per capire come fare a non ripeterli più. Eppure, per quanto a lungo ci pensasse, per quanto sforzo impiegasse nel tentativo di migliorarsi, c'era una cosa che non era ancora riuscito a imparare, ovvero a comprendere le persone. Ragionava in modo matematico, seguendo la logica e la probabilità, eppure la gente era sempre così dannatamente incoerente. Non c'era una sola aspettativa che avesse riposto che fosse stata davvero rispettata nel tempo. Tutti, prima o dopo e in un modo o nell'altro, avevano finito almeno una volta per deluderlo. E proprio non capiva Godric, che nelle relazioni era sempre stato talmente cauto da mantenersi a kilometri di distanza dalla linea di pericolo, come facesse a non vederla arrivare la fregatura, a venir puntualmente colto alla sprovvista da quell'unica cosa che, inspiegabilmente, era riuscita a fuggire al suo vigile e costante controllo.
    Forse sarebbe stato più facile ascoltare quelle banali chiacchiere da corridoio, che non facevano che consigliare con voce sapiente e insieme civettuola quanto bene si facesse a non aspettarsi mai niente da nessuno. Ma Godric non era così. Godric non poteva semplicemente affrontare qualcosa senza prima essersi costruito delle precise aspettative basate non sul mero istinto, ma su un accurato calcolo delle probabilità. Godric doveva aspettarsi qualcosa. Il problema era che, il più delle volte, si aspettava la cosa sbagliata.
    Aveva dato per scontato che Ryan, presto o tardi, si sarebbe reso conto di non saper vivere da solo e sarebbe tornato. Erano passati anni, e non lo aveva ancora fatto.
    Si era aspettato che Dante fosse sufficientemente intelligente da comprendere quanto di sbagliato ci fosse nell'abbracciare una causa persa, ma non lo aveva visto vacillare neppure una volta nel difendere le sue idee da visionario. Quando aveva creduto di averlo perso per sempre dopo la loro ultima lite, Dante era rientrato dopo pochi mesi nella sua vita come se non ne fosse mai uscito realmente.
    E tutto si era aspettato da Hyde, meno che gli chiedesse di diventare il suo assistente, meno che lo baciasse, meno che continuasse a rivolgergli le stesse attenzioni di sempre malgrado avessero violato uno dei loro più importanti divieti autoimposti, quella di non lasciarsi andare ad alcun tipo di sentimentalismo.
    Era riuscito per l'ennesima volta a trovarsi impreparato dinanzi a qualcosa che non era riuscito a prevedere - un'altra. Una di quelle cose in grado di mandarlo fuori di testa, una macchina perfetta impallata in un eterno corto circuito nel quale il punto non era più che cosa si aspettasse dagli altri ma, piuttosto, che cosa si aspettasse da sé stesso.
    Aveva sempre creduto di conoscersi, di poter sbagliare su tutti meno che su di sé, ma poi si era ritrovato a sperare più di quanto non si fosse mai concesso di fare, a distrarsi su pensieri che un tempo non avrebbe neppure ammesso di avere, a dubitare di ogni principio avesse mai governato la sua esistenza. Che senso aveva darsi delle regole quand'era così facile trovare delle scuse per trasgredirle ogni volta?
    Facile.
    A dirla tutta, facile non lo era neanche un po'.
    A dirla tutta, sarebbe stato cento volte più semplice attenersi semplicemente alle sue stramaledettissime regole. Avrebbe concluso la scuola ed avrebbe iniziato un tirocinio come tutti gli altri, che gli avrebbe concesso di occupare un ruolo normale al Ministero, uno che avesse una sua precisa collocazione burocratica e che non avesse bisogno di giustificazioni.
    Non che si fosse mai sentito in dovere di fornirle, comunque.
    È che gli dava fastidio non averne per sé stesso. Perché aveva accettato? Perché non si era fermato neppure un istante a riflettere prima di dire di sì?
    Aveva dei progetti prima di Hyde, cose che un tempo avrebbe fatto senza alcuna remora e senza doversi chiedere se fosse eticamente giusto o sbagliato, se non fosse il caso di darci un taglio prima di arrivare a un punto di non ritorno. Non avrebbe certo iniziato a sentirsi in colpa per aver accettato di lavorare con Deemer, Aaron o Alister, a dubitare del valore della scienza e della necessità di qualche sacrificio in nome di un bene superiore, ma non riusciva a non chiedersi cosa avrebbe detto Hyde se lo avesse saputo, in che modo lo avrebbe guardato allora.
    Logicamente, non c'era neanche un buon motivo per cui gli importasse del suo parere. Nella pratica, gli importava più di quanto non fosse chiaro persino a sé stesso. Non perché volesse la sua approvazione, o sperasse di tenerselo stretto il più a lungo possibile - dio, era un problema di gran lunga peggiore.
    Era che non voleva perderlo, e quella consapevolezza stava ad un livello che poco assomigliava alla sua costante paura che i golden facessero qualcosa di talmente stupido da rimetterci la pelle (cosa, per altro, fin troppo probabile), ma era più un caposaldo della sua vita, come se in un certo senso fosse sempre stato lì. C'erano i libri, c'era l'aritmomanzia, c'era la cucina, e c'era Hyde.
    Una parte fondamentale della sua bacheca self di Pinterest, gli avrebbe detto Ryu e, dal momento che odiava dover paragonare la sua vita a una delle stronzate di Ryu, avrebbe preferito sbattere la testa contro il muro sino a perdere i sensi piuttosto che dar ascolto alla sua stupida coscienza.
    Non che avesse molta scelta, comunque.
    Non quando il suo primo pensiero a quel «stiamo andando al compleanno di chelsey» era stato di chiedersi perché, nel dirlo, avesse evitato di guardarlo, piuttosto che il desiderio di fare dietro front e mandarlo al diavolo.
    Dire di conoscere Hyde sarebbe stata una menzogna, ma a Godric piaceva studiare chiunque, e il suo superiore non era certo stato esentato dalla sua analisi. Aveva il sospetto, non del tutto confermato ma ancora relativamente probabile, che Hyde avesse il vizio di non guardarlo in faccia quando c'era qualcosa a innervosirlo.
    «ora puoi iniziare con le domande» aveva detto, ma Godric non gli avrebbe chiesto perché. Non voleva farlo, non era quello il punto. Che differenza avrebbe fatto, comunque? L'avrebbe seguito in ogni caso.
    «solo una» disse invece, affondando il naso nella sciarpa per non dover respirare il fumo della sigaretta dell'altro «perché mi hai chiesto di venire?» una domanda con un solo scopo: capire cosa l'altro si aspettasse da lui. Per non sbagliare. «ho smesso di pulire il sangue dal pavimento per te» e, sebbene il suo tono fosse tremendamente serio, aveva sollevato un angolo della bocca nella cosa più simile a un sorriso che fosse capace di fare.
    [verse 1]
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    non scrivo da........ un anno? E non so più come si fa, quindi scusa smarti, è andata così I DID MY BEST :perv2:
     
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    «solo una» E quello bastò a far increspare le sopracciglia del Crane Winston, che rivolse un'occhiata di sottecchi a Godric. Ne avrebbe preferito cento o mille, rispetto a solo una. Significava che sarebbe stata specifica, studiata; che non gli sarebbe piaciuta, probabilmente, ed a cui avrebbe dovuto rispondere comunque, perchè non c'erano altri quesiti su cui perdere tempo dando loro più importanza di quanta ne avessero. Non diede segno di quanto l'attesa lo innervosisse, spostando pigro le iridi scure sulla strada di fronte a sè.
    Non dico che aspettasse le prime strisce pedonali a disposizione nella speranza che un autovettura non lo vedesse e lo investisse, ma non lo nego neanche.
    «perché mi hai chiesto di venire?»
    Godric....fottuto Osborne, ma da che parte stai. Chiuse brevemente gli occhi, incerto su quale fosse l'emozione predominante nelle iridi cerulee ma sicuro di non volerla condividere con il suo interlocutore, proseguendo a camminare come se stessero parlando d'affari o del tempo o non parlando affatto. Vorrei dire che pensò, in quei lunghi istanti di silenzio; che tentò di formulare fra sè una frase coerente e sensata che racchiudesse il motivo pur senza dirlo esplicitamente, una spiegazione che potesse soddisfare la malsana, sadica, curiosità dell'ex Corvonero, ma non sarebbe stato vero. Stava valutando o meno quanto valesse la pena rispondere.
    Perchè Jack Daniels -
    - Hyde Joyce Crane Winston -
    non diceva un cazzo a nessuno. Non era tipo da spiegare i perchè, o i per come, delle proprie scelte. Non era una questione di mancanza d'interesse, quanto di costante, imperturbabile, sfida. Dovevano essere loro, a capire; loro, a decidere - e forse, in un secondo momento, si sarebbe sentito abbastanza magnanimo da dir loro se avessero o meno ragione. Raramente la avevano; molto più spesso, non c'era neanche nulla da mettere in discussione, ma quello era un altro discorso. Se dovevano chiederlo, si diceva, non sono meritevoli di saperlo.
    Detto fra noi: Hyde era la peggior specie di vigliacco narcisista che ci fosse in circolazione; fingiamo tutti insieme di non esserne a conoscenza.
    «ho smesso di pulire il sangue dal pavimento per te»
    Si fermò, rallentando l'andatura fino a trovarsi immobile al centro del marciapiede con una naturalezza tale da far sembrare che quello, fosse il punto di ritrovo - che lì, dovessero arrivare. Aspirò dalla sigaretta, schiacciando il fumo fra lingua e palato, soffiandolo poi verso l'alto.
    Prese tempo.
    E non ricambiò quella parvenza di sorriso, quello storico riflesso negli occhi chiari dell'Osborne, perchè - perchè. Perchè era già in un equilibrio friabile, ed ogni occasione era la miglior occasione per scegliere da che parte cadere. Perchè qualcuno doveva dirlo; non era sempre geloso delle proprie opinioni, era solo selettivo. «non hai mai fatto niente per me» scandì, spostando la propria attenzione sul moro, un sopracciglio appena sollevato a sfidarlo a dire il contrario. «non è quel tipo di festa» aggiunse, più debolmente, spostando lo sguardo sulle nuvole londinesi. C'era rammarico, nel suo tono di voce? Forse. Sì, sicuramente sì.
    Non necessariamente reale, però.
    Perchè mi hai chiesto di venire?
    Perchè se doveva soffrire Hyde, era giusto che soffrisse anche lui.
    Perchè voleva dimostrare (a chi? se stesso? chelsey?) di essere umano, talvolta.
    Perchè lui avrebbe capito.
    Perchè
    Perchè
    «perchè potevo farlo.» Un sorriso che non ci credette abbastanza a vibrare sulle labbra sottili. REVERSE CARD! «perchè hai accettato?»
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    «non hai mai fatto niente per me» Su questo, Godric avrebbe avuto parecchio da ridire. Invero, l'Osborne non era tipo da elargire favori per semplice altruismo, ed era raro che facesse qualcosa per il puro piacere di farlo. Talmente raro che, quando accadeva, era quasi automatico per gli altri chiedersi dove stesse la fregatura.
    Di solito, però, non c'era.
    A dispetto delle apparenze, Godric non era una persona complessa. I suoi ragionamenti erano tanto basilari quanto orientate dalla logica. Le sue azioni, guidate da un preciso quanto inattaccabile sistema di causa-effetto.
    Voleva bene ai Golden, quindi faceva delle cose per loro. A volte guidato dalla volontà di proteggerli, a volte per vederli felici, altre soltanto perché gli andava di farlo. Non si sentiva in colpa per questo: era giusto coltivare delle amicizie. L'uomo, quale animale sociale, aveva la necessità intrinseca di coltivare relazioni e, per quanto strano, si dà il caso che Godric appartenesse proprio alla suddetta categoria.
    Umano.
    Di tanto in tanto persino lui stentava a crederci, eppure.
    In ogni caso, era allo stesso modo che funzionava il suo rapporto con Hyde. Al Ministero, faceva ciò che l'altro gli chiedeva di fare perché era il suo superiore. Quando si rifiutava di dargli retta, era soltanto perché riteneva fosse più sensato agire diversamente - e perché trovava un certo gusto nel cogliere quel rapido lampo d'irritazione nel viso del Winston, ma questa non era una cosa a cui Godric si era mai concesso di pensare apertamente -.
    Al di fuori dei loro ruoli di Pavor e Capo del Consiglio, invece, tendenzialmente non c'era niente.
    Era un tacito accordo il loro: limitare le interazioni al contesto lavorativo. Se non altro, era un ottimo modo per tenere a bada quella cosa, qualunque cosa fosse, a cui nessuno dei due aveva voluto dare un nome.
    Si erano baciati una volta, e andava bene così. Nessuno dei due si era aspettato per il giorno dopo un invito al cinema, o una cena galante. Non erano quei tipi di persone, non... non era così che funzionavano.
    Già quel minimo contatto era quanto di più estremo Godric avesse mai sperimentato con qualcuno. E no, non contavano certo tutte le volte in cui Fake gli aveva messo le mani addosso: sapeva ancora cogliere la differenza tra repulsione e piacere.
    Perciò, sì, Godric non aveva mai fatto niente di esplicito per Hyde. Non certo un mazzo di fiori o chissà quale altro gesto convenzionalmente attribuito al corteggiamento. Questo, però, non significava che non avesse fatto niente, a meno che niente significasse trovarsi lì contro ogni sua logica o previsione, e con intendeva nel bel mezzo del marciapiede, affianco ad Hyde Winston, senza avere la più pallida idea di dove stessero andando.
    Non c'era una sola buona ragione per seguirlo, non si trattava di lavoro e avrebbe potuto semplicemente rispondere no, grazie all'invito del maggiore.
    Non aveva mai fatto niente per Hyde. Nient'altro che concedergli, se non il proprio cuore, almeno la propria fiducia.
    Comunque, non intendeva certo farglielo notare, perciò rimase impassibile alla sottile provocazione dell'altro. «meglio così» si limitò invece a rispondere, indeciso se sentirsi deluso o sollevato all'idea che stessero per andare a una festa senza alcun intento omicida.
    S'infilò le mani nelle tasche del cappotto in attesa di rimettersi in marcia, ormai convinto che l'altro non gli avrebbe mai concesso una vera risposta e che la questione si fosse definitivamente conclusa lì.
    «perchè potevo farlo.»
    Rimase immobile a fissarlo, catalogando mentalmente tutti i possibili sottintesi celati sotto quelle tre semplici parole.
    Al contrario di Godric, il Winston era più che complesso. Agli occhi dell'Osborne, Hyde era un'enigma di impossibile risoluzione. La sola persona nel pianeta a non risultargli scontata o prevedibile, l'unica che non fosse in grado di capire e, al contempo, l'unica che capisse realmente alla perfezione.
    Perciò non si stupì nel sentirgli chiedere «perchè hai accettato?»,rigirando la domanda a suo favore. Era esattamente ciò che avrebbe fatto al suo posto.
    Avrebbe voluto alzare gli occhi al cielo per la frustrazione, invece si ritrovò a ricambiare il sorriso dell'altro come se ci fosse qualcosa di divertente in ciò che aveva appena detto. E in effetti c'era, ma si trattava di una battuta chiara soltanto a loro due.
    Perché aveva accettato?
    Avrebbe potuto aggirare la domanda esattamente come aveva fatto Hyde. Poteva tagliar corto ed evitare di esporsi più di quanto non avesse già fatto in precedenza con lui. Il punto era: a che scopo? Non era servito a niente evitare il problema, fingere che non esistesse o convincersi di provare per l'altro la stessa cieca indifferenza che provava verso il resto del mondo.
    Si era concesso poche eccezioni nella vita, ed aveva giurato a sé stesso che non ce ne sarebbero state altre. Era evidente che avesse fallito, e negarlo non avrebbe cancellato l'errore in alcun modo. Aveva l'impressione che fosse ormai troppo tardi per rimediare.
    Perciò, senza scomporsi, disse soltanto «perché volevo farlo» ponendo una lieve enfasi su quel volevo.
    Restò a guardarlo ancora per qualche istante, ignorando il fastidio per la sigaretta dell'altro ancora accesa. Aveva persino dimenticato che ci fosse.
    «una tragedia» si ritrovò a mormorare, riprendendo le stesse parole con cui una volta l'altro lo aveva definito.
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    Hyde odiava non avere nulla da dire. Con quanto poco parlava, si poteva presumere - erroneamente - che non avesse mai molto da dire, ma non era così: tendeva a selezionare, e dissezionare, e strizzare le parole soppesandole dense fra palato e denti, ma aveva sempre uno spicchio di risposta sulla punta della lingua. Affilata, di solito. Pronta a scoccare come una freccia e conficcarsi laddove facesse un po’ più male, perché le reazioni erano ciò che al Crane Winston avevano sempre spiegato il mondo e le persone. Era difficile capirne i comportamenti e le attitudini, se non decretava lui lo schema di lavoro entro cui paragonarli. Creava il sistema. Capiva i giocatori. Se avevi tempo e pazienza, l’universo era solo una fottuta scacchiera che volesse essere capita e compresa. Tradotta. Assemblata a piacimento.
    «perché volevo farlo»
    Per quello, invece, non aveva nulla da aggiungere. Non c’era del trattenuto nella bocca del Winston, dei quesiti che demandassero risposta. Non c’era nulla di concreto e tangibile fra i fili di fumo arrotolati sulla lingua, soffiati verso un cemento sordo e altrettanto silente. Nulla a cui aggrapparsi per scrollarsi di dosso il peso di quella semplice constatazione. Forse qualcosa ci sarebbe stato, se avesse avuto più cuore che raziocinio. Forse gli avrebbe confermato che sì, fosse una cazzo di tragedia, invece di sorridere come se quella fosse la battuta più esilarante del secolo.
    Hyde non aveva posto nella sua vita per Godric Osborne. Jack Daniels neanche, perché lui esisteva solo per il lavoro, la scrivania ad attenderlo al ministero con problemi su problemi di cui non poteva fottergli un cazzo di meno. Entrambi avevano uno scopo in cui non sapeva come infilare l’altro – se potesse farlo.
    Se volesse.
    Quello era il suo tentativo. L’invito, lo sguardo abbassato pensoso sui piedi, l’ombra del sorriso a curvare le labbra.
    Non sapeva quanto sarebbe durato, quello spazio scavato con unghie e denti. Sapeva, però, che non potesse promettere più di un domani, perché la vita di Hyde non era davvero solo sua. Non lo era mai stata. E, malgrado mai l’avrebbe ammesso, non era neanche certo di volerlo, troppo dipendente dall’essere quello indipendente per potersi reclamare isola e tagliare tutti i ponti. «è una cena intima» corrugò le sopracciglia, ricordando tutti i tagli che aveva dovuto fare sulla lista d’invitati della Weasley. Nice e Bertie, secondo la sua non troppo modesta opinione, erano già due invitati di troppo, ad esempio.
    L’aveva fatto notare. Con entrambi i vigilanti presenti. Caso mai la sua ospitalità fosse stata fraintesa come qualcosa di più. «intima per gli standard della weasley» corresse. Stiamo ancora – io e Hyde – cercando compromessi per evitare che inviti venti persone, perché non le vogliamo, ma è ancora tutto troppo astratto. Forse anche Hyde, alla fine, non vuole davvero saperlo.
    «ti faranno delle domande» lo osservò di sottecchi. «scomode. E cercheranno in tutti i modi di metterti a disagio» che guardando Godric poteva sembrare impossibile, ma nulla lo era quando ti chiamavi Chelsey. O Jekyll. «non possiamo ucciderli» ripetè, la lingua a saettare sull’arcata superiore dei denti. «perchè non voglio.» di nuovo, era semplicemente così, e per quanto gli costasse ammetterlo ad alta voce, più semplice farlo con l’Osborne che con i diretti interessati.
    «non ho mai portato nessuno a casa» puntellò la lingua sulla guancia, fermandosi nuovamente per guardare l’altro. Poteva farlo suonare meno kinky, ma precisare l’avrebbe solo reso più promiscuo, e – a quale pro? Sapevano entrambi che tanto valesse per qualunque campo si volesse intendere. «vivo» specificò, forse qualche morto c’era scappato.

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    Godric restò in silenzio, in attesa. Per quanto odiasse trovarsi in una posizione di così evidente svantaggio era ovvio che, ancora una volta, fosse il Crane-Winston ad avere il controllo della situazione. Gli aveva chiesto lui di seguirlo, sapeva soltanto lui cosa aspettarsi dalla loro imminente destinazione. Come ormai sempre più spesso accadeva, Godric non aveva altra scelta che fidarsi di Hyde. Non Jack Daniels. Solo Hyde.
    Non gli aveva mai chiesto perché, quella volta all'Amortentia, si fosse presentato come Hyde Joyce. Non aveva mai indagato su di lui o sulla sua famiglia, perché si era presto reso conto di non averne bisogno. Forse un giorno sarebbe stato lui stesso a parlargliene. Forse non lo avrebbe mai fatto. La loro complicità non aveva mai richiesto alcuna prova di lealtà, nessuna spiegazione complessa. Erano lì, l'uno di fronte all'altro, separati da un silenzio che non infastidiva nessuno dei due. Restava sospeso fra loro, ad aleggiare portandosi dietro il peso di una condizione per cui avevano ormai smesso di fare domande, smorzato da quel leggero sorriso sulle labbra di Hyde, così simile a quello a illuminare il viso di Godric. E, in un modo che nessuno dei due era in grado di comprendere, bastava.
    Non sapeva, tuttavia, per quanto tempo lo avrebbe fatto. Non con lo spettro di Jack ancora vivo nelle lettere di Dante. Non con il peso della responsabilità lasciatogli da Deemer. Non con Urijah Crawford da gestire. Non con Sharyn Winston da mantenere in silenzio. Erano tutti tasselli dalla sua vita incapaci d'incastrarsi con coerenza, pesi che Godric portava sulle spalle come ordigni pronti a esplodere da un momento all'altro. Quale posto occupava Hyde in tutto quello? Quale influenza aveva sulle sue scelte? Come avrebbe reagito, se avesse saputo dei fes?
    Ecco perché stavano bene così, ognuno coi propri segreti. Ed ecco perché quell'invito stonava in quell'equilibrio che prevedeva il tenersi sempre a debita distanza.
    Avrebbe dovuto voltargli le spalle e andarsene, ricordargli quali fossero le loro rispettive posizioni. Sapeva però che non l'avrebbe fatto, incapace com'era di sottrarsi al piacere che quello sconfinare reciproco non faceva che procurargli. Non lo aveva fatto neppure quando le labbra di Hyde si erano posate sulle sue. Non avrebbe certo cominciato adesso.
    «è una cena intima» annuì, riportando le iridi chiare sul volto del Crane-Winston, studiandone ogni micro-espressione con avida curiosità. Non chiedeva mai niente Godric, ma non per questo avrebbe smesso di prendere tutto ciò che l'altro fosse stato disposto a concedergli. «intima per gli standard della weasley» oh, e conosceva Chelsey. Almeno, aveva visto di cosa fosse capace ai tempi di Hogwarts. Erano passati anni da allora, ed entrambi erano sicuramente cambiati, ma non ne erano passati così tanti da giustificare un cambiamento drastico rispetto al ricordo che Godric aveva di lei. Perché Hyde avesse a che fare con Chelsey Weasley era qualcosa che Godric non era ancora riuscito a spiegarsi, ma d'altronde neppure il suo legame con Ryu o Fake pareva avere alcun senso, eppure.
    «ti faranno delle domande scomode. E cercheranno in tutti i modi di metterti a disagio» l'Osborne si ritrovò a sollevare un sopracciglio. C'erano davvero poche cose in grado di metterlo a disagio, non dopo anni passati assieme ai Golden. Se Hyde aveva ritenuto giusto avvisarlo, forse era il caso di preoccuparsi, o forse non aveva ancora del tutto compreso chi avesse davanti. In ogni caso «sembra interessante». Almeno era chiaro che non si sarebbero annoiati.
    «non possiamo ucciderli» questo Godric non lo aveva neppure preso in considerazione, il che era strano – voglio dire, di solito lo faceva sempre. Aveva sospettato sin dal principio, però, che quella festa per Hyde fosse importante. Che quelle persone lo fossero. C'erano tante cose di Hyde che non sapeva ancora, ma aveva imparato a riconoscere dal tono della sua voce, dalla sua postura e dalle sue parole quando qualcosa rappresentava per lui più di una banale seccatura. «perchè non voglio.» annuì ancora. Lo capiva e, in parte, era sollevato dall'idea che entrambi condividessero il fardello del voler bene a qualcuno di così diverso. Lo faceva sembrare meno difficile.
    Se tutto, fino a quel momento, gli era sembrato per lo meno prevedibile, a coglierlo di sorpresa fu quel «non ho mai portato nessuno a casa». Non avrebbe dovuto stupirsi, non quand'era ovvio che nessuno dei due fosse stato un grande fan delle relazioni fino a quel momento - e non che adesso le cose andassero chissà quanto meglio. Ciononostante, sentirselo dire era un'altra cosa. Per qualche ragione a cui Godric preferiva non pensare, lo faceva sentire speciale. Il che era del tutto stupido e inappropriato. «vivo» ringraziò mentalmente l'altro per la precisazione, perché senza avrebbe trovato difficile trovare un appiglio per formulare una risposta decente.
    «allora immagino che dovrai uccidermi» inclinò la testa da un lato, umettandosi le labbra con la lingua per impedirsi di sorridere ancora. Dovevano seriamente smetterla di abbassare la guardia così di frequente. Dov'era finita la sua statuaria impassibilità? Si passò una mano fra i ricci scuri, lasciandosi andare a un sospiro frustrato. Quant'era difficile essere Godric Osborne.
    «non posso prometterti niente» disse alla fine, arricciando le labbra in una smorfia pensierosa «ma, per quel che vale, farò il possibile perché tu non debba pentirti di avermi chiesto di venire» e questo era l'unico modo che aveva per dirgli 'grazie', per dimostrargli quanto quell'invito fosse importante.
    «giusto per saperlo, sanno che ci sarò anch'io?» aveva detto niente domande, ma gli sembrava doveroso chiederlo. Dal canto suo, se mai avesse portato Hyde dai Golden, avrebbe dovuto prepararli mesi a quell'incontro prima per ridurre al minimo la loro energia molesta. E neanche quello sarebbe bastato. «o stiamo andando dritti nella fossa dei leoni?» non che avrebbe cambiato qualcosa, ma forse era meglio partire con un certo vantaggio.
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    «allora immagino che dovrai uccidermi»
    Hyde non sorrise. Un barlume di qualcosa nello sguardo ceruleo, rimpianto o tristezza o entrambe e nessuna, passò troppo rapido perché potesse essere riconosciuto. «ci ho pensato» solo un bisbiglio, ma Hyde Joyce Crane Winston non aveva mai avuto bisogno di alzare la voce per farsi sentire. Non era un segreto, quello lì, anche se l’aveva stretto fra le labbra come tale: era un ammissione di colpe. Un armistizio concesso stritolando i denti e conficcando le unghie nei palmi.
    La soluzione semplice e pragmatica che l’avrebbe tolto dall’inghippo di cercare - di volere - alternative. Un soffio distaccato ma sincero, gli occhi a sollevarsi appena per cercare quelli di Godric, perché Hyde ancora non era certo che l’Osborne avesse capito con chi avesse a che fare.
    Che potesse farlo. In qualunque momento. Che stesse scegliendo, ogni istante, di non farlo, e non fosse necessariamente da interpretare come una lusinga o un complimento. La compagnia del CW era quella di un animale selvatico che si mostrasse disinteressato ad affondare i denti: non rendeva impossibile che potesse farlo. «non posso prometterti niente, ma, per quel che vale, farò il possibile perché tu non debba pentirti di avermi chiesto di venire» Non ricordava più come si facesse a ridere, ma se ne avesse avuto memoria, quello sarebbe stato il momento adatto per mostrarlo. «non è di te che mi preoccupo» mugugnò, la voce a vibrare di scettico divertimento. Era per lui, che si preoccupava – e per se stesso. Sempre, per se stesso. Non era una questione di se, ma di quando: era perfettamente consapevole che sarebbe arrivato il momento in cui si sarebbe pentito di averlo invitato, ma sapeva anche che non sarebbe dipeso da Godric. Soffiò il fumo fra i denti, continuando a far strada verso l’appartamento che condivideva con più persone di quante avrebbe desiderato (sempre considerando che più persone includevano chiunque non fosse lui; grazie per essere venuti a questa chiacchierata). Non abitava lontano, solo abbastanza da poter avere quella conversazione prima dell’inizio dell’apocalisse.
    «giusto per saperlo, sanno che ci sarò anch'io? o stiamo andando dritti nella fossa dei leoni?» che domanda sciocca. Tacque una manciata di secondi, il tempo che l’altro comprendesse da sé la risposta, quindi diede comunque voce all’ovvio: «no.» perché non desiderava vivere, Hyde, ma sopravvivere, a quel punto, era necessario, e se avesse detto a Chelsey che avrebbe portato Godric, l’avrebbe indotto al suicidio molto prima del fatidico giorno. Preferiva lo strappo netto del cerotto portandolo a casa come un randagio trovato in fondo alle scale.
    Preferiva non essere solo, quando Chelsey se ne fosse resa conto, così che l’intero fiume delle sue parole ed attenzioni, sarebbe stato condiviso e non un fardello da portare in solitaria. Poteva portarsi il mondo sulle spalle senza battere ciglio, ma Chelsey Weasley era il grammo in più che avrebbe causato l’ernia. «ti disturba?» non si aspettava davvero una risposta, quindi non l’attese.
    Proseguirono il resto del tragitto in silenzio, la sua cosa preferita. Non era imbarazzante, non lo faceva sentire a disagio – non quanto, al contrario, avrebbero fatto le chiacchiere frivole e senza scopo – e l’unico momento in cui si irrigidì, fu quando arrivarono al portone d’entrata.
    Era l’ultima occasione per cambiare idea.
    Spinse la terza sigaretta accesa durante l’itinerario sotto la suola della scarpa. «almeno c’è il whiskey» se n’era assicurato di persona, perché non esisteva che affrontasse quella giornata lucidamente. «quando, e non è un se, inizia ad esagerare, parlale del quidditch o di elwyn, così si distrae. Non sarà divertente,» neanche lui trovava quel genere di statistiche divertenti, ed era tutto dire. «ma almeno puoi spegnerti e lasciarla parlare.» ed avrebbe evitato che diventasse troppo invasiva.
    Ok. Esitò ancora un paio di secondi, labbra umettate e chiavi a tintinnare nel palmo. Lanciò un’ultima occhiata al fu Corvonero, la sua ultima possibilità di scappare, quindi infilò la chiave nella serratura, invitandolo nell’atrio del palazzo.
    Erano ancora nel Purgatorio.
    Salirono le scale. Iniziava a fare caldo e freddo insieme.
    L’inferno.
    Hyde chiuse gli occhi.
    La porta era già aperta.
    Show time.
    La spinse, invitando Godric a entrare per primo.
    Non sorrise alla Weasley, né a nessuno degli invitati. «sorpresa.» ueppa – cit Joey.

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