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@ stadio delle Holyhead Harpies | ft. yale

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    «ok, arpie» affectionate, «piedi a terra, giù dalle scope.» che poi, anche non lo fosse stato, affettuoso intendo (e lo era, pure se certe volte non sembrava), rimaneva pur sempre il loro nome: quindi, insomma.
    E era anche un dato di fatto.
    «acqua.» perché era magnanimo e quell'estate persino il loro paese era stato flagellato dal caldo torrido ― colpa del surriscaldamento globale, eh già, roba seria. (Come lo sapeva? Beh, guardava le dirette Istragram di Penn, era un bravo compagno, lui!) «ok, esercizi di precisione. Bells, dirigi tu.» indicò con un cenno del capo la Dallaire, senza staccare gli occhi dalla cartellina che aveva in mano: la stagione stava per ricominciare e c'erano molte cose che Morley doveva sistemare o rivedere. Avevano preso qualche nuova giocatrice (ciao Haz! Ti contiamo già, mi rakk) e ne avevano cedute altre, quindi la squadra sotto il punto di vista dell'affiatamento doveva ancora ingranare: ma il Peetzah era fiducioso! Poteva non sembrare, ma selezionava le sue giocatrici con grande attenzione.
    (Hazel, ai provini: «non serve il cervello, solo la violenza»
    Bells, seduta accanto ad un Morley entustiasta: «non serve il cervello per giocare a quidditch? piz non la voglio»
    In effetti... «un po' di testa ci vuole, McPherson» non letteralmente come nel suo caso, però. Moderatamente!
    Bells, inamovibile: «piz è così che fallirai la squadra. prendendo tutti questi casi umani senza fare selezione»
    «questa è la selezione.....»
    E andava così, quello scambio, più o meno per ogni giocatrice che la società puntava.
    «fidati! Possiamo lavorarci su!»)
    Era ottimista, il Peetzah. E, soprattutto, era un campione. Non aveva paura di osare, di puntare sui giovani o su personalità effervescenti (per utilizzare un eufemismo) come la nuova riserva ex rosso-oro. E, soprattutto, riponeva molta fiducia nello spogliatoio e sapeva che le sue ragazze avrebbero raddrizzato chiunque: a lui poi il compito di cercare di tirare fuori il potenziale di ciascuna di loro, e sfruttarlo al meglio.
    Nei suoi appunti personali aveva già iniziato a scarabocchiare i primi schemi di gioco da provare, qualche allenamento intensivo da rifilare a quella o quell'altra arpia per migliorare alcuni aspetti, i nomi di un paio di squadre da tenere d'occhio in quella stagione e il suo goal: vincere il campionato. E pure la coppa europea, perché no. E magari fare triplete: era ambizioso, Morley Peetzah. Sognava una stagione d'oro come quella 2020/2021.
    Potevano farcela.
    Chiuse la cartellina, e soffiò a pieni polmoni nel fischietto per richiamare l'attenzione delle sue giocatrici. «per oggi può bastare» erano lì solo da tre ore infondo : ) Indicò gli spogliatoi alle sue spalle e con un sorriso le mandò a rinfrescarsi. C'era un motivo se aveva tagliato corto l'allenamento (che avrebbe voluto spostare al mattino, ma per problemi tecnici il campo non era stato agibile) e quel motivo era: Penn.
    Era sempre lei, il motivo.
    Nello specifico, More le aveva promesso di portarla a cena fuori e aveva persino prenotato un ristorantino esclusivo a Parigi, per quella sera!! Non aveva messo in conto, però, l'intoppo legato alla disponibilità del campo e aveva quasi rischiato di dover disdire tutto.
    Fortunatamente non era successo.
    Dopo aver scambiato il cinque anche con l'ultima arpia, pescò il cellulare dalla tasca, proprio per informare la Hilton che, come da programma, sarebbe passato a prenderla intorno alle 20.30: prima doveva solo aspettare che le giocatrici filassero via una per una, rimettere a posto l'attrezzatura e controllare che lo stadio fosse tutto in regola. Insomma, tutte cose che Piz avrebbe potuto delegare al piccolo Tulipano, ma era così buono l'ex Grifondoro, che aveva concesso a Delìth una settimana in più di ferie per fare.. boh, qualsiasi cosa facessero i giovani per divertirsi in vacanza, non voleva sapere i dettagli.
    Quindi toccava a lui.
    «andiamo signorine, muoversi, o vi chiudo qui dentro» a rischio e pericolo dell'intera struttura, ma okay.

    Quando fu finalmente solo, messe via le palle da allenamento, i cinesini, i birilli per affinare la mira, le mazze rinforzate e le mille cose che avevano utilizzato durante quelle ore (erano peggio di Bang quando tirava fuori tutti i giochi dalla cesta, e poi non li rimetteva a posto.), finalmente anche per lui arrivò il momento di rilassarsi; seduto alla scrivania, nel suo ufficio comodo seppur dalle dimensioni contenute, Piz sorseggiava la centrifuga energizzante. Aveva ancora tempo per chiudere tutto, passare a casa, prepararsi e andare da Penn ― poteva dare giusto un'altra occhiata agli schemi prima di andare via. Una sola, al volissimo.

    E forse non sarebbe stato così al volo, se qualche minuto dopo il rumore della porta principale che veniva aperta e chiusa non lo avesse riportato alla realtà: meglio chiudere tutto prima di rischiare di fare tardi per davvero. E lo avrebbe fatto, ma non prima di chiedere «chi c'è?» senza alzarsi dalla poltrona reclinabile: chiunque fosse non avrebbe tardato a notare l'unica luce accesa sull'interno corridoio, e a trovare la via verso l'ufficio di Piz.
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    Di solito, Yale Hilton non era pericoloso per gli altri. Fastidioso? Spesso, e volontariamente - con anche più di una punta d’orgoglio, a voler essere pignoli – ma per quanto sapesse di poter essere una minaccia, tendeva a scegliere di non esserlo. Il resto della popolazione era già abbastanza sfortunato da non essere lui, quindi perché mettere il dito nella piaga? Le discussioni ed i litigi, a meno che non ne fosse mero spettatore, non gli piacevano, ed aveva vissuto abbastanza da aver reso la propria vena polemica un tratto caratteriale che suonava come ironia, ed allo stesso tempo si posava dolce sulla curva morbida del proprio sorriso. Era l’antitesi dello scontro, il diplomatico per eccellenza.
    Ma.
    Ma.
    Aveva un grande nemico, quello da cui si erano ramificati gran parte dei problemi che lo affliggevano alla veneranda età di ventisette anni, e quel nemico era la noia. L’alcool, la droga, ed il sesso – sì, rientravano tutti e tre come passatempi; era anche abbastanza certo che fossero sul suo CV – non sempre bastavano a riempire tutti gli spazi vuoti che sentiva sotto la propria pelle. Ce n’erano troppi, abbastanza da allagare stanze intere – duravano poco, come pezze di scotch su un rubinetto che perdeva. L’avversario che non poteva battere, che l’aveva guidato verso ogni scelta sbagliata.
    Ne aveva fatte parecchie, di scelte sbagliate, Yale Hilton. Tendeva a non rimpiangerne neanche una, e sapeva non avrebbe rimpianto neanche quella.
    Era successo in fretta.
    Yale: «stasera al wizburger?» Gli piaceva mangiare come i poveri, era un gesto simbolico per sentirsi parte di qualcosa.
    L’ingrata (conosciuta anche come l’infame, la traditrice, la spacca cazziuori; probabilmente l’avete sentita nominare anche come sua cugina Penn): «stasera non posso, esco con piz»
    Tanto era bastato. La noia si era mescolata all’oltraggio, l’oltraggio all’insofferenza, ed il tutto ad una minuscola (enorme) parte di malinconia, perché Penn era cresciuta e Yale non era più la sua persona preferita, e gelosia, perché tutti sembravano andare avanti con le proprie vite e continuare a lasciarselo alle spalle come un gioco che avesse ormai annoiato. Razionalmente, capiva non fosse quello il caso. Ma lo sapeva? Dopo una vita ad aver morso ogni centimetro di spazio che gli fosse stato concesso per allargarlo un po’ di più, un’esistenza di imposizioni della propria persona così che nessuno potesse, neanche volendo, dimenticarsi di lui, era… difficile da interiorizzare, che qualcuno potesse farsi un’altra famiglia e continuare a volercelo dentro.
    D’altronde, non l’aveva mai fatto nessuno. Il sangue del suo sangue fingeva Yale non esistesse un giorno sì e l’altro pure. Aveva imparato a trovarlo divertente, anziché mortificante, ma non era la stessa cosa, con Penn. All’Hilton raramente fotteva un cazzo di qualcuno, ma lei era una sorella, e l’unica cosa buona e pura che ancora lo tenesse ancorato ad una realtà semi sana. Ho già detto una delle poche persone che ci tenesse a lui, che si fidasse di lui, e che non avesse mai chiesto i ‘perché’ ma solo i ‘cosa posso fare per aiutarti’? Perchè, oh, quelle sì che erano rare (= solo Shiloh, la quale però aveva la tendenza ad abbandonarlo in solitaria per mesi, quindi insomma, fuck you Shiloh).
    Il succo era che Morley Peetzah gli stava rovinando la vita, e Yale non lo diceva di tante persone. Odiare sembrava… complesso, e non quella la circostanza adatta in cui applicare un sentimento così importante, ma ci andava maledettamente vicino. Gli era mai piaciuto? No, il che era strange forte visto che a Yale piacevano tutti (sì, perfino quel cosino che si era portato dietro tutta l’estate, TURITO! Bello de sugar mama, poi più erano casi umani più li adorava) ma era stata un’intolleranza pacifica per molti, molti anni. Perfino divertente, a suo modo.
    Poi aveva deciso di COPULARE CON SUA CUGINA! ANDARE IN COMA? E RIAPPARIRE NELLA VITA DI PENN COME PADRE DEL BAMBINO. UGH. Il suo bellissimo nipotino...rovinato per sempre da una genetica che non poteva cambiare… scandalo a corte. Slealtà fra i ranghi. Il suo unico nipote preferito. Poteva superarlo, se solo… se solo! Sua cugina non fosse stata così FOLLE E MISCREDENTE DA INVAGHIRSI! DI NUOVO! DI PIZZAIOLO. Cioè……. Non solo era povero (chi non lo era, rispetto agli Hilton?), non solo era seducente come il grembiule pezzato di Rosario, era pure brutto. Possiamo parlarne?? Non era un dettaglio insignificante, agli occhi di Yale. Sembrava uscito direttamente dal paleolitico, e Piz doveva – doveva! - sapere di essere un neanderthal, altrimenti perché, fra tutti i ruoli del Quidditch, scegliere quello con la clava? Era lì, sotto lo sguardo di tutti, quella somiglianza incancellabile. Era canon. Erano la stessa immagine. PENN… LA SUA FAVOLOSA! INTELLIGENTISSIMA! GNOCCHISSIMA! CUGINA!
    Non poteva andare avanti. Non poteva e basta.
    Magari Penny avrebbe pianto qualche lacrimuccia e mangiato un po’ di gelato, ma quella storia doveva finire - sperava nel migliore dei modi, altrimenti avrebbe dovuto trovarsi un sicario per ucciderlo. Poteva chiedere a Dave, ma per puro principio sapeva che l’altro non l’avrebbe fatto.
    Vabbè allora a che cazzo servi nella vita pure tu – ma quello era un altro discorso.
    Quindi, in tutto ciò.
    Dovevano pensarci gli adulti, risolvendola come i grandi.
    «chi c'è?»
    Clic. Clic. Clic. Il rumore dei tacchi nel corridoio degli spogliatoi (era felice fosse una squadra totalmente al femminile, almeno l’unico olezzo era quello delle calze; amava il cazzo, meno la puzza del sudore di un qualsiasi uomo dopo l’adolescenza – chi lo trovava sensuale, mentiva) era quasi ipnotico, e Yale si distrasse guardandosi pigramente attorno. Quidditch… mah. Forse lo sport più anti sesso che esistesse, e ricordo al pubblico in sfortunata lettura, che esisteva il polo. Non ci poteva pensare che Penn Hilton aveva guardato Piz in faccia e aveva detto <d>dang, i’ll bang him non ironicamente (e pure con pun intended, ciao nipote), e lo diceva uno un po’ ninfomane. Nella propria vita aveva immaginato di farsi davvero chiunque (perfino Alister, anche se erano cugini? sì) ma mai Morley Peetzah. Passò la lingua sulle labbra laccate di rosa pallido, alzando gli occhi al cielo ed evitandosi il tuo incubo peggiore che sentiva premere sulla lingua. Visto? Che uomo maturo. Meraviglioso. Mio Dio quanto si amava. Una volta aveva fatto sesso con uno special con la metamorfosi (i won’t elaborate, perché so che lo farete per me) ed era stato bellissimo. Fece capolino davanti alla porta aperta di Piz.
    «ding dong» gli sorrise, perché era eccezionale in tutto, ma fingere era sempre stato un altro livello. Per un breve istante, prima di ricordarsi perché – ma soprattutto per chi - fosse lì, aveva valutato di entrare in full mode Yale Hilton e calarsi in un gioco di ruolo dai risvolti sessuali. Una fortuna che la faccia di Piz bastsse ad ammosciare qualunque tipo di erezione. Non che in quel momento avesse un pene, ma la sua vagino-erezione era a posto così – secca come il Sahara. «ti disturbo?» Spoiler: non sapeva quanto.
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    Attese con pazienza che, chiunque fosse, si palesasse alla sua porta, tamburellando con la penna sui fogli pieni di appunti e lasciandosi trasportare dalle ipotesi su chi potesse essere: una delle ragazze che aveva dimenticato qualcosa negli spogliatoi? Qualche inserviente che finiva di sistemare? La sicurezza che faceva il giro di ronda? Penn che andava a trovarlo — aspetta un attimo.
    «Penn?!» c'era innegabile affetto nella sua voce, e un pizzico di stupore. «Cosa ci fai qui?» Gettò uno sguardo all'orologio che teneva al polso, assicurandosi di non aver inavvertitamente perso più tempo del previsto, e di aver così mancato l'appuntamento. «Hai finito prima?» era quasi certo che avesse qualcosa da fare anche lei, un evento pubblico o un'intervista, non era proprio sicuro; era bravo a ricordare tutti i suoi impegni, un po' meno a tenere a mente quelli altrui. Le sorrise, facendole segno di entrare e alzandosi dalla sedia per andarle incontro.
    «ti disturbo?» «Mai.» poteva sembrare una risposta pronta, scontata, ma Penn avrebbe saputo che era la verità: Morley aveva sempre tempo per lei, e se non lo avesse avuto avrebbe trovato il modo per crearselo. Il sorriso sulle labbra dell'allenatore si allargò, illuminando anche lo sguardo azzurro. Le posò le mani sui fianchi e la avvicinò a sé per darle un bacio sulle labbra tinte di rosa. (Ma ti diamo la possibile di tirartene fuori, merdina di uno Yale.)
    «Non sono ancora pronto, ma ci metto pochissimo se vuoi attendere, oppure» e così dicendo fece per avvicinarla un po' di più, cercando di far aderire i loro corpi ormai molto più che familiari l'un per l'altra, «possiamo fare tardi per una buona ragione Prima o poi i gemelli dovevano nascere, no? (Cosa?Cosa.)
    Non che Piz (sapesse di Willow e Gaylord.) avesse fretta di mettere al mondo un altro mini Carbs, si stava ancora abituando a fare il padre di Bangkok, a voler dire la verità.
    Ad ogni modo, non si mostrò troppo insistente poiché (temeva) sapeva che la cena a Parigi rischiava di vincere contro la sua proposta e non voleva sentirsi troppo ferito nell'orgoglio quando sarebbe successo; la lasciò cadere così, una proposta seria ma non troppo, folle perché erano pur sempre nel suo ufficio, sul suo posto di lavoro, e proprio per questo fin troppo invitante.
    Ma conosceva Penn, e con ogni probabilità avrebbe educatamente declinato l'offerta — rilanciando con qualcosa di più stuzzicante post cena. A Piz non dispiaceva quell'elemento.
    Era raro che Penn andasse a trovarlo allo stadio quando non c'erano partite, o fuori dall'orario di allenamento, un po' perché non era un'amante di quello sport (Piz era fermamente convinto fosse lui l'unico motivo che spingeva la Hilton fin sugli spalti — lui, e i rinfreschi nell'area VIP.) e perché, per policy di coppia evitavano di piombare l'uno sul posto di lavoro dell'altra senza un preavviso o un buon motivo. Non che gli dispiacesse averla lì, specialmente se soli soletti, ma era comunque strano vederla da quelle parti.
    Piz, essendo Piz, non indagò troppo: era già stupidamente felice così.
    Non ricordava il momento preciso in cui nessun legame si era trasformato in hashtag carbs; erano diventati ufficialmente una coppia durante l'inverno precedente ma agli occhi dei tabloids lo erano sempre stati e da qualche tempo a quella parte Morley aveva iniziato a sentire che anche per lui, alla fine, valeva la stessa cosa.
    Era dannatamente orgoglioso di avere una donna speciale come Philadelphia Sutton Maribel Soledad Hilton al suo fianco, e non aveva più paura di ammetterlo.
    Ma era anche così accecato dai suoi sentimenti che non si accorgeva di essere (biondo) facile preda per i con artist da due spicci....
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    Rimpiangeva già tutto.
    Raramente le idee di Yale erano buone idee, ma quella, forse, le superava tutte. Era bravo a fingere? Sì, e mantenne il sorriso delicato e complice anche quando il volto del Peetzah si illuminò di stupore e affetto, ma a quale prezzo. Parte della sua anima lasciò il corpo in cerca di lidi migliori, lasciandolo un po’ più vuoto di quando era entrato. «Cosa ci fai qui?» Iniziava a chiederselo anche lui. Non aveva ripensamenti morali, non era una così brava persona, ma qualcosa lo provava comunque: senso. Essere guardato … in quel modo da Morley Peetzah lo metteva più a disagio di quanto aveva immaginato, per una serie di motivi che avevano solo in parte a che fare con l’allenatore di Quidditch (certo era che quel faccione a luna piena non aiutava. Ugh). «una sorpresa» si strinse appena nelle spalle, avanzando di un passo all’interno dell’ufficio. Si fermò quando l’altro si alzò e fece il giro della scrivania, shentendo che stesse per accadere qualcosa che , aveva messo in conto, ma per cui avrebbe dovuto essere molto più ubriaco di quanto non fosse per poterlo razionalmente accettare.
    Troppo vicino.
    (Penn ma quanto sei bassa. Doveva reclinare!! il capo!! all’indietro!!! per guardarlo!!! Beh che preferiva non farlo, però.)
    Le mani – grandi. Oddio. Ma era tutto così grande dal pov di sua cugina. NON VOLEVA PENSARE A QUELLO CHE STAVA PENSANDO, ma ci stava pensando, ed una scintilla di curiosità animò lo sguardo della Hilton; forse era per quello che More le piaceva tanto – sui suo fianchi.
    Newhaven aveva imparato a fingere prima ancora di sapere cosa significasse farlo, naturale come respirare o piangere dopo una caduta, e malgrado tutto nel suo corpo gli suggerisse di irrigidirsi ed andarsene, rimase rilassato ed a proprio agio, chiudendo gli occhi forte forte per non dover assistere all’inevitabile.
    Stava succedendo. Eh vabbè dai. Aveva baciato gente per molto meno che non Il Bene Superiore.
    Lasciò che Piz lo baciasse, oh così tenero, e riuscì perfino a sollevare una mano e posarla sulla spalla dell’altro senza spingerlo via. Gli sorrise, languido e soddisfatto, percependo il nascere di un impulso auto distruttivo ma letale sulla punta della lingua. Perchè… perchè. Poteva essere banale, fargli una scenata e causare un minor inconvenient nei carbs che avrebbero facilmente potuto superare, oppure avrebbe potuto seminare il dubbio nello sguardo fiducioso di Morley Peetzah, e macchiare ogni futuro gesto d’amore o parola gentile di sospetto.
    Penn non l’avrebbe presa bene.
    Però! Sarebbe sopravvissuta!
    «Non sono ancora pronto, ma ci metto pochissimo se vuoi attendere, oppure»
    Stava pensando qualcosa che mai nella vita avrebbe creduto di pensare. Lui, ch’era sempre stato libertino ed un po’ ninfomane, il cui sesso – insieme alla droga, ed altri bad habits che non siamo qui a discutere – era stato il copy mechanism che gli aveva permesso di giungere alla veneranda età di vent’anni e qualcosa perchè sara non sa contare, davvero NON VOLEVA (non voleva) sentire l’erezione del neanderthal sul suo ventre piatto. In parte trovava lusinghiero che fosse così felice di vedere sua cugina – d’altronde, chi non lo sarebbe stato – ma dall’altra, YIKES. «possiamo fare tardi per una buona ragione.» No, beh. Non aveva molti limiti, ma su quello lo imponeva. Lo intrigava possedere una vagina, l’avrebbe volentieri testata sul campo, ma a) non con il corpo di Penn; sapeva di incesto e b) non facendosi penetrare da MORLEY PEETZAH. EDDAI. AVEVA DEGLI STANDARD! Nulla di quei pensieri apparvero sul viso di Penn, le cui labbra si aprirono in un sorriso estenuato ma (ughh.) felice, una risata bassa ed un pugno, forse un poco più intenso di quanto avrebbe fatto la vera Penn, sugli infiniti bicipiti montagna dell’Arpia Maggiore. «per quanto sia tentata... no» Infilò le dita nei passanti dei jeans (pantaloni. Cos’hai. Ci basta sapere che non sei nudo.) di Piz, tenendolo comunque premuto contro di sé.
    Poteva farcela. «dopo» promise, e sincero. Sapeva che, purtroppo, sarebbe successo, ma fortunatamente per Yale, con la vera Penn Hilton. Una vittoria per tutti! Però.
    Però.
    Si prese qualche secondo di riflessione, cercando di capire come volesse agire.
    Sapeva cosa volesse fare. Ma VOLEVA davvero? Eh. Mh.
    Ok. Nascose lo sguardo all’altro con la banale scusa di lasciargli un bacio ovunque la bocca di Penn arrivasse, speriamo abbastanza in alto da non essere nulla di sconcio (.), confidando che valesse come bacio sul kwore o qualunque cosa facessero le coppie funzionali. Can’t relate.
    Inspirò.
    (Piz… baby… puzzi.)
    Espirò.
    Inspirò nuovamente, prendendo Coraggio TM.
    «...magari un pochino. Siamo in anticipo, no?» allacciò le mani dietro la nuca del Neandarthal, sorridendo come se quella facciazza enorme fosse la cosa più bella che avesse mai visto, e tutto quello che volesse nella sua vita. DAI. VIECCE PIZ. POMICIAMI TUTTO. USA LA LINGUA. I’LL LEAVE YOU SCARRED FOR LIFE & that’s my plan.
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    Anche se cercò di non darlo a vedere, l’esitazione, seppur contenuta, della Hilton e il suo «per quanto sia tentata... no» avevano colpito un po’ troppo vicino casa; non negava, Piz, che l’idea di appannare i vetri degli spogliatoi delle Arpie godendosi la compagnia della minore lo allettasse, o che non ci avesse pensato più volte del dovuto. Ma sapeva essere un uomo maturo, quando voleva.
    (E se non lo era mai era perché non volesse, ciao haters.)
    «...magari un pochino. Siamo in anticipo, no?» lo erano? in realtà forse no, non lo sapeva: aveva perso la cognizione del tempo. Penn gli faceva anche quell’effetto. «Al massimo possiamo avvisare del ritardo, dicendogli che abbiamo avuto un contrattempo...» e ricambiò il sorriso dell’altra, felice come un bambino la mattina di Natale.
    La cinse per i fianchi, una presa più decisa rispetto a quella della ragazza, e l’avvicinò di più a sé. Che fosse felice di vederla non si capiva solo dalla sua espressione ebete (ciao Yale, scusa di niente.).
    Non perse altro tempo, e posò le labbra carnose su quelle di lei, in un bacio dapprima contenuto e poi sempre più sentito, più con tanto di lingua a premere contro labbra, e denti, e quella frenesia che con Penn riusciva a stento a trattenere. Era una persona debole, fategliene una colpa.
    In realtà Morley Peetzah era poche cose (o molte, a seconda dei punti di vista e di chi stava parlando); onesto era una di quelle. Lo era perché sapeva di poterselo permettere: era così sicuro di sé, fiero, che qualsiasi cosa non fosse la sincera verità non meritava nemmeno di essere presa in considerazione.
    Certo, alcune (molte.) volte aveva ingigantito storie o ricamato dettagli per abbellire i racconti — ma la base di assoluta verità faceva da fondamenta a ogni sua parola. Era sincero, nel bene e soprattutto nel male. Anche perché, dell’ego o della sensibilità altrui raramente gli interessava: se poteva colpire qualcuno, e guadagnarci qualcosa per lui, non si faceva remore ad assestare il colpo meglio piazzato che riuscisse.
    L’unica persona alla quale mentiva, spesso e volentieri, era se stesso.
    Specialmente, poi, per quello che riguardava Penn Hilton. Era sempre stata lei il suo unico punto debole. Beh, forse non proprio l’unico (l’ego smisurato e il quoziente intellettivo ridotto al minimo erano altri due punti importanti.) ma comunque. Aveva avuto molte avventure, il coach, checché ne dicessero le malelingue, ma Penn era l’unica che fosse contata davvero — l’unica dalla quale fosse tornato ancora, e ancora e ancora.
    L’unica che sperava rimanesse.
    Non si era mai azzardato a dirlo, nemmeno a pensarlo, ma c’erano due paroline – per un totale di cinque lettere – che gli frullavano nella testa, quando pensava a Penn. Era un brutto segno. Morley Peetzah non era fatto per i legami solidi, non era fatto per le cose serie; già l’idea di avere un figlio e di doverlo crescere lo aveva mandato nel pallone e rischiato di provocare un cortocircuito senza precedenti, danni cerebrali che in confronto la botta del bolide sarebbe sembrata a passeggiatina di salute.
    Ma ammettere di voler portare le cose con la Hilton a un altro stadio? Tutto il coraggio e l’audacia che contraddistinguevano la sua ex casata sparivano, in momenti del genere. Perché si conosceva, e sapeva quali fossero i suoi limiti: aveva sempre cercato di superarli e diventare la miglior versione di se stesso possibile, ma a quale prezzo.
    Confessare il suo amore per Penn avrebbe sicuramente alterato i precari equilibri della loro relazione. Non voleva che i danni collaterali, in quel caso, travolgessero anche lei.
    Loro.
    Ma mentre la stringeva a sé, mentre la baciava con trasporto e sentimento, mentre si staccava quel tanto che bastava per riprendere fiato, mentre la osservava negli occhi che tanto amava, mentre poggiava delicatamente le labbra su quelle rosa della ragazza — beh, non poteva trattenere il desiderio di confessarlo.
    Non era assolutamente il momento giusto — non era mai il momento giusto. Avrebbe potuto organizzare una cena, come quella che avevano in programma per quella stessa sera, e poi cospargere petali di rosa sulle lenzuola di seta del letto di un hotel di lusso, o affittare un elicottero che portasse in giro per Londra uno striscione romantico ma no. Ci aveva provato a fare gesti del genere: non erano mai andati bene.
    Due come loro dovevano cogliere l’attimo — era tutto ciò che avevano. Che volevano.
    Forse la soluzione avrebbe potuto essere semplicemente smettere di pensarci; godersi il bacio, punzecchiare un po’ la sua fidanzata e poi gettarsi sotto il getto gelido della doccia per placare i bollenti spiriti. E fine. Non si sarebbe compromesso.
    E invece, era pur sempre di Morley Peetzah che si parlava: se c’era una scelta sbagliata, state pur certi che era quella su cui l’ex Grifondoro si sarebbe gettato.
    Perciò, dopo l’ennesimo bacio, tenendo Penn stretta per la vita, la guardò negli occhi e sussurrò un «ti amo» che sapeva di sollievo, sconfitta, gioia e terrore tutto insieme. «Lo sai, vero?» Non lo aveva mai detto, e per un buon motivo (ma quale.) eppure sperava ingenuamente che dai suoi gesti, nel corso degli anni, fosse trapelato almeno un decimo dell’amore che provava per la Hilton.
    Non si aspettava una risposta — al diamine, non era neppure certo di volerla. A dire la verità, avrebbe voluto ingaggiare un cronocineta e riavvolgere il nastro: cercare di essere più forte di così, di resistere e non fare quel passo falso che, con ogni probabilità, avrebbe rovinato tutto. Non è che avesse paura del rifiuto di Penn – quello era proprio l’ultimo dei suoi dubbi –; ciò che lo spaventava era aver cambiato ancora una volta i contorni di quella storia, che agli occhi di tutti pareva scritta e lineare, mentre per i carbs era sempre stata travagliata e fatta di tentativi ed errori.
    Quello? L’ennesimo tentativo.
    E forse pure l’ennesimo errore.
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    Se l’era cercata. La leggenda narrava che chi fosse causa del proprio mal dovesse piangere se stesso, e Yale Hilton sapeva benissimo di essere l’unico colpevole di quella situazione. Sapeva che in qualunque momento, davvero qualsiasi, avrebbe potuto fare un passo indietro, moralmente e fisicamente, e che era bene quell’epifania giungesse prima piuttosto che poi. Ma era Yale, di per sé una condanna: non sapeva imporsi limiti, e quando cosciente esistessero li scavalcava, saltando dall’altra parte con un inchino ed una mano sul cuore. Fece scivolare i pollici fra i corti capelli della nuca del Peetzah, ricambiando il suo sguardo con un’intensità eguale ma opposta, cercando cosa del Morley avesse mai attirato le attenzioni di sua cugina. Comprendeva il lato fisico – in parte, anche se non avrebbe definito l’uomo il suo tipo - ma la parte sentimentale? C’era da dire che avessero conosciuto due Morley Peetzah diversi, e quello fosse uno scorcio di quanto Penn vedesse ogni giorno. Provò un primo, minuscolo, briciolo di rimorso, nel ritrovarselo fra le dita più nudo di quanto non sarebbe stato senza vestiti addosso. Vulnerabile. Un omone grande e grosso che sentiva fragile fra i palmi delle mani; lo sfrullare d’ali del battito a scandire l’importanza di un momento che Yale non capiva, e dubitava avrebbe mai compreso. Quel peculiare tipo di abbandono. Fiducia. Sicurezza. Non poteva negare di esserne intrigato, affascinato dal concetto stesso dietro lo sguardo adorante dell’allenatore. Non era la prima volta che qualcuno lo guardava così, ma c’era qualcosa di più… viscerale, e onesto. Amare l’Hilton maggiore era maledettamente facile, ma nessuna delle persone che gli aveva affidato il proprio cuore l’aveva poggiato ai piedi di Yale. Morley Peetzah amava davvero Penn Hilton.
    Eh, vabbè. Era sopravvissuto ad un bolide alla testa, sarebbe sopravvissuto anche ad un cuore spezzato.
    Un sospiro tremulo. Gli occhi serrati, perché poteva farcela. Un bacio era un bacio, qualcosa di carnale e fisico che poteva gestire - anzi, a voler peccare di modestia, la sua specialità. - e sinceramente meglio di qualunque cosa fosse presente in quel momento negli occhi dell’americano. Gli venne da ridere nel momento meno propizio, quello in cui avrebbe dovuto percepire un’alta carica di tensione sessuale, e sperò l’altro lo scambiasse per affetto, uno scherzo loro premuto stretto fra i costati. Si alzò sulle punte, andando incontro all’inevitabilità del destino che si era scelto, posando il sorriso divertito sulla bocca del Peetzah. Dischiuse le labbra permettendogli di insinuare la lingua, le dita ad arrampicarsi sui corti capelli chiari per premerlo contro di sé, e oh sentiva che fosse entusiasta della cosa, e non potè fare meno di schiacciarsi su di lui strofinando appena, perché era un pezzo di merda e lo sapeva. Si lasciò coinvolgere dal bacio, perché era una creatura debole e amorale. Abbastanza abietto da districarsi abbastanza e soffiare aria calda sulla sua bocca, offrendogli un respiro tutto suo, conscio che il senno di poi l’avrebbe reso più tossico del resto. Sorridere ancora, cercare la sua bocca perché il danno era fatto, e non era così male sentire le mani dell’altro su di sé a stringerle la vita sottile – più delicato di quanto sarebbe piaciuto a Yale, ma non era lì per quello, quindi non insistette. - e carezzarle il viso. Strinse piano il labbro inferiore fra gli incisivi, spingendolo con la lingua prima di fare qualcosa di molto stupido e tagliare la carne.
    Si appoggiò alla porta, alzando il capo per incrociarne lo sguardo. Doveva ammettere che almeno quello sapesse farlo bene; in altri contesti, Yale ne avrebbe approfittato un po’ di più. Passò le dita sul suo volto, carezzando gentile le guance glabre come giada nei sogni di sara.
    E poi.
    «ti amo»
    Oh Cristo. Dio. Buon Signore.
    Sapeva di definitivo e di culmine. Sapeva di un segreto che non era destinato a custodire, e , Yale Hilton, si sentì completamente la terribile persona che sapeva di essere, ma raramente comprendeva a pieno. «Lo sai, vero?» Morley Peetzah aveva appena -
    [bestemmia] Cancellò in fretta la sorpresa – e l’orrore – dal proprio viso, nascondendolo nell’incavo del suo collo. Lo strinse a sé perché gli sembrava la cosa giusta da fare, una reazione consona alle circostanze. Fu perfino onesto nel mormorare «pensavo non me l’avresti mai detto» che suonava più divertente alle sue orecchie che a quelle di Piz, ma rise comunque. Allegro, brillante. Si distanziò quanto bastava per posargli un significativo bacio sulla guancia, le dita a percorrere la linea delle sopracciglia.
    Poi piroettò sul posto, riempiendo l’ufficio della propria presenza. Adocchiò una bottiglia sulla scrivania di Piz – aveva anche ancora un fiocco, doveva trattarsi di un regalo – ed anche se non era propriamente sobrio, perché Yale Hilton non era mai completamente pulito, decise di averne bisogno. La agitò delicatamente di fronte a sé, ammiccando all’altro nel premere i pollici sul collo e stapparla. «a noi?» ed a me soprattutto, ma ingollò quel pensiero insieme all’alcool, dando le spalle a More per non mostrargli quanto avesse bisogno di bere per affrontare il rimanente di quel pomeriggio. Non così tanto: quanto durava la Polisucco? Non era mai stato abbastanza attento a scuola alle nozioni riguardanti il tempo, un concetto altamente relativo nella vita di Newhaven. «dovremmo -» si volse, e fu questione di un istante.
    Uno solo.
    Un maledetto secondo, e l’intero ecosistema di Newhaven Cedric Edward George Stephen Hilton IV si invertì come una cazzo di eclissi. Un passo, esitante, verso il Peetzah. Capo reclinato all’indietro, occhi a cercare i suoi. Combattè contro il nodo alla gola, le farfalle a pizzicare lo stomaco, i brividi sulla pelle. «lo sai, vero?» ribattè, la voce a tremare appena. Ingoiò saliva, cercando le mani dell’altro per stringerle nelle proprie. «che ti amo» completamente, inevitabilmente. Non riusciva ad immaginare come potesse essere diversamente. Era più certo di amare Morley Peetzah, di chi fosse lui - lei? - stesso - stessa?. Non aveva importanza. Così lo attirò a sé, i palmi sulle sue spalle a far pressione perché potesse saltare ed avvolgergli le gambe alla vita. Creatura abitudinaria, nello spingere appena sulla parte più sensibile, e lo scendere nuovamente con le labbra a cercare le sue – e la mandibola, ed il collo. Si soffermò sull’orecchio, soffiando piano e caldo, «perchè non ci sposiamo e basta?»
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    Morley Peetzah non aveva assolutamente idea del guaio in cui si era cacciato. Zero. Nisba.
    Non aveva il minimo sospetto che qualcosa non andasse, o che ci fosse qualcosa di strano nella giovane donna che stringeva delicatamente, ma con trasporto, al proprio corpo fino a farlo aderire perfettamente al suo; avrebbe dovuto, certo, ma nulla nell'atteggiamento della non-Penn gli dava modo di sospettare alcunché. E vi chiederete: Piz, conosci così poco Penn da non riuscire a riconoscere una pessima imitazione? Beh, Yale Hilton era sempre stato – a malincuore – un perfetto bugiardo; e conosceva bene sua cugina, ma ancora di più, sapeva quali tasti premere e come distrarre il Peetzah, una ricetta disastrosa per quest'ultimo, destinato a cadere nella trappola sin dal primo momento.
    Quindi no, nulla dell'atteggiamento di Penn faceva suonare campanelli d'allarme nella mente del coach. Se proprio, quello che si stava comportando in maniera strana, tra i due, era lui: cosa diavolo gli era saltato in mente, pronunciare quelle due paroline importanti così all'improvviso (o affatto) quando avrebbe potuto benissimo evitare e salvaguardare entrambi dalle (spiacevoli) conseguenze?
    Perché da quello non si tornava indietro, ancora peggio dello scoprire di avere un figlio insieme.
    E dall'espressione congelata di Penn, immaginò che anche lei stesse pensando la medesima cosa: il danno era stato fatto.
    Ottimo, grandioso, perfetto: come rovinare nel giro di qualche istante tutto quello che di buono avevano costruito tra loro negli ultimi tre anni.
    Piz tenne lo sguardo fisso in quello bosco di lei, pur sentendosi fragile come un castello di carte tirato su sopra di un tavolino traballante in bilico sui sanpietrini (un'immagine stranamente specifica) che minacciava di crollare da un momento all'altro.
    Erano state molto rare le volte nella vita in cui Morley Peetzah si era sentito così — vulnerabile, era la sola parola che gli veniva, e la detestava. Esposto, più nudo del giorno in cui era venuto al mondo; aveva tolto il cuore dal proprio petto e lo aveva messo in mano di Penn – di Yale – pur sapendo che c'erano alte possibilità che venisse rifiutato. O peggio, distrutto. Perché non aveva dubbi, Morley Peetzah, sul fatto che Penn potesse ricambiare i suoi sentimenti, ma sapeva anche bene che non fossero il genere di coppia che andava sbandierando suddetti sentimenti a cuor leggero. E il fatto che lui lo avesse fatto, e proprio in quel momento, cambiava tutte le carte in tavola.
    Tentò di scacciare via tutti quei pensieri, lasciando che Penn nascondesse il viso contro la sua spalla, ma non riuscì a rendere i gesti meno meccanici, o a tranquillizzare il tamburo nel petto. Persino il «pensavo non me l’avresti mai detto» di lei non fu sufficiente per calmarlo, ma anzi generò una nuova serie di pensieri e paturnie, come: non pensavo nemmeno io di dirlo mai oppure perché non l'hai detto anche tu. Avrebbe accettato persino un “grazie”, brutale e onesto, alla Holly Golightly, piuttosto che quel silenzio.
    Perché non aveva dubbi, il coach, che Penn non avesse altro da dire a riguardo, e ne ebbe conferma quando lei gli passò dolcemente le labbra sulla guancia, e niente più. Morley socchiuse gli occhi, strinse le labbra e si maledì per essere stato un coglione. Un coglione onesto e coraggioso, ma pur sempre un coglione.
    Aprì gli occhi solo per osservarla, suo malgrado, piroettare via incapace di tenerla stretta a sé perché preso contropiede da quella leggerezza con cui stava calpestando i suoi sentimenti, eppure non le disse nulla, perché non voleva rovinare ancora di più le cose. Lasciò lo sguardo azzurro incollato alla figura esile di lei, studiando ogni gesto semplice e ogni sospiro, ogni sorriso e ogni battito di ciglia; almeno, in tutto quello, aveva la dannata certezza di aver detto la verità, di amarla davvero, pur dovendo fare i conti con tutto il resto. Poteva farselo bastare.
    Poteva?
    Ma si, magari avrebbe trovato un modo diverso per farsi perdonare.
    Doveva farsi perdonare? Forse. Era uomo, dopotutto: avevano sempre qualcosa di cui farsi perdonare.
    «a noi?»
    Si strinse nelle spalle, lasciandola fare: chi era lui per negarle ad entrambi un sorso (o dieci) con cui magari sciacquare via tutta quella situazione. Comandò alle sue gambe di muoversi, reputando di essere rimasto impalato come uno stoccafisso per fin troppo tempo, e la raggiunse, senza però avvicinarsi troppo; voleva ancora testare un po' il terreno e capire dove fossero in quel preciso istante della loro storia, sempre un enorme punto interrogativo per tutti, i carbs per primi.
    «dovremmo -» Seguì un silenzio — un altro. Piz rischiava di esplodere, non era certo di poter resistere ancora a lungo. «Penn–» dì qualcosa ti prego.
    In quegli occhi verdi intenti a specchiarsi nei suoi, per un attimo, Piz credette di leggerci qualcosa di molto simile alla speranza; o forse era solo ciò che desiderava leggerci.
    Sospirò, e allargò comunque le braccia per accoglierla laddove era certo di averle dimostrato di poter avere sempre un posto, in quel momento e in futuro. Lei non accolse l'invito, rimanendo invece di fronte a lui, seria e inamovibile. «lo sai, vero?» No, non sapeva più un cazzo di niente, il Peetzah, se non che avesse fatto uno sbaglio. L’ennesimo della vita.
    Ma quando Penn strinse le sue mani nelle proprie, pensò che forse – forse – per una volta, la sua audacia sarebbe stata ripagata. Lo voleva ardentemente. «che ti amo»
    E in un attimo, tutto quello che Piz aveva desiderato – negli anni, ma soprattutto in quegli interminabili minuti – lo investì in pieno, togliendogli il respiro e allo stesso tempo donandogliene uno del tutto nuovo. Non riuscì ad impedire al sorriso di sollevare gli angoli delle labbra, ed illuminargli il volto; non ebbe nemmeno il tempo di rispondere, di dirle che sì, lo sapeva, ma era bello sentirglielo dire e confutare ogni stupido dubbio mai avuto. Poté solo sollevarla, incrociare le mani sotto i suoi glutei per tenerla stretta a sé, e avanzare fino a trovare il bordo della scrivania, dove la invitò a sedersi mentre lei si dedicava con particolare attenzione ad una serie di baci lasciati lungo tutto il collo, fino a salire all'orecchio.
    «perchè non ci sposiamo e basta?»
    A Piz, mancò un battito. O svariati.
    La staccò appena da sé, per guardarla negli occhi e domandarle, senza fiato ma solo con lo sguardo, se fosse seria. Se lo volesse davvero.
    Si domandò la stessa cosa, e quando riprese a baciarla, incapace di starle lontano per più di qualche secondo, ebbe la conferma: sì, lo voleva. Voleva sposare Penn Hilton, l'aveva sempre voluto, e forse era stata la paura di poterla perdere – ancora; definitivamente – a non farlo mai agire.
    «Non ho un anello,» un pensiero coerente, soffiato sulle labbra arrossate di Penn, il respiro irregolare e il battito accelerato all'idea che il matrimonio fosse una possibilità reale e concreta. «Dobbiamo cercare il luogo, e dirlo alle nostre famiglie.» I Peetzah, ne era certo, non aspettavano altro; agli Hilton, temeva, non sarebbero stati altrettanto entusiasti.
    Ricominciò a baciarla, perché il trasporto dimostrato da Penn non era passato inosservato e, soprattutto, aveva decisamente risvegliato i bollenti spiriti del coach, mai del tutto sopiti, e non aveva la minima intenzione di perdere quel momento o l'occasione di avere Penn all'interno del suo ufficio e realizzare così uno dei suoi (loro?) sogni proibiti. «Sposami, Penn.» Ora che lo aveva detto, ora che aveva detto tutto, sentiva che nulla avrebbe potuto impedirgli di ottenere quello che desiderava, e renderlo felice. Non aveva mai avuto dubbi che Penn fosse quella giusta, o che lui fosse quello giusto per lei; ma aveva avuto paura, perché aveva perso fin troppo Morley, e non aveva voluto arrischiarsi in quei pensieri sapendo che c'era il rischio concreto di vederli sgretolarsi davanti ai suoi occhi.
    Ma con Penn stretta alle sue braccia, il suo corpo a schiacciarla delicatamente contro il legno della scrivania, e dei baci che si facevano sempre più caldi e desiderosi, Morley Peetzah non aveva più dubbi di nessun tipo.
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    Yale Hilton non aveva mai amato nessuno.
    In generale, come regola di vita. Aveva imparato a voler bene con moderazione, così da non perderci mai il sonno. Amava a momenti, prendendo le distanze dai propri sentimenti quando rischiavano di diventare debilitanti: amava Shiloh quand’era in città, ma si allontanava quando lei spariva per mesi senza essere raggiungibile neanche per via telematica; amava la sua famiglia, ma senza aver bisogno di loro, perché in un modo o nell’altro finivano sempre tutti per lasciarlo indietro. Romanticamente parlando, poi, Yale quella possibilità non se l’era neanche mai data, perché adorava perdere tempo solo nelle cose sbagliate. Quella sembrava richiedere un genere di fiducia ed abbandono che l’Hilton era disposto a concedere solamente alle droghe ed all’alcool, le uniche costanti che sembrassero incapaci di deluderlo.
    Rimpiangeva tutto. Come aveva potuto privarsi per tutta una vita di quello? E come aveva potuto, prima di quel momento, guardare Morley Peetzah senza sentire il bisogno fisico, tangibile, di prendergli il volto fra le mani e baciarlo finché avesse avuto ossigeno per farlo? In quel momento, faticava a tenere uniti i pensieri, ma quelle domande sorgevano comunque spontanee fra un fiato e l’altro – solo per sé, e con risposte soffocate sulla pelle dell’americano. L’aveva amato per tutto quel tempo? La sua gelosia nei confronti di Penn, era stata invece per Piz? Aveva guardato sua cugina dare il proprio cuore all’uomo che aveva sempre amato?
    (Oh per Dio Yale, ma ti pare.)
    Quella era la sua occasione per prendersi tutto, marcare Piz come proprio e stringerselo al petto finché morte non li avesse separati. Non avrebbe mai permesso a nulla di mettersi fra di loro, neanche a sua cugina.
    (aiuto)
    Il trasporto di Yale, era sincero e totale. Non gli importava neanche che le dita allacciate alla nuca dell’allenatore non fossero le proprie, perché la sensazione sotto i polpastrelli era comunque sua. Aveva davvero importanza che forma avesse il contenitore?
    (Uhm… SI?!?!?)
    Mugugnò infastidito quando l’altro si allontanò per guardarla, sentendo le guance arrossate e le labbra gonfie. Le strinse brevemente fra loro, prima di sporgersi ancora e posare altri baci sulla gola, le gambe aggrappate a Piz a spingerlo contro di sé. La scrivania offriva una prospettiva interessante, con svariate possibilità che Yale, tempo permettendo, avrebbe volentieri sperimentato tutte. C’erano ancora i vestiti a separarli, ma era così sensibile che avrebbero potuto non esserci affatto, per quanto la frizione gli stesse facendo mancare il respiro.
    (Magari non avrebbe rimpianto tutto tutto, dai. Esperienze!)
    «Non ho un anello,» Oh GESù BEATO ERA PROPRIO UN UOMO! Grugnì, non senza un certo fastidio, distanziandosi quanto bastava a premere le unghie ben curate sulle guance di Piz e stringere, obbligandolo a guardarla. «non mi serve un anello. Ho già tutto quello che voglio» e per ribadirlo, fece scivolare un dito sullo zigomo, poggiando il palmo a coppa contro la guancia solo leggermente ruvida. «Dobbiamo cercare il luogo, e dirlo alle nostre famiglie.» Troppe parole, pochi fatti. Se non l’avesse amato così tanto, si sarebbe già spazientito, ma la seccatura nello sguardo di Penn evaporò in fretta, perso com’era in quello chiaro di Morley.
    «Dobbiamo cercare il luogo, e dirlo alle nostre famiglie.» A chi importava delle famiglie?
    (Reale, onesto. Yale nord coded)
    Scosse appena il capo, labbra dischiuse. «non ha importanza dove. Importiamo solo noi» bisbigliò, premendo un soffice bacio sulle sue labbra.
    «Sposami, Penn.»
    Annuì, Yale Hilton. Annuì, e rise felice, testa reclinata all’indietro. «sposami, morley» reclamò entrambe le gote con i palmi, strizzandolo verso di sé. «ora. Adesso. Andiamo a las vegas. Il resto può aspettare» fece scivolare i polpastrelli lungo le braccia, fermandosi sulle mani che strinse nelle proprie. Le portò alle labbra, soffiando dolce il proprio fiato caldo. «ma voglio essere tua ora.»
    1:28
    2:49
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    mi dispiace così tanto piz. così tanto. bacino in fronte di supporto da sara, you're nothing but an angel - in compenso im really havgin the time of my life .
     
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    «non mi serve un anello. Ho già tutto quello che voglio»
    Impossibile fermare il sorriso che si allargò da parte a parte sul viso del coach, già esterrefatto da quanto stava succedendo con così poco preavviso (nessuno) in quel momento, e sbalordito dalla naturalezza con cui i carbs stavano affrontando quel discorso — forse per la prima volta da quando avevano deciso di intraprendere una relazione seria. In realtà, non ne avevano mai parlato, da sempre convinti, entrambi, che non fossero il genere di coppia da potersi permettere un matrimonio, che funzionassero meglio senza, ma se quell’esperienza aveva insegnato qualcosa a Piz, oltre che a comportarsi da persona matura per prendersi cura di un bambino, era che forse, dopotutto, una famiglia convenzionale voleva metterla davvero su, con Penn. Lo voleva davvero. E sposarla non era un’idea così terribile, no?
    «non ha importanza dove. Importiamo solo noi»
    Il fatto che anche lei, ora, ne fosse convinta gli faceva ben sperare: forse c’era davvero una possibilità, per loro.
    (Aiuto I made myself sad.)
    «sposami, morley. ora. Adesso. Andiamo a las vegas. Il resto può aspettare»
    Si beò della risata cristallina della Hilton, incastrando lo sguardo azzurro in quello verde di lei quando Penn gli prese il viso tra le mani e lo invitò a osservarla con serietà e attenzione, non senza una certa difficoltà: avrebbe preferito continuare a riempirla di baci, cercare con le dita esperte la zip del vestito e abbassarla per poter baciare poi la pelle delicata che scendeva al petto, e abbassare con i denti la spallina del reggiseno, ma quello (e molto altro) avrebbero dovuto aspettare.
    «ma voglio essere tua ora.»
    Parole fraintendibili (specialmente da pandi che aveva capito tutt’altro) che lasciarono per un attimo il Peetzah confuso, e su di giri, già pronto a riprendere quello che avevano interrotto, fino a che la lampadina si accese e capì.
    «oh. OH. intendi… vuoi sposarti ora gli sembrava un tantino affrettata, come cosa, ma non poteva negare che avesse un fascino tutto suo: l'ebbrezza di qualcosa fatta di getto, spontanea, avventata; qualcosa così in linea con Piz ma che su di Penn calzava buffamente , eppure in qualche modo la Hilton sapeva porta anche quello con gran classe. «vuoi sposarti… ora.» lo ripetè, giusto per essere sicuro di aver capito, indicando lo spazio esiguo tra loro, e rimarcando il concetto. Las Vegas? Immaginava si potesse fare, d'altronde lui non aveva mai avuto grandi pretese sulla cerimonia, il dove o il cibo. «las vegas? sei sicura?» per quanto lo riguardava, l’avrebbe sposata anche davanti al parroco di un paesino sperduto, senza nessun parente o amico nei dintorni, ma aveva sempre immaginato che Penn ci tenesse a quel genere di cose, che avesse desiderato la festa in grande stile come tutte le altre ragazze, sin da piccola. Accarezzo il suo viso con una mano, spostandole una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «se è davvero quello che vuoi, facciamolo.» si avvicinò per lasciarle un bacio sul collo, salendo poi lentamente verso le labbra. «andiamo dove vuoi, sposiamoci di fronte a chi preferisci,» anche se l’idea di sposarsi davanti ad Elvis lo metteva un po’ in soggezione, «sposami, e ti prometto che ti renderò la donna più felice del mondo, penn hilton.»
    oh boi.
    oh boi.
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    Morley Peetzah era proprio un uomo. Non solo era così al naturale, senza l’influenza di alcuna pozione magica e dalla dubbia morale, ma aveva tutte le priorità sbagliate, come se nel grande schema delle cose un anello o la presenza della famiglia potessero fare la differenza, e le domande più scontate, tipo «oh. OH. intendi… vuoi sposarti ora?» Esisteva forse miglior momento di ora? Del domani non c’era mai certezza, ed ogni istante vissuto valeva la pena essere consumato fino al nocciolo. Si amavano disperatamente lì, in quell’ufficio. Non avevano occhi per nulla che non fosse l’altro, le labbra ancora calde degli ultimi baci, le mani a stringere senza alcuna intenzione di lasciare. Come, si domandava l’Hilton, avrebbero potuto non sposarsi in quella parentesi unicamente loro? In quei battiti di cuore, non c’era altro che volesse al mondo che non fosse passare ogni singolo giorno della sua vita al fianco di quell’uomo. Ventiquattro ore su ventiquattro. Svegliarsi al mattino con il suo sorriso sulla pelle, e la sua bavetta sul cuscino. Farsi bruciare la colazione, arrivare in ritardo a lavoro per una sveltina sul bancone della cucina, sgridarlo per la tavoletta mai abbassata, e guardarlo ingrigirsi come la prospettiva pensionistica di un millenial sapendo di averne condiviso ogni ruga. Un tatuaggio di coppia, magari; il suo nome sul cuore, e la sua faccia sul bicipite. La data del loro incontro sulla chiappa sinistra, e l’impronta dei denti sulla destra, così che potesse portare con orgoglio il simbolo del loro amore laddove li si addiceva di più: sul culo. «vuoi sposarti… ora.» Di nuovo. Umettò le labbra, e quando sentì il sapore del Peetzah indugiare sulla lingua, dovette scuotere il capo per distrarsi dal pensiero di quali altri gusti sapesse, e quanto li volesse sentire tutti. Si obbligò a strizzare le mani sulle sue guance, piuttosto che sulle sue p - «sì, morley. voglio sposarti ora» ribadì, malgrado fosse ovvio. Non poteva immaginare un altro istante della sua vita in cui non avessero condiviso il cognome, e non avesse avuto la certezza fosse suo.
    Per sempre.
    Anche nell’aldilà, le loro anime si sarebbero incontrate ancora ed amate come in quello sgabuzzino maleodorante e con una pessima qualità di mobilio, nonché scarso gusto estetico. Una (condanna. Maledizione.) promessa. Doveva essere una pozione davvero potente quella che aveva fatto invaghire perdutamente l’Hilton del Peetzah, perché all’ennesimo dubbio - «las vegas? sei sicura?» - non gli diede neanche una testata, preferendo metterlo a tacere con la propria bocca sulla sua. Rubando ogni grammo d’ossigeno, così che (morisse?!) non potesse sprecarlo in inutili fiati, la lingua fra le proprie labbra per impedirgli di mettere ancora in discussione i suoi intenti. «voglio tutto di te, morley peetzah, e lo voglio ora. aspettare non ha mai funzionato» Una vena amara, mero istante in cui le palpebre di Penn si abbassarono su uno sguardo, se non lucido, perlomeno non Penn. Scuro, e devastato; poco familiare sul dolce volto della cugina, e più consono su mandibola marcata e spalle più larghe. Così rapido che non ebbe il tempo di registrarlo, né di aggrapparsi a quel vago sentore di lucidità abbastanza da rendersi conto di quanto stesse succedendo. Fece piuttosto scivolare le dita dalle guance dell’allenatore al suo petto, premendo leggermente. «il tuo cuore» mormorò, con onesti occhi ambra a cercare quelli chiari dell’americano. Le mani a scivolare verso il basso, senza alcuna intenzione di distogliere lo sguardo, e quando strinse sul gonfiore dei jeans, lo fece con peculiare delicatezza, come se tra dita avesse qualcosa di prezioso e delicato. Non poteva certo rovinare la materia prima: Yale voleva avere tutti i suoi figli, ed anche qualcuno in più. «il tuo corpo» non mostrò neanche il mezzo sorriso divertito che quella situazione avrebbe richiesto, perché si rendeva conto si trattasse di un momento solenne. Importante. I polpastrelli si arrampicarono quindi a cercare le sue mani, che strinse fra le proprie. Le massaggiò piano, prima di sollevarle verso le labbra, e posare il più leggero dei baci sulla nocca dell’anulare. Era una dichiarazione d’amore, quella lì. Alla sua anima, ed al suo c- «il tuo cognome» (cristo non mi sento bene) Yale Peetzah suonava bene. Completo. Perfetto. Signor Peetzah. Newhaven Cedric Edward George Stephen Hilton The Fourth – Peetzah, sapeva già di poesia ed ode. Non vedeva l’ora di vederlo inciso sulla propria lapide, dove sarebbe rimasto ben oltre il suo misero tempo su quella terra, portando in memoria il loro amore per i posteri, ed anche quelli dopo. I libri di storia avrebbero parlato di loro.
    Censura permettendo; era abbastanza certo di piacere abbastanza a Dorothea perché gli concedesse almeno un paragrafo.
    «sposami, e ti prometto che ti renderò la donna più felice del mondo, penn hilton.»
    Era il momento di prendere in mano la situazione. Sospirò, già la donna (e uomo. Persona in generale, diciamo) più felice del mondo, le dita a cercare la propria bacchetta. Era stato abbastanza volte a Las Vegas da non avere problemi, neanche in quelle condizioni, a visualizzare il loro posto d’arrivo. Si strinse all’uomo, chiuse gli occhi, e - pop. Non era mai stato un grande ammiratore della magia, e potendo, preferiva non usarla, ma non poteva permettersi di perdere altro tempo con jet e autisti di varia natura. Doveva avere quel matrimonio subito.
    Battè le palpebre di fronte al casinò al quale li aveva smaterializzati, tenendosi in equilibrio sul suo braccio. Sorrise – estasiata, brillante – prendendolo per mano ed iniziando a correre, guidandolo verso la cappella che sapeva essere lì vicino. Sì, per esperienza personale. Era stato testimone a diversi ricevimenti; si era commosso ad almeno la metà. «charlene? CHARLENE!» conosceva la donna che celebrava, una drag senza età e solo bellezza e meraviglia. La sua versione di Elvis, era la migliore in circolazione – gender fluid, e con un eyeliner pazzesco. La trovò.
    Lei la guardò confusa. Con il braccio libero, Penn la abbracciò comunque. «hilton, ricordi?» sì, ma ne ricordava un altro. Charlene battè le palpebre, non impressionata, omaggiandoli entrambi di un mezzo inchino. «morley, charlene. Charlene, morley. Ci sposi?» chissà quanto durava la cerimonia. Era troppo presto per dire «lo voglio!» ?
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    happy face, jagwar twin
     
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