To stay alive you gotta kill your mind

maple | william

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    maple walsh
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    Lo guardava intensamente: fantasticava sul come dovesse essere sfiorargli il viso con i polapstrelli, o che sensazioni potesse suscitare l’esser circondata dalle sue possenti braccia; sognava il giorno in cui si sarebbero sposati, Maple e Finnegan, il bel biondone capitano dei Chudley Cannons, dalle iridi color smeraldo e la dentatura perfetta. Doveva essere imparentato con una qualche divinità greca, o aver preso un qualche elisir capace di rendere impeccabile la propria fisionomia, o non si spiegava il come un essere del genere potesse esser reale. Ella conosceva vita, morte e miracoli di quel tipo, tanto ne era ossessionata; ogni intervista, ogni articolo, ogni gigantografia che veniva messa in vendita dal giornalio, Maple Walsh la possedeva e la conservava appesa al muro della propria stanza a Westerfall. Prendetela per folle, così chi come lei cade sventurata dalle nuvole, innamorandosi di un individuo che non conosce nè il suo nome, nè il suo volto. Gli occhi a cuoricino erano impiantati sull’articolo a pagina diciannove-venti della Gazzetta, troppo concentrati su quella fotografia che riproponeva lo stesso loop, all’infinito, per riuscire ad esser distolti: Finnegan ed il compagno di squadra Jordan che si battevano il cinque dopo un’azione vincente. L’articolo parlava della partita disputata il giorno prima in casa degli Appleby Arrows, vinta con un pesante trecentonovanta a centodieci; avevano preso il boccino d’oro per aggiudicarsi l’incontro, sì, ma restava comunque un netto vantaggio di centotrenta punti dei Cannons a dimostrare la lora superiorità. Sospirò rumorosamente, Maple, mentre si abbandonava al comodo materasso del letto a baldacchino, con le pagine di giornale strette all’altezza del petto, un giorno ci sarebbe stata anche lei, su quelle pagine. Sognava sé stessa intervistata da chissàqualereporter, mentre in mano teneva saldamente il trofeo del campionato, con un sorriso che andava da zigomo a zigomo stampato in volto. Era dall’inizio dell’anno che aveva chiesto al padre di pagarle l’abbonamento alle pagine sportive della Gazzetta del Profeta – solo le pagine sportive, sia chiaro – e queste, puntuali, ogni martedì dopo l’ora di pranzo venivano lanciate nel bel mezzo della sala grande da un qualche gufo a caso. Il come riuscisse uno di quei volatili a scorgere il destinatario del proprio pacco ogni benedetta volta, rimaneva un mistero agli occhi della giovane Maple.
    Rimaneva lì, stesa, mentre avvertiva la tensione accumulata nel corso della giornata allentarsi gradualmente in corrispondenza della spina dorsale. Era un po’ come se le vertebre si stessero lentamente allontanando fra di loro, permettendo alla schiena di trovare un momento di tranquillità. Adorava quella sensazione, rispecchiava sicuramente uno dei suoi momenti preferiti nell’arco delle ventiquattro ore: era il momento in cui poteva non pensare a nulla, svuotare la mente, concentrandosi solo su quella leggera sensazione che avveniva nella zona lombare. Le lezioni di Trasfigurazione avevano sempre lo stesso effetto sulla situazione psico-fisica di Maple Walsh: ansia. Ansia perché non vedeva proprio il punto, nell’imparare a trasformare un topo in un bicchiere, o un gatto in una padella, ma soprattutto ansia perché non gliene veniva mai uno, di incantesimo trasfigurativo. Il come fosse riuscita a sopravvivere a sei anni di studi senza riuscire in alcuna delle formule che le venivano insegnate, era un altro mistero da aggiungere alla lista precedente citata, insieme a quello del gufo postino. Non si era mai applicata nella materia, e mai avrebbe cominciato a farlo, non di certo al suo sesto anno.
    Restò in quella posizione per fin troppo tempo, aspettando che la JP mangiata per pranzo scendesse giù per le vie dell’intestino e così poter essere digerita; chiuse appena le palpebre, stanca, cominciando a canticchiare fra sé e sé le note di una canzone sconosciuta. Lo faceva sempre quand’era sola nel dormitorio, canticchiare. Quando si alzò fu per avvicinarsi alla cassettiera dall’altro lato della stanza, aprire il primo cassetto e frugare fra i calzini appallottolati alla ricerca di una piccola bustina di plastica. La trovò infilata all’angolino in fondo, insieme a carta filtro e cartine lunghe, tutto accuratamente tenuto insieme da un elastico color giallo senape. Era una tipa estremamente ordinata, Maple. Infilò tutto all’interno della coppa del reggiseno, nella parte inferiore, assicurandosi che nulla sporgesse o potesse cadere. Una volta aveva avuto la stupida idea di infilare la roba nella tasca del pantalone, ma finì che arrivata alla festa tutto vi era in quella tasca meno che l’erba. Doveva esserle caduta nel tragitto, a voi la libertà di immaginare la reazione che ne seguì. Si precipitò ad infilare le scarpe e via fuori dal dormitorio.
    Come uscì un’ondata di profumi misti le inondò le narici: avvertì rosmarino, patate lesse ed origano, ma anche un fastidioso odore di sapone per piatti che non c’entrava proprio nulla. L’ultimo turno del pranzo era terminato da poco, e gli elfi domestici si affrettavano a rendere splendente ogni posata ed elemento del servizio così da averne disponibili per il banchetto serale. Quel giorno non si sarebbe diretta alla Torre di Astronomia, come era suo solito: il martedì non poteva mai, c’era sempre qualche cane da guardia che rimaneva lì un po’ troppo a lungo e le mandava all’aria i piani. Di conseguenza svoltò a destra, piuttosto che a sinistra, imboccando la rampa di scale che portava alla Torre dell’Orologio. Seppur fra le due questa seconda forniva decisamente un paesaggio più suggestivo, Maple non sopportava quando – allo scoccare dell’ora – le campane cominciavano a cantare una rimbombante sinfonia. “Ma come, non sono poi così fastidiose!” direbbe qualcuno con innocenza, ma provateci voi a stare ad un metro di distanza dal luogo di effusione di quel frastuono: non lo trovereste fastidioso? Saliva gli scalini due e due, lasciando che la chioma castana le ondeggiasse leggera sulla schiena, un po’ affannata, un po’ guardandosi intorno alla ricerca di nessuno in particolare. Alcuni studenti erano a lezione, altri dormivano ed altri ancora si erano rinchiusi in biblioteca a studiare – dai Maple, prendi esempio -, di professori non doveva esserci nessuno in giro a quell’ora, insomma, non dovevano prendere un caffè, o un thè, o qualcosa? Cosa dovrebbe fare un insegnante in giro per il castello alle due del pomeriggio passate? Non so, i vecchi non fanno il riposino pomeridiano? Fra una fisima e l’altra, arrivò a destinazione, salendo la stretta rampa di scalini, assicurandosi un’ultima volta che a) nessuno l’avessa vista b) il posto non fosse già occupato.
    Si sedette con il fianco sinistro appoggiato al muro, affacciandosi proprio in mezzo a due delle guglie che circondavano la torre, così che potesse assicurarsi una bella visuale sul parco della scuola. Adorava quel luogo, emanava pace e tranquillità, entrambe interrotte dal lieve cinguettio di qualche volatile, e poi vi era solo verde al di sotto, una distesa immane ed a tinta unita– fatta eccezione per il campo da Quidditch sulla sinistra, ed il lago sulla destra -.
    Prese l’accendino color azzurro cielo dalla tasca, poi infilò una mano sotto il maglioncino e sotto il reggiseno, prendendo l’occorente che poco prima vi aveva accuratamente nascosto. Lasciò scivolare il polpastrello del pollice sulla rotellina di metallo dell’accendino, lasciando che la fiamma scaldasse il mattoncino marrone scuro così da ammorbidirlo e poter essere modellabile. Continuò con lo stesso movimento per un po’, finchè non ottenne un piccolo mucchietto di palline proprio al centro del piccolo palmo; frugò nell’altra tasca, prese il pacchetto delle Philipp Morris e vi estrasse una sigaretta, la strappò a metà ed unì il tabacco nello stesso palmo dove teneva il fumo. Ad insegnarle a girare era stato Connor, così entusiasta all’idea di avere una sorellina che finalmente non lo giudicasse che non ci pensò due volte, ad invitarla a fumare con lui. Fatto il filtro ed arrotolata la cartina, la sigillò con un po’ di saliva. Poi l’accese, aspirando con avidità e trattenendo il fumo nei polmoni, lasciando che la invadesse un po’ ovunque, prima di lasciarlo uscire in una nuvoletta biancastra.
    N0v1Q97pMDnFXJ
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    Edited by mephobia/ - 14/1/2018, 17:01
     
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    Non era un ribelle per il solo allineamento politico, Will; faceva parte di quella gioventù che di droga ed alcool aveva fatto una religione, che la diplomazia, quando non esplicitamente richiesta da situazioni più grandi di lui, gli poteva leccare le chiappe. Faceva parte, il giovane Barrow, di quella lista di persone che, seppur maggiorenni e fottutamente vaccinate, quando venivano chiamate nell’ufficio del preside provavano solo una sensazione: paura. Quello stronzetto bastardo di un Baudelaire, dopo avergli lasciato una meravigliosa baguette alla cocaina, aveva ben deciso di sparire nel nulla – dubitava che gliel’avrebbe mai perdonato, il Corvonero, malgrado avesse apprezzato il suo dono d’addio. Sapeva che Cole era un sadico razzista, un bel biondone pezzo di merda dal sangue freddo come le iguane, ma.
    Ma, William, lo conosceva da anni. Sapeva cosa poteva permettersi, quando poteva permetterselo, e come - e sapeva che se ne sbatteva troppo poco, di quella scuola e degli inutili plebei che ivi abitavano, per prestar attenzione agli strategici cambi di guardia con il quale i giovani membri della Resistenza venivano portati al Quartier Generale. E potevano forse metter sul trono di spade un bonaccione come il Campbell? No, certo che no, perché facilitare la vita di Will? Neanche mettervi Damian o la Queen avrebbe peggiorato la situazione: cento volte li avrebbe preferiti, vice ministro e pavor torturatrice, a quel perfetto sconosciuto dagli occhi a palla ed il sorriso malsano.
    Eh, che vita di merda.
    «permesso…?» arcuò le bionde sopracciglia affacciandosi sull’ufficio del preside, un certo Biochemists Van Lidova (Cristo, era uno sciogli lingua? Un anagramma? Un codice segreto? Nel dubbio, Will lo chiamava Il Chimico, ma certamente non di fronte a lui). Non gli piaceva essere reclamato dal preside di Hogwarts, chi minchia s’inculava gli assistenti? Erano lì per far figura, fingere di essere più intelligenti dello studentato, ed offrire lezioni di tutor conosciute meglio come terrorismo psicologico sulle capre - insomma. Perché non avevano chiamato il docente di Strategia, invece di scomodare Will? Sì che era un assenteista infame, per lui solo lame, but still.
    «venga pure, signor…» Signor! A lui!. «mi chiami pure will» «…barrow» Eh vabbè, allora chiamami come cazzo ti pare. Gli rivolse un debole sorriso, falso quanto le scuse che propinava a Niamh quando la svegliava a causa dei suoi coiti - sks sis se qualc1 qui scopa. frigida -, prima di accomodarsi sulla poltrona innanzi alla scrivania dell’uomo. Intrecciò pudicamente le dita in grembo, trattenendosi così dal grattarsi distrattamente la nuca, o qualsiasi altro gesto che avrebbe potuto rivelare il suo nervosismo: il ritratto della quiete, con quei ricci biondi d’un’altra epoca e le labbra curvate pigre verso l’alto. «voleva vedermi?» domandò, giusto perché il Preside non pareva affatto intenzionato a voler rompere il silenzio – un quesito ovvio e stupido che gli punse subito la lingua: odiava sottolineare le cose fottutamente palesi, passando così per idiota. Certo che voleva vederlo, altrimenti perché chiamarlo nel suo ufficio? Per fargli fare ginnastica? Anziché rispondergli, il Chimico sollevò un corvino sopracciglio ed aprì un cassetto della scrivania; prese un tomo, nuovo ed apparentemente mai aperto, e lo lasciò cadere con un tonfo secco di fronte al Barrow.
    Non gridò come le Chanels in Scream Queens solamente perché, pur non sembrando, aveva un briciolo d’onore. Non lo guardò neanche, il Preside – non Will, non il saggio che aveva appena scaricato con poca grazia, quasi disgusto, sotto i suoi occhi.
    E tacque. Will strinse le labbra fra loro, lo sguardo alzato verso le foto dei presidi che decoravano la stanza - Cole, ti venisse un crampo al culo- alla ricerca di risposte nei loro saggi (ma dove) ritratti. Spoiler alert: non lo cagarono di pezza manco loro. «è per me?» domandò infine, il gomito piegato sul bracciolo della sedia, mentre l’indice andava a picchiettare sul labbro inferiore. Si sentì tanto una tredicenne dalle gote arrossate che, sorridendo impacciata, domandava se le rose fossero davvero destinate a lei: ho già detto che odiava essere chiamato nell’ufficio del suo superiore? Turbe giovanili, sicuramente. Non aveva problemi ad uccidere, a mutilare o a torturare, ma l’ansia da esami e test non gliela toglieva un cazzo di nessuno. Talvolta provava timore (#iWinstonmifannocosìpaura) anche quando al mattino Mitchell, facendo il cruciverba, leggeva ad alta voce le definizioni e cercava, critico come solo un Mitch poteva esserlo, i suoi occhi per sapere una risposta PALESEMENTE ovvia, a suo dire - no, Mitch, cristo non lo so, non ho neanche bevuto il caffè lasciami stare NON SONO MENO INTELLIGENTE DI TE, STRONZO - magari perfino divertente, secondo il suo contorto e mistico senso dell’umorismo. Will amava il suo migliore amico, ma era davvero
    Davvero
    Un subdolo Winston Corvonero del cazzo, talvolta.
    Il Chimico gli rivolse un’occhiata che fece rimpiangere il biondo Barrow d’essere nato, gli occhi privi di ciglia a scandagliare la sua figura quasi fosse stato un sostituibile pezzo d’arredamento – non che potesse dargli completamente torto, ma insomma. Decise di prenderlo come un sì. Allungò le mani sul fascicolo, e rapido il Preside poggiò le dita fredde sulle sue – di nuovo soffocò il gridolino, ma non riuscì a trattenere anche l’imprecazione masticata malamente fra i denti. Così malamente che, nella migliore delle ipotesi, il preside non riuscì a cogliere l’insinuazione sui facili costumi della madre. «ordini dall’alto» deglutì, Will, ignorando il sorriso da squalo dell’uomo.
    Eh Cole, spero che una medusa ti si attorcigli attorno al pene.
    Annuì, poggiò il tomo sulle proprie ginocchia. Fu così stolto, pensate, da attendere una spiegazione! Sti giovani. «è ancora qui?» Ovviamente. Ed allora anche il Barrow, portato allo stremo, decise di dimenticare le buone maniere: «no.» perché era pure simpatico, William Barrow, quando minava alla propria vita.
    Con il volume sotto braccio ed una sigaretta già fra i denti, abbandonò l’ufficio del Chimico con la rapidità che avrebbe mostrato solamente se qualcuno (Arci) gli avesse detto che Akelei fosse andata a comprare nuovi completi intimi - veloce, molto veloce. Per tutta la strada non potè fare a meno di lanciare ingiurie all’uomo ed a chi l’aveva inventato, non tralasciando insulti creativi agli antenati dei Van Lidova. Fu solamente quando si ritrovò nei cortili della scuola che, accendendo una sigaretta, diede uno sguardo al Saggio – rapido ed indolore, si disse, ignorando le centinaia di pagine a pesargli fra le mani.
    Orbene. Date le ultime scaramucce con i babbani, il Ministro aveva deciso di inserire un nuovo campo nella materia scolastica di Strategia: armi. Rivoltelle, mitra, cannoni.
    I ragazzi ne sarebbero andati pazzi – anche lui, all’idea di poter sparare a qualcosa, un poco fremeva.
    Sapete cosa gli piaceva meno, però? I compiti. Si aspettavano davvero, davvero, che William stilasse uno schemino sulle armi da fuoco? Era forse un quindicenne alle prese con i GUFO? Non credeva proprio. «seh» sbuffò, in una risata divertita, al nulla, una nuvola di fumo a pendere leziosa dalle labbra dischiuse. Anche solo per pensare di dover fare una cosa del genere, aveva bisogno di qualcosa di più forte del mero tabacco – magari una striscia di cocaina, una bottiglia di vodka. Si accontentava anche di una buon vecchia ma sempre ben accetta canna, eh. Dov’era quello stronzetto di suo cugino, Jeremy, quando serviva? Dov’era la cricca dell’Anello, come Will definiva i fratti sin dalla primissima generazione, quando di loro v’era bisogno?
    Bastardelli. Li avrebbe bocciati tutti.
    Ora. Da prima bravo studente con attitudini discutibili, e poi semi docente con un’etica assai aperta, sapeva perfettamente dove cercare erba - aka dove cercare giovani a cui fotterla senza pudore.
    La prima tappa, furono le serre. Nisba, nada, nein - non era quello il posto di Phoebe e Bells? Maledette. Metodico, come ogni bravo stratega, seguì la sua mappa di posti segretih in ogni suo punto – sbattendosi perfino fin sulla torre d’Astronomia, per dire, che arrivato in cima aveva già perso due polmoni e mezzo. Aveva dovuto perfino intrattenere cortesi convenevoli con la Beech - «vuoi una bombola d’ossigeno, barrow?» «no sks accetto solo bambole gonfiabili» – prima di riuscire, finalmente, a trovare il suo Tesoro. Salì quatto quatto, il Barrow, gli ultimi scalini della Torre dell’Orologio, attratto dalla scia densa di fumo a titillargli le narici. Si affacciò appena intravedendo il profilo della Walsh – Tassorosso, Quidditch, Instancabile scansafatiche nell’ambito scolastico, ma soprattutto: molto *wink* rilassata *winkwink*.
    E prendendo esempio, come ogni adulto responsabile, dal suo Capo, William inspirò trattenendo il fiato nei polmoni: «WALSH» così, senza preavviso, mentre faceva cadere il tomo sul pavimento in pietra della torre. Calciò con (poca) molta eleganza il fascicolo fino alla posizione nascosta, ma evidentemente non abbastanza, di Maple. «cos’hai lì? uh-uh» curvò le labbra verso il basso, le sopracciglia corrugate con disappunto mentre la lingua, contrariata, schioccava contro il palato. «consegnala immediatamente a chi di dovere» impettito, perfino!, in quel suo allungare il palmo aperto verso di lei, le dita della mano opposta a tamburellarvi.
    Mitchell sarebbe stato (quasi) fiero di lui.
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    Maple Walsh
    Lo sguardo fisso sul nulla, a guardare la linea dell’orizzonte. Un orizzonte apparentemente tanto vicino da poter essere accarezzato con la punta dei polpastrelli, se solo avesse avuto la forza di allungare una mano, ma che in realtà non avrebbe mai potuto raggiungere. Si incantò a fissare un albero, uno solo, solitario seppur circondato da altre centinaia di suoi simili, tutti uguali, tutti verdi, tutti molto alti. E giurò di averlo visto muoversi, quell’albero solitario, facendo una piroetta su sé stesso per poi re-infilare le spesse radici nel sottosuolo con una forza paragonabile a quella di un gigante. Doveva aver faticato parecchio, per sradicare quelle pesanti gambe, eseguire un giro completo, e poi tornare alla posizione iniziale – immaginate la fatica per spostare quel culo legnoso così pesante. Lo pensò sul serio, Maple. Poi avvicinò la canna alle labbra e si ricordò di esser fatta come una pigna. Che poi, perché si dice di esser fatti come una pigna? Cosa hanno di particolare queste pigne da poter esser definite ‘fatte’? Non siamo tutti stati fatti in qualche modo? Anche una palla è fatta, un ombrello è fatto, un libro è fatto, un biscotto è fatto, una torta è fatta, una crostata è fatta, un muffin è fatto- et voilà che la Walsh era affamata, come ogni dannatissima volta. Rilasciò un’altra nuvola di fumo biancastro con la stessa velocità con cui un bradipo corre una maratona da 50km, abbassando lo sguardo in direzione del suo stomaco per poi ammonirlo, lamentandosi del suo essere così lamentoso. Dio, fra tutte le ossessioni possibili proprio quella del cibo le doveva toccare. Ripensò a Bernardine, al suo rimproverarla quand’era bambina perché desiderava ‘tutto e subito’, e si spaventò nel notare quel medesimo quadro riproporsi distorto, con ella stessa nei panni del maggiordomo di casa Walsh. Rabbrividì e scattò su sé stessa, come fa un cerbiatto spaventato dagli abbaglianti di un’auto. Troppo concentrata nel non capire dove fosse/cosa stesse facendo/quale fosse il suo nome, sollevò lo sguardo al cielo, notando con inutile stupore il solito grigio tristissimo che vigilava sopra l’isola britannica; onnipresente, quella nuvola sembrava non abbandonarli mai, troppo grassa per spostarsi da qualche altra parte ed andare ad ingrigire le giornate di qualcun altro. La troppa luce la infastidì talmente tanto che fu costretta a chiudere gli occhi, riabbassando il capo e ripuntando lo sguardo in direzione dell’orizzonte e, in particolare, sul suo amico ballerino Albero – o almeno ci provò. Infatti, Albero purtroppo si era nascosto, probabilmente dietro il fratello Albero, la quale somiglianza era talmente tanta che l’anima curiosa della giovane tassorosso ne venne inevitabilmente destabilizzata.
    Era talmente concentrata a stanare Albero che non si accorse né dell’a) grido disumano che, apparentemente, richiedeva la sua attenzione chiamandola per cognome, né di b) il pesante fascicolo stracolmo di scartoffie che le era appena stato lanciato contro. No okay, quest’ultimo lo notò, ma la sua capacità di applicare il principio fisico di azione-reazione appariva estremamente rallentato, tanto che il suo corpo necessitò di qualche istante prima di capire di essersi fatta male, così come il suo volto impiegò il doppio del tempo per assumere una smorfia di dolore. “Qui?” aveva chiesto sinceramente confusa, con un’espressione contrariata stampata in faccia, guardando in direzione dell’assistente di Strategia. Will Barrow. Will hogliocchipiùazzurrideituoi Barrow Maple non hai gli occhi azzurri. Qualche volta a lezione, fra uno sbadiglio e un altro, gli aveva intensamente fissato il didietro, trovandolo decisamente più interessante di qualunque capitolo l’insegnante avesse deciso di affrontare quel giorno. Il problema principale della Strategia, a parer di Maple, era che richiedeva la perfetta funzione di fin troppe rotelle, tutte perfettamente oliate e capaci di incastrarsi alla perfezione fra di loro; una sorta di teamwork impeccabile di neuroni che – sfortunatamente – il più delle volte si ritrovavano in uno stato di vita latente per quanto la riguardava. Le ci volle qualche istante d’intensa analisi, composta da un vago scambio di sguardi, dalle iridi azzurre al palmo ruvido di lui, poi alla sigaretta che teneva fra l’indice e l’anulare, e via ancora a ripetere quel circoletto. Poi sorrise. Un sorriso lieve all’inizio, appena accennato, gradualmente trasformatosi in un’apertura più ampia, a pieni trentadue denti, che sfociò in una grassa, rumorosa e divertita risata. Non lo faceva con cattiveria Maple, era solo estremamente rilassata, e quel Will non aveva un’espressione abbastanza autoritaria per poterla privare della sua Amica. Era entrata in quello strano loop in cui continui a ridere, anche se di divertente non vi è assolutamente nulla. Appoggiò il palmo libero all’altezza degli addominali, stringendo alla vana ricerca di un metodo per alleviare il dolore che la continua contrazione le stava provocando; provò anche a trattenere il fiato per qualche istante, ma l’unica cosa che ne seguì fu l’inumidirsi di entrambi gli occhi ed uno strano ed imbarazzante grugnito non appena permise all’ossigeno di rientrare nei suoi polmoni. Ad esser sinceri, un po’ la infastidiva sapere che qualcun altro era entrato a conoscenza del suo posto segreto, il nascondiglio dove aveva preso l’abitudine di rifugiarsi ormai quasi quotidianamente, incapace di privarsi della sua porzione di tabacco; ma doveva anche riconoscere che il tipo che le si era piazzato di fronte aveva affrontato ben quattro rampe di insidiose scale (contanti più di un centinaio di scalini ciascuna!), pur di avere la sua piccola dose di piacere. Gli diede le spalle con una nonchalance degna di un oscar alla carriera, tornando a fissare la vasta distesa di alberi che circondava le mura del castello, con le gambe incrociate a sfiorare con le ginocchia la roccia fredda della Torre.
    A questo punto, le si presentavano due diverse possibilità: condividere, o cedere. Siamo sinceri, quel Will sarebbe stato perfettamente in grado di sfilarle l’oggetto del desiderio dalla mano e filarsela tutto contento, senza spendere un Galeone e con circa metà spinello da assaporare in solitudine. Avrebbe perfino potuto chiamare un qualche altro professore, o chi per lui, farla mettere in punizione e comunque ottenere l’oggetto – a meno che non fosse stato così idiota da aver scelto il prof di Storia della Magia, quello aveva un evidente problema con la droga, se la sarebbe presa tutta per sé senza neppure batter ciglio. Con molta difficoltà riuscì a soffocare quella risata, ritenendo che il dolore provocato all’altezza della fascia addominale avesse raggiunto il limite di sopportabilità. ‘Almeno hai fatto il tuo workout giornaliero!’
    “Stavo pensando - cominciò - ma secondo te esistono gli zombie?” no, in realtà non era a quello che stava pensando, ma le era ritornata alla mente una notte in cui si era svegliata tutta d’un colpo, sudata, terrorizzata, con un’enorme magone piantato nel bel mezzo della trachea, convinta che Jess avesse improvvisamente scoperto di essere morta e di avere una strana passione per i cervelli umani crudi, ed in particolare di quello che portava il nome di Maple Walsh. Roba strana, gli Zombie, così morti eppure così vivi, sempre affamati di una cosa così triste ed insapore. Avvicinò ancora il filtro alle labbra, aspirando con meno avidità di quanto avesse fatto in precedenza, spostandosi appena verso sinistra in direzione della parete della struttura. Creò così un piccolo spazio, abbastanza largo da permettere al neo-arrivato di posare il suo grazioso e rotondissimo fondoschiena al suo fianco. Se doveva condividere, quello doveva sedersi, il suo starsene lì in piedi le aveva dato una spiacevole sensazione di oppressione e ansia.

    Hufflepuff
    sixteen
    napstipated 24/7
    2:15pm
    keep your bad vibes
    out of my cornflakes


    Edited by tired™ - 18/10/2017, 11:34
     
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