If you wanna break these walls down, you're gonna get bruised.

gemes x run

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    adjective.
    1. deliberately impassive or expressionless;
    2. displaying no emotional or personal involvement;
    winbecause you don't know how to lose
    gemes hamilton | telekinesis

    Socchiuse le palpebre, la testa china ed un sorriso che, nella penombra dell’ennesimo antro dimenticato da qualsiasi Dio li avesse mai osservati, nessuno avrebbe visto storcergli le labbra, mera piega su un viso appena incorniciato da una corta barba bruna, vuoto d’ogni caratteristica che avrebbe dovuto rendere quella sottile crepa sulla pelle qualcosa di umano. Non che di umano, in Gemes Hamilton o nel suo sorriso, ci fosse mai stato molto – non v’era mai stato nulla se non quel fuoco divoratore più che tiepido torpore a riscaldare un’anima che il telecineta non vantava avere, se non il più radicato ed antico dei sentimenti: rabbia. Furia, che nel corso degli anni si era presa il posto che sempre aveva agognato nell’animo umano, e che in ben pochi trovava una dimora tanto accogliente – una casa le cui pareti da quella collera erano state ridotte a brandelli di cenere ed infissi bruciati, e sui quali resti era stato gettato simbolico sale ad impedire una rinascita. Rancore, che sulla polvere ed i detriti di ciò che aveva incenerito con lo scorrere del tempo aveva eretto il proprio trono di pece. Non c’era nient’altro se non odio, ad imporsi su quel sorriso. Poteva farlo apparire come tante cose, anche senza davvero impegnarsi a tal fine - seducente ed accattivante, gli bastava alzare un angolo delle labbra per piegare i temperamenti più riluttanti, la realtà stessa delle convinzioni di ogni singolo individuo, ai propri piedi: c’era tutto e non c’era nulla, nella dentatura perfetta che appena faceva capolino quando la bocca si schiudeva. Poteva sembrare, agli occhi di coloro che avevano l’immensa fortuna di scambiare uno sguardo con il telecineta, come il più variopinto degli arcobaleni, splendenti sfumature di colore a decorare la carne: era a discrezione dell’interlocutore, poi, scegliere la sua tonalità prediletta. Erano liberi di scegliere, e Gemes in quanto fiero sostenitore del libero arbitrio lesinava dal negare un tale privilegio – felice, frustrato, isterico, derisorio, nervoso, divertito; poteva essere ogni cosa che desideravano fosse, ed era indubbiamente in grado di esserlo con perfezione, ma così come il più sgargiante degli arcobaleni su uno sfondo celeste nasceva da un singolo raggio di sole riflesso in una goccia d’acqua, così anche quella piega nasceva da una singola rifrazione. L’ottica poteva cambiare, il punto di vista essere discutibile, l’opinione personale portare a dargli un’interpretazione ed il desiderio a chiedere che ve ne fosse un’altra tra le crepe; la sostanza, era sempre la stessa: non c’era niente. Non c’era mai stato niente - solo una cupa luce opaca, rifratta con cura in un prisma di cristallo che i detriti e la polvere in venti anni avevano fabbricato, consolidandosi a nuova vita.
    Se solo l’avessero visto, mentre luci e ombre giocavano ad accavallarsi tra le mura di quel rudere nascosto, avrebbero quasi potuto sentir scivolare come calda cera sulla pelle l’odio ed il disprezzo più puro, per quanto intenso e per quanto nemmeno tentasse di mascherarlo dietro inutili finzioni – appiccicoso e bollente caramello, rovente e doloroso sull’epidermide. Eppure com’ogni dolce proibito, segreto desiderio ad annidarsi tra gli anfratti più reconditi dell’anima, se ne chiedeva sempre un po’ di più - lui, di certo, non lo negava.
    Un sospiro strozzato, unica conferma che il telecineta non era da solo in quella stanza, sebbene la sola partecipazione del suo ego avrebbe potuto riempirla completamente: era quel tipo di persona, l’Hamilton, che semplicemente esistendo sembrava occupare più spazio di quanto effettivamente non facesse, espandendosi fin dove non era nemmeno fisicamente. Premette col piede sul fianco del corpo a terra senza nemmeno voltarsi verso la fonte del rumore, mentre distratte le dita andavano a grattare la pelle sotto la barba, facendolo rotolare alla fioca luce offerta da un sole calante, che timido filtrava tra le numerose crepe a spaccare le diroccate mura tinte d’asettico bianco: sul volto dell’uomo, riflessa nelle iridi verdi che ormai vacue miravano il soffitto ed espressa dalle labbra dischiuse, c’era ancora la sorpresa che l’aveva colto nell’istante in cui l’acciaio della lama del Cacciatore, fattasi strada tra carne e ossa, aveva premuto sul muscolo cardiaco, palpitanti sul ferro gli ultimi scocchi di un’infima vita bloccata nel fiore degli anni – l’ennesimo nome da aggiungere alla lista di quelli che già aveva dimenticato, un’altra spunta a segnare la fine di un’esistenza che aveva virato nella direzione sbagliata. Solo dopo qualche istante, quando un flebile «ti prego…» si levò dalla postazione della ragazza, costretta su una sedia da Gemes stesso, si preoccupò di porgerle la propria attenzione, la testa appena reclinata in sua direzione. Non che avesse intenzione di ascoltare qualsivoglia supplica della donna: le stesse, inutili, parole scandite dal terrore di quel che stava per accadere non potevano di certo cambiare le volontà dell’Hamilton – sempre uguali, dopo anni poteva quasi persino esserne annoiato. Quasi. In realtà, era sempre così soddisfacente venire pregati, venerati: era il loro Dio in quel preciso istante, e come tale aveva sempre fatto in modo di comportarsi – violento, vendicativo, crudele; non aveva mai sentito parlare, il ventiseienne, né aveva mai avuto l’occasione di conoscere entità divine di altra natura. Costoro che invece ci provavano a ricevere una benevolenza che mai era rientrata tra le qualità del moro, dovevano sempre aver sentito parlare di dei diversi dai suoi. «hai paura di rimanere da sola?» domandò, interrompendo qualsiasi cosa ella avesse da dire. Non aggiunse altro, lasciando la perplessità insinuarsi negli ansimi; effettivamente, poteva apparire come un quesito fuori contesto, di alcuna utilità per nessuna delle due parti. A Gemes, delle paure di lei, ormai non poteva interessare nemmeno ai fini dello studio del nemico: non avrebbe di certo cambiato nulla. A lei… beh, a lei non avrebbe giovato nulla in ogni caso, quindi acab.
    Ovviamente, per Gemes Hamilton assumeva un senso tutto proprio, personale.
    Così tanto, da non esserlo mai stato – così tanto, da essere sempre stato troppo personale.
    «“tutto il nostro male,» continuò, tacendo le prime proteste della ragazza avvicinandosi, il piatto del pugnale premuto contro le labbra ed un morbido scuotere del capo a zittirla – poteva quasi sentirle di nuovo, le voci di lei e del suo defunto collega, a dirgli che non sapevano nulla, che loro non c’entravano, che non ne avevano idea. Come se bastasse a redimerli. Come se bastasse a saziare una sete di vendetta che andava alimentandosi giorno dopo giorno. «viene dal non poter stare soli”» Si inumidì le labbra, nascondendo nel buio di quel Laboratorio un’ombra a scivolare indesiderata sul viso – perché, quel senso tutto personale che aveva assunto la faccenda, non era così personale.
    Non lo era.
    Non poteva esserlo, di certo – al sicario che fu, non aveva mai fatto né caldo né freddo il rimanere da solo. Si era sempre bastato, ed era sempre stato tutto ciò di cui aveva avuto bisogno – era piacevole e gratificante avere una folla a circondarlo, che in egual modo lo temeva e lo ammirava, ma non così vitale.
    Doveva essere una di quelle controindicazioni che quel bastardo di un Lancaster aveva omesso prima del fatidico rito di Novembre, e che ora si portavano dietro lui, Heidrun ed Eugene.
    Doveva essere il motivo stesso per il quale era arrivato fin lì, a prudere sul palato: Idem. Non l’aveva mai capita davvero la Withpotatoes, così cristallina e pura da risultare un campo impervio per Gemes, ma una cosa l’aveva intuita – sua egoistica interpretazione, più che fondata realtà -: alla psicomaga, non piaceva stare da sola. Non che non fosse in grado di adattarsi, ma era indubbio che in compagnia ella si trovava più a suo agio: per gli esseri umani nulla è più doloroso della solitudine, e chiunque sarebbe stato meglio se solo non fosse stato solo. L’aveva sempre vista, sempre odiato quel tanto da non essere mai stato abbastanza, nei più sinceri sorrisi rivolti a chiunque, nell’innocenza dipinta sul volto, nei due zaffiri incastonati al posto degli occhi che elargivano teneri sguardi a chiunque le capitasse a tiro, che ella aveva bisogno dell’altro, chiunque questi fosse – e non ne aveva mai fatto segreto, con se stessa né con altri. Necessitava, Idem, di qualcuno a cui indirizzare tutto quell’amore: da sola, non poteva starci. Non poteva tollerare, Gemes Hamilton, che stesse da sola.
    Tutto, pur di non credere che quel fastidio fosse unicamente suo: era meglio adattare gli scritti e le storie alle vite altrui, piuttosto che considerare che potessero riferirsi alla propria persona. Era più facile.
    La donna, tale… Menta?, Cynthia?, Pinta? – ah, ma a chi interessava dopotutto? -, sembrò quasi volerlo ignorare, supplicandolo ancora e bagnando le parole delle prime lacrime di cedimento. Molto rude, da parte sua. «dovresti averne,» rispose al suo stesso interrogativo, allontanandosi di qualche passo. Aveva ormai appreso che era un’inutile perdita di tempo, perseverare alla ricerca di informazioni su dove fosse sua sorella: ciò non significava che quei due ex dottori avessero alcun diritto di passarla liscia. Ultimamente, quel business di ricerca di estremisti che aveva da qualche anno portato avanti come una sacra missione era quasi passato in secondo piano – a dire il vero, non sapeva dire nemmeno lui il motivo. Tornare ai vecchi ritmi, però, lo faceva sentire appagato. Controllò l’orologio, avvicinandosi sempre di più alla porta scorrevole. «perché non ho sinceramente tempo, né voglia, di rimanere qui ancora» sentenziò, piegando la testa. Aveva una festa alla quale partecipare, Gemes Hamilton, e di certo non aveva intenzione di pulire altre tracce di sangue dalle proprie mani – non quella sera, perlomeno. Senza contare che la punizione che stava per serbare alla ragazza, altro non era che quella che più si meritava: quante ne aveva viste ella di cavie, chiuse dietro sbarre di ferro, lasciate sole a marcire in una cella? Tante, probabilmente troppe. Non gli interessava se aveva una famiglia dalla quale tornare, figli che l’attendevano sull’uscio di casa, amici con i quali avrebbe dovuto condividere un bicchiere di burrobirra tra una risata e l’altra.
    Quella, era probabilmente la sorte che stava subendo Idem: per par condicio, doveva patire le stesse pene – più plateali, probabilmente molto più grevi, ma quello era il modo di agire dell’Hamilton. «confido tu utilizzi questo tempo che ti rimane» nda: poco «per riflettere sulla mia domanda» concluse, una mano già sulla maniglia della porta. Senza viveri, senza bacchetta e legata ad una sedia priva di alcuna via di fuga, poteva sperimentare appieno cosa significasse quel tipo di solitudine. Le diede un ultimo sguardo, un sorriso spento dipinto sul volto mentre già il pesante portone si chiudeva sotto il tocco della telecinesi. «game over.»

    Posò lo sguardo ceruleo, freddo come il più settentrionale dei ghiacci, sul ragazzo al suo fianco: uno studio approfondito il suo, volto a chiedersi perlopiù quale fosse il problema di fondo del giovane. Perché senza dubbio, Mascella Storta qualche problema ce lo aveva – solo che, e diamo la colpa all’alcol, l’Hamilton ancora non era riuscito a venirne a capo. Della festa di compleanno della Crane, come prevedibile e predetto (maledetti chiaroveggenti, sempre pronti a guastare il divertimento), ricordava poco e nulla. Rimembrava il momento in cui Run era uscita esaltata dalla sua stessa torta, e di come la sua entrata in scena avesse sancito l’inizio della fine – un po’, la vita di Heidrun riassunta in una frase breve. Non poteva di certo dimenticarsi le innumerevoli volte che aveva maledetto lei e il Jackson per il loro essere così loro, maledettamente disfunzionali in un mondo che già di suo non funzionava affatto. Tralasciando piccoli dettagli, ricordava solo di aver bevuto troppo. Non avrebbe nemmeno saputo dire da quanto tempo era immobile a guardare una delle poche sagome ancora in piedi tra la massa di persone collassate nel Better Run; non sapeva nemmeno dire perché, fosse lì fermo. Ma tant’era. «oggi ho ucciso due persone» disse, guadagnandosi la sua attenzione ed un sorriso ebete dipinto sul volto. «beh, in realtà una l’ho effettivamente uccisa, l’altra l’ho lasciata a morire di fame e sete» perché, glielo stava dicendo?
    La domanda, in realtà, era “perché non avrebbe dovuto?”. Probabilmente, per più motivi di quanti non aveva intenzione di pensare, ma indovinate a chi non interessava? A Gemes Hamilton, esatto. E, evidentemente, nemmeno al giovane superstite – il quale, come fosse una barzelletta, prese a ridere sinceramente euforico. O aveva qualche ritardo, o si era drogato. Sì che era carismatico e divertente, ma non pensava facesse ridere. Credeva? Era così che si sentivano ogni giorno della propria vita gli Eurun? Così confusi? Ancora non riusciva ad abituarcisi, e probabilmente non lo avrebbe mai fatto. «non dovresti r-» «vuoi un cupcake?»
    Perché.
    Perché.
    Perché.
    Sbatté un paio di volte le ciglia, la bocca socchiusa da quando era stato interrotto, incredulo. «no?» tentò infine, scivolando sullo sgabello un po’ più lontano dal drug!teenager. Così, per precauzione. «dai» «no.» «sono buoni» Di solito, era lui quello inquietante in uno scambio di battute: non era mai stato quello inquietato, era una sensazione del tutto nuova – quindi, ancora, rendiamo il merito all’alcol. «sei un pusher?» domandò, ma ancor prima di sentire la risposta afferrò uno dei dolci: se fosse stato positivo il responso, si disse che non sarebbe poi cambiato molto. Dubitava che il cibo offerto quella sera fosse sprovvisto di alcun tipo di droga al suo interno, tanto valeva continuare sulla stessa linea di pensiero. Si alzò in piedi quando, dallo schermo di un telefono che minacciava di spegnersi da un momento all’altro abbandonato sul bancone, apprese che erano quasi le cinque del mattino. Non che avesse appuntamenti di alcun tipo, l’Hamilton, però. «se pusher è un modo per dire pasticciere, sì lo sono» l’innocenza nella voce del ragazzo gli faceva quasi pena. «sì, lo è» rispose solenne, lasciandogli una poderosa pacca sulla spalla prima di allontanarsi.
    Con la punta della scarpa, prese a punzecchiare il primo viso che riconobbe tra quelli svenuti nel mezzo della sala – nonché l’unico che, sperava, potesse in qualche modo aiutarlo. «eugene» chiamò una prima volta, premendo sulla guancia non delicatamente: non rispose. «eugene» riprovò, premendo l’intera suola contro il volto del quasi padre – Dio, voleva quasi morire per lui: ma chi glielo aveva fatto fare? Avrebbe voluto dire che non era un problema suo, ma se in qualche modo quel bambino (o Jade) lo avesse ucciso perché negligente nelle vesti di genitore, ci avrebbe rimesso la pelle anche lui. «eugene.» tentò per l’ultima volta, assestandogli un calcio sulla spalla. «no mamma, altre cinque ore» «cosa?» «non voglio andare a scuola» Davvero, come ci era arrivato a quel punto? «sai dov’è run?» domandò, ignorando gli sproloqui. Già aveva inteso che non gli avrebbe dato alcuna risposta sensata, quindi ancor prima che potesse provarci alzò lo sguardo, cercando tra le silhouette comatose quelle della ragazza. «è qui, nel letto con me» Chiuse gli occhi dopo averla intravista in lontananza, la testa sul bancone, cogliendo appena il Jackson che si rotolava sul pavimento come una tartaruga lasciata col ventre rivolto al soffitto, palpando poi il sedere del primo malcapitato. Posò il gomito sulla mano destra, le dita a massaggiare le palpebre: nemmeno sapeva più dire perché ancora rivolgesse la parola a gente del genere. «quello è todd,» disse, espirando tutta la propria frustrazione. «e sei su un pavimento – tra l’altro sei stato inutile, come al solito» Il tempo di finire la frase, e l’uomo già era tornato a dormire. Sembrava così innocuo e sopportabile, quando sopito. Passò letteralmente sopra al suo corpo, sentendo ansimi più simili a femminili strilletti quando il piede si sollevò dalla schiena, per giungere invece al bancone.
    Fu una volta arrivato in prossimità di Heidrun, che si arrestò per un flebile istante – abbastanza da farlo pensare troppo a lungo, non abbastanza perché qualcuno potesse notare l’esitazione.
    Ho detto che dobbiamo parlare.
    Poche parole urlate in un sogno, prive di alcun vero significato – conoscendo Run, probabilmente voleva solo parlare di qualche mistica attività (bungee jumping?, arrampicata?) che voleva proporgli e per la quale già sapeva che avrebbe ricevuto un no come risposta. Conoscendola davvero, sapeva di non voler parlare affatto di qualsiasi cosa ella avesse la necessità di confidargli. Parlare, poi, non era una delle attività che preferiva – con degli sconosciuti, poteva farlo all’infinito, elogiandosi perlopiù.
    La sua, improvvisamente, gli parve un’idea stupida – tanto da fuggire.
    Si inumidì le labbra, ed accantonando ogni pensiero prese il volto di Run tra le dita, scuotendola appena. «crane, non dormire» la chiamò, dandole appena il tempo di destarsi prima di prenderle le mani - un prurito sull’epidermide, un brivido a scivolare fino alla schiena. «vieni con me» disse semplicemente, prima di teletrasportarsi portando la mimetica con sé.

    Non era portato, Gemes Hamilton, per i regali. Li aveva sempre visti come una pratica insulsa, convenevoli inutili – soprattutto da parte sua: la sua presenza, era il dono più magnifico che potesse fare ad una persona. Eppure, sapeva che a Run avrebbe fatto piacere – e si odiava, e la odiava, per questo. Non sapeva nemmeno perché, volesse farle piacere. Non aveva alcuno scopo, nessun fine a spingerlo sulla sommità del Tower Bridge nei minuti che precedevano l’alba.
    Sorrise, rivolto al panorama del Tamigi sotto di loro, poche autovetture a rombare nella strada sottostante. Di certo, la ragazza era già stata lì sopra – dubitava, in vero, ci fossero luoghi che non avesse visitato -, ma a lui non importava affatto. Ma altrettanto certamente, non aveva mai avuto l’occasione di suonare il pianoforte su una delle torri del ponte: perché avrebbe dovuto?
    «voglio insegnarti a suonare,» annunciò dal nulla, sfiorando con i polpastrelli la superficie lucida della cassa del pianoforte, portando lo sguardo sulla Londra sottostante. «ed ho ragione di credere» continuò, spostandosi sui tasti. Le dita, assorte e spinte dall’abitudine, e da una passione che era sempre stata soltanto sua, saggiarono i pulsanti bianchi con una leggiadria che pochi pensavano potesse appartenere al ventiseienne. Nemmeno se ne accorse, l’Hamilton, che gli occhi, guazzi di gelido azzurro ben distinguibili nella penombra di un giorno non ancora sorto e privo di vento, s’erano distaccati dai bagliori delle ultime stelle riflessi sulle acque del fiume; mentre lei ancora osservava dall’alto la capitale inglese che lenta sembrava svegliarsi ai primi, soffusi chiarori dell’alba, Gemes osservava lei - il suo profilo, le boschive iridi nascoste dalle palpebre socchiuse e ancora assonnate, i morbidi capelli castani a scivolare sulle spalle -, e le mani suonavano melodie che mai ad altri aveva fatto sentire. Che mai, egli stesso, aveva mai voluto suonare.
    Ed era tutto così sbagliato, da essere maledettamente giusto. «che imparare a farlo con una meravigliosa vista davanti agli occhi sia ottimale» smise di suonare nel momento stesso in cui riportava lo sguardo sull’orizzonte, un sorriso sornione già a deformare la piega delle labbra: fintanto che gli occhi non si incrociavano, poteva fingere che lei non sapesse che la stava guardando – così come era certo fosse anche per lei.
    Fintanto che non si immergeva in quella fitta boscaglia, poteva ancora credere che Gemes Hamilton ed Heidrun Crane non fossero nulla, che non ci fosse nulla.
    Era quando accadeva che era difficile, persino al più menzognero degli imbroglioni, mentire – non tanto agli altri, quanto a se stesso.
    «ovviamente,» riprese, schioccando la lingua contro il palato «quando parlavo della “meravigliosa vista”, mi riferivo a me: mi sembrava abbastanza scontato, ma è sempre meglio specificare» concluse, invitandola a sedersi davanti alla tastiera.
    Ovviamente, quando parlava della meravigliosa vista, Gemes Hamilton parlava di altro.
    Parlava di cose, che non avrebbe mai espresso a parole – non in pubblico, non per colpa dell’alcol, né nell’inerte solitudine della propria stanza.
    Parlava di sensazioni, che rapido celava dietro un paio di palpebre calate, le dita a premere sulla radice del naso per quietare un principio di emicrania; di sensazioni, che non voleva provare e che non aveva mai provato.
    Parlava di persone, come non aveva mai fatto in ventisei anni di vita, troppo immeritevoli le vite altrui per meritarsi un posto d’onore sulla lingua e nel fiato del telecineta.
    Parlava di Heidrun Crane – e parlava di niente, parlava di tutto.
    stay, you're not gonna leave me -- crossfire


    Edited by al-coholism - 15/7/2017, 23:17
     
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    IMPORTANTE: all'inizio di ogni mini paragrafo, gli unici che vi consiglio di leggere se siete viandanti casuali (ma anche se non lo siete) perchè il resto non è importante #wat c'è linkata una canzone: mettete play prima della lettura, ALTRIMENTI PERDE TUTTO SENSO

    in caso preferiate spotify, qua c'è una fantastica playlist apposta per la situazione


    mimesis | 21 y.o.| 09.06.17
    heidruncrane
    we were both created in chaos, we were both born to destroy. you were like death, and i was like war. and where we collided, i loved you
    Non aveva mai pensato che sarebbe arrivato quel giorno. Heidrun Ryder Crane, Milkobitch a tempo perso, aveva avuto un'unica certezza in un mondo fatto di incongruenze e colpi di scena: sarebbe morta a vent'anni. Non ventuno, non diciannove: il nove giugno del duemilasedici, Run avrebbe dovuto morire. Non si era mai spinta ad immaginare quale sarebbe stato il suo futuro, consapevole di non averlo: aveva respirato ogni granello d'ossigeno contandolo ed assaporandolo sulla punta della lingua, gustato ogni grumo di sangue fra i denti a rimembrarle che viva, seppur per poco, lo era ancora. Quando nasci per morire, tendi a dare un differente peso al mondo che ti circonda - alle persone. Con quel tempo contato a gravare in ogni battito, Run aveva amato come avrebbe fatto in cento vite, dando tutto senza chiedere niente. Non aveva fatto alcuna cernita, non si era dosata - si era finita goccia dopo goccia, unica consapevole che quell'amore aveva già il retrogusto amaro dell'addio. Che tutti, e si sapeva, sarebbero morti.
    Ma era il non sapere quando, a rendere l'uomo cauto: lei, quegli accorgimenti, non li aveva mai avuti. Non ne aveva avuto bisogno, in quei sorrisi sempre pregni di segreti e sporchi di ironica malizia, le palpebre socchiuse a mostrare solo la parte più scura dell'iride ambrata.
    Qualcuno avrebbe dovuto avvisarla. Qualcuno avrebbe dovuto spiegarle che non era così che si viveva, che ci volevano precauzioni ed accortezze a girare in quel mondo. Qualcuno avrebbe dovuto insegnarle a sopravvivere, a lei che sapeva solo vivere o morire.
    Deglutì, le spalle sottili premute contro la panchina.
    Non aveva mai pensato che avrebbe compiuto ventun anni, eppure l’indomani sarebbe stato il suo compleanno.
    Strinse la tazza di caffè con entrambe le mani, i denti a mordicchiare distratti il bordo di carta. «non…» lasciò quel non sospeso, incapace di concludere la sentenza. Non cosa, Run? Avrebbe dovuto essere felice, su di giri per la festa oramai imminente. Eppure la Crane pareva aver dimenticato a casa la patina d’allegra vivacità che l’ammantava da sempre: un paio di labbra carnose curvate verso il basso, gli occhi verdi a sfiorare annoiati il cemento del marciapiede. Deglutì, inspirò. Bevve un sorso di caffè, prima di sospirare sopra la tazza la sua frustrazione. «non so cosa fare» ammise infine, le palpebre a celare il dubbio. Dirlo ad alta voce fu liberatorio, ma non quanto avrebbe voluto – c’era qualcosa, c’era sempre qualcosa, ad ostruirle la gola ed i pensieri. Jade era al suo nono mese di gravidanza. Sinclair era suo zio – e di conseguenza, Murphy era sua cugina. Jeremy e Todd erano al loro ultimo anno, ed usciti da Hogwarts sarebbero andati a vivere tutti e tre insieme, lontani da New Hovel. River era ufficialmente nato, ora parte di una vita nel quale aveva finto non esistesse per mesi.
    Era morta.
    Era morta.
    Il fatto che fossero passati sette mesi non rendeva la questione meno spinosa, né gli incubi meno ricorrenti. Heidrun aveva sempre avuto paura di tante cose, ma non aveva creduto, fino a sette mesi prima, che sé stessa sarebbe rientrata in categoria. Si sentiva diversa, Run. Si sentiva sbagliata nella sua pelle, nel suo mondo. Nella sua vita. Un orologio scoordinato rispetto agli altri che tentava, ancora ed ancora, di far battere le lancette all’unisono. Non funzionava bene, Run. Non l’aveva mai fatto. Ed aveva mille domande, ed aveva mille risposte, eppure le ingollava tutte fra pasticche e bicchieri di tequila, le soffocava fra risate e braccia sollevate al cielo a sentire l’aria danzare sulla pelle. Passò le unghie sulle lunghe gambe bronzee raccolte al petto, il labbro inferiore stretto spasmodico ai denti. La Crane, le responsabilità, non sapeva cosa fossero: cosa avrebbe dovuto farci con un neonato in fasce? Come avrebbe mantenuto un appartamento con i Milkobitch? Le bollette?
    Come avrebbe fatto a non morire? Il fatto che dalla sua vita dipendessero anche quelle di Eugene e Gemes, aveva a dir poco smorzato il suo … entusiasmo. Non se la viveva bene, quella seconda opportunità – perché Cristo l’avevano fatto? Non ci stava dentro, la mimetica, a quegli obblighi ed incombenze: voleva solamente essere libera, lei che libera non lo era mai stata – e lo era stata sempre, in quel poco che aveva potuto. Ma fra tutti, poi - fra tutti! - perché il Jackson e l’Hamilton? Lancaster non poteva prendere due pezzenti qualsiasi per strada e zaaac, fare la sua magia? Si sarebbe sentita meno in colpa, Run, se avesse mancato i suoi doveri. Più libera di dormire, sapendo che sconosciuti le sarebbero entrati nella testa. Non voleva che loro vedessero quel che c’era.
    Così tante cose, che ambedue non sapevano.
    Così tante cose, che non era giusto non sapessero. Se con il Jackson si sentiva meno colpevole perché , aveva rapito la sua sorellina, ma almeno aveva evitato che la gemella morisse le molteplici volte in cui i Dottori avevano proposto di farla fuori perché era un peso, con Gemes… con Gemes.
    Era diverso a prescindere. Eugene era suo amico, per Dio – probabilmente il migliore, se proprio si voleva inserire un’etichetta a quel che erano. Lo sapeva… lo sperava che un giorno avrebbe compreso: anche lui aveva fatto cose del quale non andava fiero. Non avrebbe mai potuto odiarla - ed allora perché non gliel’hai ancora detto?.
    Deglutì ancora, gli occhi bassi. Un sorriso smozzicato le curvò la bocca, amaro e dal retrogusto di usato ed abusato: non riusciva a convincersene neanche lei, che Eugene non l’avrebbe odiata. Ecco perché, dopo tutto quel tempo, ancora non gliene aveva parlato. Confidava di procrastinare ancora, la coscienza pulita dal fatto che Eugene avesse di meglio da fare, in quel periodo – tipo diventare padre.
    Ma Gemes Hamilton, nella sua vita, voleva solamente una cosa - e, tristemente per i nostri spettatori e per Run, non quello-: trovare i colpevoli. Vederlo bazzicare alla ricerca della sua personale vendetta, consapevole che avrebbe potuto offrirgli la risposta su un piatto d’argento, stava diventando… strano. Sbagliato. Dio, quante volte Shot le aveva detto di non stringere amicizia con loro («o se ti piacciono tanto, cancella loro la memoria»): erano prede, non amici.
    E poi c’era stata Elysian. E poi c’era stata April. E poi c’erano stati Neil e Nick – e Delilah.
    E poi c’era stato Gemes.
    La situazione aveva cominciato a turbarla quand’era tornata dal mondo dei morti, come prevedibile. Era diventata un dolore fisico, una malattia che consumava dall’interno ogni giorno – ed ogni notte. Non le era importato così tanto prima, quand’era stato solo un gioco. E non le sarebbe importato così tanto dopo, se solo… se solo quel gioco non avesse smesso di essere divertente. Se solo il suo profumo non avesse cominciato a diventare familiare, in quel modo stupido con cui i profumi s’incastravano nelle fibre rimanendo per ore anche quando lui non c’era più, fingendo che lui ci fosse ancora. Se solo la sua pelle sotto le dita non fosse stata così calda, a discapito delle volte in cui aveva creduto, ironicamente, che sarebbe stato freddo. Se solo non fosse stato vero, e vivo, e non solo un’ideologia. Può sembrarvi stupido, ma a lungo, per Heidrun, Gemes non era stato altro: un pensiero, un quadro astratto. Non ti aspettavi certo che i pensieri respirassero, che gravassero sulla tua spalla quando esageravano con la benza di Spaco. Non ti aspettavi che, dall’altra parte di una spessa porta di legno, ti dicessero: «so che sei lì, entra – tanto lo farai comunque». Non ti aspettavi che, durante la notte, intrecciassero esitanti le dita alle tue – e forse non se lo aspettava neanche Gemes, e forse neanche lo sapeva. E forse erano troppo testardi, ed entrambi bravi a fingere di non sapere.
    Non le sarebbe importato così tanto, se solo.
    «non so cosa ho fatto» perché lo sapeva fin troppo bene, ma pretendere di non saperlo le facilitava respirare, sorridere al sole. Perché la risposta non era plausibile, non nel suo mondo. Non in quel modo. Non era fatta per quello, lei – ed era esattamente fatta per quello, ma nessuno le aveva insegnato come farlo. Nei libri e nelle poesie lo rendevano sempre una meraviglia – scrivere di quanto aggrovigliasse il respiro, non avrebbe venduto.
    Non riusciva neanche a pensarlo, cosa aveva fatto. Era così assurdo, si conficcava così malamente in tutto ciò che aveva visto e conosciuto come tale, che proprio non ce la faceva a dargli un nome – quel nome, poi. Lei, Heidrun Ryder Crane, Milkobitch a tempo perso, Quinn di nascita ed Harvelle di fama.
    Non stava né in cielo né in terra che fosse caduta così in basso.
    «non è che – non vuol dire niente» si morse il labbro superiore, la guancia premuta sulle ginocchia. Scuotendosi nelle spalle, una ciocca scura le oscurò la vista. Non sapeva se volesse ridere, o se quel prurito alla gola fosse pianto. Perché era stanca, Run. Perché non era giusto.
    Perché non era previsto che fra le decine di migliaia di persone esistenti sulla terra, Heidrun si fosse innamorata di Gemes Hamilton - non bastava Hamilton, già di per sé discutibile.
    Gemes.
    «hai ragione, sono d’accordo – non ha alcun senso» quando giungeva a conclusioni che non le piacevano, fingeva di non esserci mai arrivata e cancellava dalla sua memoria ogni traccia della conversazione appena avvenuta – funzionava, e con successo. Li lanciava in mansarda, dove nessuno guardava mai; quelle porte che s’aprivano, se andava bene, una volta all’anno, e solamente quando si era pronti a buttare via tutto. A passarci sopra.
    Con Sinclair Hansen aveva fatto così, fingendo che non le avesse omesso la sua famiglia per anni – ed ora, era il suo zio preferito. Visto? Funzionava davvero.
    «grazie, james» aprì il sacchetto di carta dove aveva infilato la colazione per Murphy, Sin, Jade ed Euge, e prese una briciola dal muffin di Sin per lanciarla al piccione sovrappeso che, da almeno mezz’ora, reclinava il tondo capo grigio nella sua direzione. «dovremmo rifarlo, qualche volta» e gli rivolse un sorriso alla Run, quelli che giungevano agli occhi e li facevano brillare come pagliuzze dorate. «ho una festa da preparare, ci si becca» aveva pure fatto il battutone.
    Ma quando volse le spalle al volatile diretta al Paiolo Magico, non sorrideva più.

    Chiuse pigramente gli occhi, una sigaretta a bruciare densa fra i denti. Teneva la testa poggiata sul ventre di Murphy, di quello ne era certa, e le gambe allungate su quelle di Jade: le avrebbe riconosciute ovunque, loro due. Si distese come un gatto satollo, inarcando la schiena contro il pavimento del piccolo balconcino del Better Run. Malgrado non avesse mosso il capo, il cielo sopra di lei iniziò a vorticare fondendo le stelle fra loro, una stretta allo stomaco ad avvisarla che aveva decisamente esagerato con l’alcool: eppure rideva, Heidrun Ryder Crane, in quell’aria immobile e calda che solamente una notte d’estate poteva donare. «è reale?» domandò, alzando un braccio per guardare la luna sul proprio palmo. «è successo davvero?» ed ancora rise, di quella gioia che difficilmente abbandonava i polmoni dopo il primo sbuffare.
    Sì, era successo davvero. Tutto quanto.

    01. La musica pulsava come qualcosa di vivo all’interno del locale, inebriante con quei bassi a pompare a ritmo del battito cardiaco. Sarebbe bastato quello ad ubriacare la folla, il sangue giovane a rispondere al richiamo della festa – sarebbe bastata quella, ad ottenebrare i sensi abbassando le inibizioni. Ed invece giravano anche i super alcolici, e qualcosa di più - così le persone erano in subbuglio, le risate rimbalzavano sul pavimento tornando distorte, le gambe s’intrecciavano fra loro senza domandarsi perché. Le mani si alzavano al soffitto, spingendo ancora un poco più su: la si beveva, l’aria di quella festa. Avrebbe potuto nutrirsene come un incubo avrebbe fatto con la lussuria. Avrebbe potuto vivere solo di quello, Run, incapace di strapparsi dalla bocca il sorriso estasiato ed alterato.
    Rea inarcò un sopracciglio, una volta fatto capolino dalla porta del locale: non il suo genere. «esibizionista» un po’ a tutti, ed un po’ a nessuno. Passò attraverso il marasma invisibile ed intoccabile, il naturale senso di auto conservazione della gioventù a spingerli a spostarsi senza sapere il perché: giunse intonsa ed impeccabile, la Hamilton, di fronte alla festeggiata. «ho un regalo per te» le sorrise, dolce e densa come miele, lanciando alla Crane una scatola perfettamente impacchettata – grz Amos. «aw, rea» ricambiò placida l’occhiata di Run. «non dovevi» oh sì che doveva, invece. Agitò una mano nell’aria, sbattè lentamente le ciglia. Come prevedibile, la mimetica strappò la carta senza alcun rimorso; sollevò di fronte agli occhi un guinzaglio. «elijah ha detto che ne avrai bisogno» si strinse nelle spalle. «il tuo…» il suo cosa? Arcò un sopracciglio, il capo reclinato a sfidarla nel concludere. Ovviamente, lo fece – con tanto di ammiccamenti, per giunta. «ragazzo Forse le luci non le avevano reso giustizia; forse non l’aveva riconosciuta. Decise di essere magnanima e lasciarle un margine di dubbio. «il suo, ragazzo» sollevò un pollice alle proprie spalle, puntando a Nathaniel. «ed il mio fardello: sì, lui» era utile avere un chiaroveggente nello standard pack conoscenze, quando i compleanni bussavano alle porte. «come faccio ad infilare il muso del cane qui dentro?» dolce, fragile, creaturina. Fu in quel momento che Rea le sorrise – e quella volta, per davvero. Un impeto di affetto e calore che volle reputare colpa di quei debole di cuore degli Elite, a cui biasimò anche lo scarso senso dell’umorismo: «oh no, cara. La museruola è per te» Run aggrottò le sopracciglia, il bavaglio ancora stretto fra le mani. «buon compleanno, crane»
    Le luci si spensero, la musica cessò di pulsare lasciando spazio ad un suono più pulito.
    L’inizio della fine.

    02.. Paaaaamppapapapapapapapapaaampampaaaam. In piedi sul palco, dava le spalle alla folla quando la luce si accese illuminandone il profilo, solo una sagoma nel buio, celandone ancora i tratti.
    Una gamba piegata a tenere il ritmo, i fianchi a muoversi in sincrono a quelli del soggetto al proprio fianco, le dita a schioccare nell’aria.
    «Whatcha gonna do with all that junk
    All that junk inside your trunk»
    la voce di Wando ad aprire la scena.
    «I'ma get get get get you drunk
    Get you love drunk off my hump»
    Le luci infine ad illuminarli, le mani di Fred poggiate sul petto vuoto dove, un tempo, c’erano state due belle tettine da coppa di champagne.
    «My hump my hump my hump my hump my hump
    My hump my hump my hump my lovely little lumps
    Check it out»

    Le mani a ruotare ora premendo su qualcosa che non c’era, i fianchi a seguire il ritmo ondeggiando mentre avanzava verso il centro del palco.
    «I drive these brothers crazy
    I do it on the daily»
    il capo a rimbalzare sul collo, la schiena dritta e le mani palmo aperto sotto le ascelle per mostrare (l’assente) mercanzia. «They treat me really nicely
    They buy me all these ice»
    e le braccia allungate ora al proprio fianco, bandiere pronte a sventolare. «Dolce and Gabbana
    Fendi and Madonna
    Caring they be sharin'
    All their money got me wearing fly»
    a schiaffeggiarsi ora le chiappe, il torso ad accompagnare il movimento. «Whether I ain't askin'
    They say they love mah ass in
    Seven jeans, True religion
    I say no, But they keep givin'
    So I keep on takin'
    And no I ain't takin'
    We can keep on datin'
    Now keep on demonstratin'»
    uno scatto felino nel voltarsi nuovamente verso le retrovie, Fred si piegò in avanti dando un ottima visuale del suo didietro fasciato dai jeans, prima di scuoterlo verso il suo pubblico. E la voce della De Thirteenth a fondersi con quella del fratello, mentre seguendo la musica spostavano i fianchi a destra o a sinistra: «My love my love my love my love
    You love my lady lumps
    My hump my hump my hump
    My humps they got you»

    «She's got me spending» Wando a far segno di lanciare soldi nell’aria – ah, no, aspetta: erano soldi veri. Tanto, almeno quelli, li avevano.
    « Oh, spending all your money on me
    And spending time on me»
    quasi offeso, Fred, nell’indice ammonitore puntato sul petto di Wando.
    «She's got me spendiiiiing» Le mani del fratello a stringergli I fianchi, mentre lo sollevava con maestria dal suolo: Fred chiuse gli occhi ed allargò le braccia, il capo lievemente reclinato mentre ruotavano su loro stessi. « Oh, spending all your money on me
    Uh on me, on me»


    03. Aveva perfino la sua crew, lui. Piegò il capo a sinistra, le spalle anche loro tre (quattro?) alla folla, mentre il fianco si muoveva sbilenco quando la musica calava. Il palco era troppo mainstream, per quelli come lui – quelli che delle luci di scena, se ne facevano ben poco.
    Per quello erano in piedi sul bancone.
    Scattarono verso il pubblico. «ALL THE SINGLE LADIES» il busto piegato all’indietro, le braccia aperte verso il coro: «all the single ladies» e di nuovo in avanti: «ALL THE SINGLE LADIES» gridò William prima di volgere i pollici a Niamh, mr. Fitz, e Todd. «all the single ladies» i gomiti poggiati ai fianchi, mentre si spostava lateralmente come un granchio acrobata seguito dal suo parente più stretto ed amato, il cugino, e Niamh. « ALL THE SINGLE LADIES » «all the single ladies» le braccia sollevate a molleggiare: « All the single ladies
    Now put your hands up »
    Saltò giù dal palco, le mani ancora al cielo prima di infilare i pollici sotto le bretelle scure. « Up in the club, we just broke up
    I'm doing my own little thing»
    un’occhiata lasciva ad Akelei, prima di volgere il proprio sghembo sorriso ad una donzella qualsiasi presente al locale. « You decided to dip but now you wanna trip
    'Cause another brother noticed me»
    I piedi a scivolare sul pavimento con movimenti ondulatori e mistici, fingendo d’avere equilibrio aggrappandosi alle spalle di tutti coloro che gli capitarono sfortunatamente a tiro. Strinse un braccio attorno alle spalle di Gemes Hamilton, che ovviamente non sapeva chi fosse: non che avesse importanza, per diventare amici di Will. « I'm up on him, he up on me
    Don't pay him any attention »
    indicò con il dito sè stesso ed il ragazzo, prima di stampargli un bacio sulla tempia e stringersi nelle spalle. « 'Cause I cried my tears
    For three good years
    Ya can't be mad at me »
    ed allora, seguito dalle sue ballerina di fiducia, giunse ai piedi di Akelei Beaumont.
    Infilò una mano in tasca, si inginocchiò di fronte a lei. Le prese la mano.
    Aprì la busta con i denti. « 'CAUSE IF YOU LIKE IT THEN YOU SHOULD HAVE PUT A RING ON IT» prese il preservative ancora intatto, un perfetto anello di lattice, prima di infilarlo nell’anulare della bionda. «IF YOU LIKE IT THEN YOU SHOULD'VE PUT A RING ON IT» in caso non fosse stato abbastanza chiaro, cominciò a muoverlo avanti e indietro sul dito di lei.
    « Don't be mad once you see that he want it
    If you like it then you should've put a ring on it. WUH UH OH»

    Il più bel calcio in faccia della sua vita.

    04. Lanciò un’occhiata al giovane, le mani sollevate a battere fra loro tenendo il ritmo. Entrambi sul palco, anche se ancora nell’oscurità: « Children grow - clap
    and women producing - clap
    Men go working - clap
    Some go stealing -clap
    Everyone's got to make a living» Saltò sul posto, enfatizzando il concludersi del pezzo battendo le suole degli scarponcini sul legno, la luce ora ad illuminarli – uno molto basso, l’altro eccessivamente alto. Amos Hamilton, sks: Brodi Fibra, si portò il pugno destro alla bocca, il braccio sinistro ad agitarsi nell’aria: « BRODINOH – yee- CIGEI OH – ye ye ye
    We off the block this year
    Went from a little to a lot this year
    Everybody mad at the rocks that I wear
    I know where I'm goin' and I know where I'm from
    You hear Brodi in your ear
    Yea, we're at the airport out decline from the block
    Where everybody air-forced-out
    With a new white Tee, you fresh
    Nothin' phony with us, make the money, get the mansion, bring the homies with us»
    CJ entrò in scena in scivolata, le ginocchia a grattare il pavimento. Prese i soldi lanciati prima dalle sorelle di Sandy, e poggiandoli sul palmo li soffiò sulla platea. Infilò un dito sotto la collana d’oro che aveva onestamente guadagnato prendendo a mazzate uno stronzo, gli occhi socchiusi ad ammiccare ai presenti. « Don't be fooled by the rocks that I got
    I'm still, I'm still cigei from the block»
    approfittando della spinta, si mosse prima a destra e poi a sinistra, le braccia piegate da una parte e dall’altra puntando al soffitto. «Used to have a little, now I have a lot
    No matter where I go, I know where I came from»
    I pugni a picchiare con orgoglio sul petto, mentre Brodi lo indicava: «from the bronx!» con un movimento che avrebbe fatto invidia a Michael Jackson, si rialzò in piedi raggiungendo il compare rapper, al fianco del quale si sistemò con un cenno del capo.
    Le gambe leggermente divaricate, le braccia rigide lungo i fianchi.
    Scattò versa destra piegando le ginocchia, adattando un antico ballo a quella perfetta sintonia. « Don't be fooled» piede sinistro a picchiare sul palco « by the rocks that I got» mani a battere fra loro, mezza giravolta, movimento ripetuto: «i’m still» sinistra. «i’m still» destra, gamba leggermente in avanti, braccia intrecciate sul petto – ed un sorriso, quello sempre: «cigei from the block» in avanti, di nuovo entrambi raccolti a far l’arcobaleno. « Used to have a little, now I have a lot» braccia al cielo, e poi nuovamente lungo i fianchi: « No matter where I go, I know where I came from» «from the Bronx!»
    Mic drop.

    05. Non sapeva dove avesse reperito il cappello, ma fu ben felice di poter avere la visiera da stringere in modo teatrale fra pollice ed indice quando la musica iniziò le sue prime note. papapapaarapa: «let’s go girls!» spalla contro spalla al suo fedele compagno di avventure, le luci ad illuminarli mentre le dita cominciavano a schioccare tenendo il ritmo. «c’mon!» ed iniziarono a muoversi sul palco, la schiena leggermente curva in avanti per seguire la cadenza della canzone, palmi aperti ad incitare la folla a seguirli. « I'm going out tonight, I'm feelin' alright
    Gonna let it all hang oooooooout»
    le braccia a mulinare nell’aria, prima di puntare ambedue le mani verso Isaac: « Wanna make some noise, really raise my voice
    Yeah, I wanna scream and shooooooout»
    indice e pollice attorno alla bocca, Stiles in ginocchio sul bordo del palcoscenico come una vera rockstar. Si immobilizzarono entrambi, solo il mignolo al cielo a tenere il tempo nel pezzo strumentale.
    «ha!». Si alzarono ambedue di scatto, continuando a cercare di raggiungere con le mani i loro fan più in basso. «No inhibitions» i fianchi ad ondeggiare, i palmi a scivolare sul ventre piatto. «make no conditions» Isaac a far segno di no con il dito. «Get a little outta line» «I ain't gonna act politically correct
    I only wanna have a good time»
    di nuovo spalle contro spalle, l’uno a sorreggersi con l’altro mentre la voce sferzava la musica, i visi rivolti al pubblico e le palpebre chiuse in sentita meditazione. «the best thing about being a WOMAN» « Is the prerogative to have a little FUN» Le luci si spensero. Trattennero il fiato.
    Si riaccesero rombando, coriandoli a piovere dal soffitto mentre entrambi saltavano sulla piattaforma con una mano a coppa attorno all’orecchio per sentire la platea, e l’altro braccio sollevato al soffitto, in quel fondersi di voci e grida: « OH, OH, OH, GO TOTALLY CRAZY, FORGET I'M A LADY» una mano a stringersi al petto strappando la maglia, rivelando un busto pallido e poco muscoloso. « Men's shirts, short skirts» «OH, OH, OH, REALLY GO WILD, YEAH, DOIN' IT IN STYLE» un braccio sulle spalle del Lovecraft mentre balzavano a ritmo, la testa a ciondolare come very punkabbestia. «OH, OH, OH, get in the action, feel the attraction» Si strinsero maggiormente fra loro, uno scambio di sguardi languidi e sentiti ad occhi chiusi e cuore aperto. «Color my hair, do what I dare» Le mani di Stiles infilate fra i capelli, il capo chino a fare su e giù. «OH, OH, OH, I WANNA BE FREE YEAH, TO FEEL THE WAY I FEEEEEEEEEL» le mani al petto, le ginocchia leggermente piegate per sottolineare l’intensità del momento.
    Le luci a calare. «man,» una pacca sulla spalla, un cenno d’assenso fra loro. «i feel like a woman.» e quando si lanciarono dal palco e nessuno li prese, fu bello comunque.

    06. «non farlo» Lydia allungò una mano verso quella di Maeve, già stretta attorno ad un innocente bicchiere di plastica. La Winston sollevò gli occhi blu nella sua direzione, le sopracciglia corrugate. «è solo…» sporse il naso sopra il bordo, prima di arricciarlo. «acqua?» La Hadaway strinse le labbra fra loro, un sorriso incerto a curvarle la bocca rossa. «fidati di me, non farlo» le porse il proprio termos portato da casa, e si sedette più comodamente sulla panca. Se c’era una cosa che Lydia Hadaway aveva imparato alle feste del mondo magico, era che non si beveva quel che ivi veniva offerto, se si voleva sopravvivere alla serata.
    Non tutti avevano seguito il suo sentito suggerimento.
    Maeve poggiò il bicchiere sul tavolo allontanandolo con la punta della dita, un espressione costipata sul viso pallido. C’era da chiedersi, guardando le due, per quale motivo fossero ad una festa se ambedue parevano non aver alcuna voglia di partecipare – Maeve addirittura con un libro sulle gambe, la Hadaway con il telefono fra le dita. Così surreale, che entrambe avessero la stessa motivazione.
    Baby sitting.
    Run le piaceva, davvero – un po’ esuberante, ma Lydia l’avrebbe definita gentile. A Maeve un po’ meno, ma dato che Dakota sembrava tenerci tanto («mi ha insegnato a suonare la chitarra!») aveva deciso di accompagnarlo. Le aveva perfino portato un regalo.

    «è una…»
    «padella» aveva confermato la Winston, cercando con lo sguardo una via d’uscita. «anti aderente, anti graffio» aveva specificato, stringendo il manico fra le mani. «winston cosa ci fai qui? l’inferno è nella traversa dop- CRISTO» «…e anti haters» aveva sorriso, il capo dolcemente reclinato, dopo aver scagliato la padella contro la faccia di William. «multifunzionale.»

    Mae si mosse a disagio sulla panca, le dita intrecciate fra loro. Quando anche la canzone successiva iniziò, il ritmo arabeggiante a vibrare nell’aria, sollevò lo sguardo sul palco. Sospirò, gli occhi alzati al soffitto. «dio santo, stiles, come ti sei conciato?» perché ne riconobbe il profilo, ma non comprese il sottile filo dorato attorno alla fronte, né i numerosi strati di tulle sopra i pantaloni – o non volle farlo.
    Un sospiro seguì il suo.
    Non tutti avevano seguito il suo sentito suggerimento.
    Lydia affondò nel sedile, lo sguardo imbarazzato ad abbassarsi sulle proprie mani.
    «non è stiles.»
    JAI HO. Jayson unì le mani sopra la propria testa, il fianco sporto verso l’esterno.
    Lydia Hadaway, in quell’esatto momento, volle morire.
    I got shivers
    When you touch my face
    Jay si portò le mani al petto, prima di assottigliare le palpebre scandagliando la folla. Lydia si inabissò sulla panca, la chioma ramata a malapena visibile.
    I'll make you hot
    Get all you got
    I'll make you wanna say
    JAI HO

    «lydia?» fu così stupida da alzare lo sguardo, il sorriso di Erin a far capolino da sopra il tavolo. «vieni!» Cosa? Cosa? Uh-uh. Scosse il capo ignorando il braccio di Erin sporto in avanti, un’occhiata sbilenca alla Winston in cerca di supporto. «non credo che…maeve mi stava giusto dicendo…» ma Maeve volse opportunamente lo sguardo dalla parte opposta, il bicchiere di tè stretto fra ambedue le dita. Osò perfino soffiare sul contenuto, seppur freddo. «dai, vieni!» JAI HO. Quando le dita della ragazzina la raggiunsero, le parve troppo rude strapparsi da quella presa gentile. Suo malgrado si alzò, i piedi puntati sul pavimento a trattenerla come un’ancora. Dall’altro braccio giunse una ragazza che non conosceva, pelle olivastra e sorriso brillante. «DAI, VAI» Scosse ancora il capo, ma non ebbe tempo di aggiungere altro che venne lanciata in avanti, afferrata da qualcun altro. I got fever running like a fire
    For you I will go all the way
    «lydia?» tentò di scuotere il capo, ma Run rise reclinando il capo al soffitto. Le afferrò il polso spingendola in avanti. I wanna take you higher Guardò il palco, dove Jay stava roteando i fianchi facendo danzare il tessuto sottile ed orientaleggiante - gli occhi chiusi, le dita intrecciate dietro la nuca. «ragazzi, non credo che- anche tu?» gli occhi verdi si spostarono traditi (e terrorizzati) su Gemes, le dita di lui strette pigramente alla spalla. Si limitò a fare spallucce, uno sguardo sconsolato che la Hadaway non comprese. JAI HO I keep it steady 'cause steady is how I do it «davvero, ci dev’essere un errore, io- nate, no» sibilò a denti stretti, afferrata di peso da Nathaniel, e dell’altra parte Eugene Jackson. JAI HO This beat is heavy so heavy you gonna feel it. Cercò di aggrapparsi a qualunque cosa, il cuore a battere frenetico contro le costole. Troppo educata per una scenata in grande stile, Lydia – ma nel suo cuore, erano tutti in lista nera.
    JAI HOOOOO. Fu scagliata sul palco, vittima incompresa di un mondo crudele – e stava lì, la Hadaway, le braccia lungo i fianchi ed un sorriso goffo sulle labbra. «You are the reason that I breathe» Ruotò gli occhi su Jay, un passo di lui verso di lei. Scosse il capo lanciando occhiate minatorie alla folla. JAI HOOO «ci sono persone» Lui la ignorò, un altro passo verso di lei. «You are the reason that I still believe» JAI HOOOO «sei ubriaco» supplicò incapace di allontanarsi, entrambe le sopracciglia sollevate quando Jay le prese il viso fra le mani. «You are my destiny» Il cuore sulla lingua, il terrore di essere al centro dell’attenzione a sciogliersi nel caldo familiare delle sue dita sulla pelle. «Jay-» OOOOOOOOOOOOOOOHHH e le labbra di Jayson sulle proprie, a soffocare un sospiro di pura rassegnazione da parte della rossa. «yes i’m drunk but i still love you» e contro quella logica, con un sorriso arrendevole, non seppe come ribattere.
    Da qualche parte nel pubblico, Erin e Nathaniel batterono il cinque.

    07. Le parrucche erano prerogative di un’altra canzone, ma non aveva saputo dire di no al caschetto bianco – come i suoi colleghi non avevano rinunciato a quello rosa ed a quello arancione.
    Tre faretti. Paaam: il primo ad illuminarsi, una ragazza con la mano sul fianco.
    Paam: ed anche il secondo, a rivelare un giovane di spalle a posizione stella marina.
    Paaaam: ed il terzo, la sagoma scura con la mano poggiata sul fianco opposto rispetto alla prima.
    PAAAAAPAPAAAAAAAM: il faretto principale ad illuminarli dall’alto.
    Stiles lanciò un’occhiata da sopra la spalla alla platea. «HEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEYIYIYIYIYIEHEHEHEHE» si volsero tutti e tre di scatto, saltando a gambe rigide per far fronte ai loro fan, le spalle a scuotersi secche per seguire il ritmo serrato della musica. «Do your thang, honey!» dal pubblico giunse il via.
    «I could feel it from the start» Stiles avanzò verso il centro del palcoscenico, aprendo così le danze. «Couldn't stand to be apart» Isaac lo raggiunse agganciandosi al braccio sinistro. «Something 'bout ya caught my eye» Murphy scattò in avanti superandoli entrambi, le dita davanti agli occhi per poi puntare qualcuno nella folla. «Something moved me deep insiIiIiIiide» i gomiti piegati e le labbra strette a formare un bacio. «Don't know what ya did, boy-» Isaac avanzò ancora, il palmo aperto sassy verso I follower. «-but you had it» Concluse Murphy, le sopracciglia sollevate ed il pollice ad indicare Stiles. «AND I'VE BEEN HOOKED EVER SINCE» Isaac si lanciò di pancia in avanti, l’indice ad indicare: «Told my mother,» Maeve, mentre anche Stiles rotolava al suo fianco: «my brother» l’indice su Xav, Murphy a cadere supina vicino a lui. «my sister» l’indice su Run, prima di rotolare sopra Isaac e Stiles ivi creando un piccolo totem. «AND MY FRIENDS, told the others » puntarono le dita su persone a caso. «my lovers» Isaac soffiò un bacio a Sharyn. «both past» « and present tense » Stiles e Murphy si guardarono, le dita strette fra loro nel gesto italianoh di chi non comprendeva. «THAT EVERY TIME I SEE YOU EVERYTHING STARTS MAKING SENSE» Stiles chiuse gli occhi, le mani protratte verso Stich – il suo bambino. « Do your thang honey!» Si rialzarono rapidi, tutti e tre messi l’uno di fianco all’altro. « Ain't no other man that» Si chinarono in avanti. «can stand» indietro. « up next to you » centrali, si indicarono vicendevolmente. « Ain't no other man» Si e di nuovo avanti. «on the planet » e curvati all’indietro, le dita a schioccare. « does what you do» Stiles indirizzò I pollici verso Murphy e Isaac. «You're the kinda guy a girl finds in a blue moon» la Skywalker avanzò, le mani a disegnare un cerchio nell’aria. «You got soul» Isaac picchiò il pugno contro il proprio petto, poi l’indice verso la geocineta. «you got class,» affiancò Isaac arcuando le sopracciglia ammiccante, gomitino al suo fianco. «YOU GOT STYLE» Isaac e Murphy, all’unisono, lo finger gunarono. «YOU’RE A BAD ASS» un sorriso brillante al pubblico, nell’unire le loro voci. «Ain't no other man, it's true» si buttò in ginocchio al suolo, piegandosi in avanti. «alright-» Murphy prese la rincorsa, poggiando il piede sulla sua schiena per balzare verso: «AIN'T NO OTHER MAN BUT YOU!» un pronto Isaac, le braccia alzate al cielo per recuperarla.
    Non andò a finire bene, ma fu bello comunque pt. II.

    08. Immobile al centro del palco, un sorriso sghembo alla folla mentre gli applausi la accoglievano – e lo sguardo lucido di chi, in quel mondo, non ci stava più di tanto. Allargò le braccia, lo sguardo sottile a scivolare sulle persone poco più in basso.
    «Ladies and gentlemen,» un passo verso il centro del piano, i palmi aperti verso il soffitto ed il peso spostato sulla gamba destra. «This is Mambo No. 5!» E Jericho chinò il capo, entrambe le mani a schioccare le dita ed i fianchi a muoversi seguendo il ritmo. «One, two, three, four, five» cinque passi ondeggianti verso destra, le ginocchia a molleggiare; con un movimento secco del collo, fece volteggiare i lunghi capelli castano chiaro di fronte a sé, schiaffeggiandoli poi sulla spalla destra. «Everybody in the car, so come on let's ride
    To the liquor store around the corner
    The boys say they want some gin and juice, But I really don't wanna»
    le braccia a ruotare nell’aria, gli occhi chiusi ed una rapida scivolata laterale verso i suoi compagni di danza. E mentre alle sue spalle Nathaniel ed Eugene si tenevano per mano improvvisando i semplici passi del mambo, lei lanciò un’occhiata al proprio fianco verso Elijah. «Beer bust, like I had last week» sgambettate verso sinistra, poi verso destra. «I must stay deep, 'cause talk is cheap» ruotò su sè stessa, finendo per poggiare la spalla contro il fianco del biondo. «I like Angela» un’altra giravolta, la mano allungata per afferrare il polso di Euge. «Pamela» un’altra giravolta, dritta dritta fra le braccia del fratello, dove improvvisò un casquè. «Sandra,» casquè dalla parte opposta, i pollici sollevati in segno d’approvazione. «and Rita! And as I continue you know they're getting sweeter» tutti e quattro l’uno di fianco all’altro, Jericho una minuscola figura fra tre giganti. Un passo ondeggiato a destra, uno a sinistra. « So what can I do? I really beg you, my Lord » in ginocchio sul pavimento, il pugno destro al cuore. « To me flirting is just like a sport
    Anything fly, it's all good let me dump it
    Please set in the trumpet»
    Uno sorriso storto, le braccia aperte ai propri fianchi, uno sguardo ferino a carezzare la pista da ballo. « A little bit of Monica in my life» una piroetta su sè stessa, le dita alzate al cielo ed I fianchi ad ondulare. «a little bit of erica by my side» le mani di Elijah strette alla vita, una misericordiosa preghiera al signore mentre la lanciava lateralmente. « A little bit of Rita is all I need » le braccia del Jackson allungate in tempo usate come appiglio per scivolare dalla parte opposta attraverso le gambe divaricate, dove atterrò con una capriola da manuale. « A little bit of Tina is what I see » sollevata sulle punte con la mano sopra gli occhi come un pirata. « A little bit of Sandra in the sun » occhi chiusi ed un arco disegnato nell’aria mentre Nathaniel la alzava dal suolo e la spostava a sinistra. « A little bit of Mary all night long » si aggrappò ancora alle sue mani, avanzando e retrocedendo con i piedi come richiesto dal ballo. « A little bit of Jessica here I am » le spalle a scuotersi mentre, dietro di loro, Euge ed Elijah continuavano il mambo. Strinse la mano di Nate e si arrotolò sul suo braccio, giungendo infine contro il suo petto. « A little bit of you makes me your man» finger gun alla folla, occhiolino.
    E dalla calca, un: «lo sapevo che io ero più il tuo tipo di jack» a buon intenditore.

    09. Cinque figure di spalle sul palco, tutti con un cappellino ben calcato sulla testa. Luci spente, musica a trillare bassa. «hey, hey» Ed insieme saltarono e si girarono verso il pubblico, il mento ad alzarsi ed il braccio destro sollevato al cielo: «bye bye bye BYE BYE BYE» i cinque, come punte di una stella, si splittarono sul palcoscenico avanzando verso il centro, le braccia ad incitare la folla ad alzare la voce. Le teste a scuotersi verso il basso, cappelli persi per strada fra un energico saltello e l’altro. «oh-oh»- Nathan Wellington scattò in avanti. «I'm doin' this tonight,» Erin scivolò al suo fianco, le braccia ad agitarsi thug life nell’aria prima di spintonarlo delicatamente. «You're probably gonna start a fight.» Kieran a spuntare fra loro, una mano sul petto di Nate e l’altra sulla spalla di Erin. «I know this can't be right-» Scott ad apparire con un moonwalk con il quale circumnavigò il trio: «Hey, baby, come on.» Jess ad apparire rotolando sul palco, una mezza flessione con la quale si fermò guardando davanti a sé: «I loved you endlessly,» Erin a ruzzolare come un sushi fra le braccia di Jess per giungere dalla parte opposta. «When you weren't there for meee» e tutti I mini rebel (+ scott) a rotolare nella sua direzione. «So now it's time to leave
    And make it alone»
    un movimento di reni, e furono tutti e cinque nuovamente in piedi a saltellare sul posto. «I know that I can't take no more-» Nathan si sprimacciò le guance. «It ain't no lie» I Chips uniti fra loro a far segno di no con l’indice, Erin a frustare il povero Scott con I lunghi capelli cioccolato. «I wanna see you out that door» Jess finse di aprire una porta e di affacciarsi – e spuntò Kieran, le dita a sfarfallare nell’aria: «Baby, bye, bye, bye...» «BYE BYE» e di nuovo tutti in posizione, coordinati nel far ondeggiare le braccia a destra ed a sinistra. «Don't wanna be a fool for you» cinque capriole. «Just another player in your game for two» le braccia allacciate fra loro nel ritirarsi in piedi. «You may hate me, but it ain't no lie,» le ginocchia piegate, i fianchi a dondolare, le chiome scosse nell’aria come fruste. «Baby, bye, bye, bye...» Tre saltelli all’indietro. «BYE BYE» le mani a salutare, I gomiti contro I fianchi. «Don't really wanna make it tough» Nathan e Jess a fare il girotondo, le dita allacciate fra loro. «I just wanna tell you that I had enough» Scott a strisciare come il più bel vermicello del campo fra loro, la schiena curvata a trascinarlo d’un centimetro più avanti. Erin afferrò i polsi di Kieran tirandola a sé. «it might sounds crazy -» la testa ruotata rapidamente, la Sargent ad allacciare la gamba come una ballerina di tango a quella della Chips, un mezzo casquè: «but it ain't no lie,» Erin la ritirò su, e di nuovo i cinque eroi si posizionarono l’uno vicino all’altro, il fianco destro mostrato al pubblico mentre strisciavano la mano destra sull’aperto palmo sinistro, armonizzati saltelli all’indietro mentre fingevano di scagliare big money sulla follah. «BABY BYE BYE BYE – BYE BYE!» Boooooooooooooom.

    10. ’Cause«I gotta feeling» la testa a rimbalzare sul collo, le braccia avvolte alle spalle di una ragazza – e lei abbracciata ad un altro giovane, e lui stretto ad un altro. «that’s tonight’s gonna be a good night» Sorridevano tutti e quattro, loro, lucidi di sudore ed ebbri di alcool e gioia. «That tonight's gonna be a good night «That tonight's gonna be a good, good night - FEELING» «uuuhh uhh» ancora fermi al centro del palco, Oscar con il braccio libero alzato verso il soffitto, e gli altri tre ad ondeggiare sul posto spingendosi e sorreggendosi a vicenda. «that’s tonight’s gonna be a good night» l’abbraccio a sciogliersi, le mani allungate verso la pista da ballo per sfiorare le dita di chi v’era in basso. «That tonight's gonna be a good night, That tonight's gonna be a good, good night - FEELING» tutti e quattro a saltare, seguiti dai presenti nell’arena. «TONIGHT'S THE NIGHT» Jeremy si girò rapido verso Arci puntandolo con entrambi gli indici: «HEY» «let’s live it up» Bells a scivolare al centro, occhi chiusi e spalle ad alzarsi ed abbassarsi: «LET’S LIVE IT UP» «I got my money» tutti si girarono verso Oscar con le sopracciglia arcuate, lui si strinse nelle spalle: «i’m paid» « LET'S SPEND IT UP » Oscar la afferrò dalla vita lanciandosela sulla spalla come un sacco di patate. «LET’S SPEND IT UP» I Jerarci rinforzarono all’unisono, palpando Blaze alla ricerca del denaro – non si sapeva mai, nella vita. « Go out and smash it» Il Grifondoro lanciò Bells verso Arci, e la Corvonero riuscì ad aggrapparsi sulle sue spalle guadagnando così tanti centimetri rispetto alla sua usuale, bassa, statura. «SMASH IT» la testa reclinata all’indietro. « Like Oh My God – like OH MY GOD - Jump off that sofa » Bells balzò giù, le braccia intrecciate di Jeremy ed Arci a farle da regale scranno. «c’mon!» incrociò le gambe, il mento sul palmo « LET'S GET GET OFF » tutti di nuovo in piedi, di nuovo a saltare. Jeremy allungò un bicchiere verso il pubblico: «fill up my cup» e Bells infilò la testa fra la bottiglia ed il bicchiere, bocca spalancata e testa reclinata: «DRINK» «Mazel Tov» di Arci, al quale rispose un: « l'chaim» di Jeremy – che fra kebabbari, si capivano così. Bells tornò al centro del palco, braccia al cielo e fianchi ad ondeggiare: «look at her dancing – MOVE IT MOVE IT» «Just take it off» e di nuovo fu caricata sulla spalla di Oscar, sul quale quella volta si arrampicò per sistemarsi a cavalcioni. « Let's paint the town - » «paint the town» e dal soffitto piovve vernice fosforescente, inumidendo pelle e vestiti. «We'll shut it down – SHUT IT DOWN» I Jerarci ad entrare in scivolata verso la fine del palco, la schiena curvata all’indietro e gli occhi chiusi. «Let's burn the roof» «And then we'll do it agaaaaaain» saltò giù da Oscar e piroettò a braccia spalancate, la testa a seguire il ritmo della musica. «Let's do it, let's do it,
    Let's do it,
    Let's do it, and do it, and do it,
    Let's live it up
    And do it, and do it, and do it, do it, do it,
    Let's do it,
    Let's do it,
    Let's do it, do it, do it, do it»
    I pugni a colpire l’aria, i piedi a pestare il palco. «here we come, here we go» «we gotta rock» puntò gli indici verso Arci, intento a suonare un invisibile chitarra. «ROCK ROCK ROCK ROCK» I gomiti piegati lungo i fianchi, I polpacci ad implorare misericordia. «Easy come
    Easy go
    Now we on top (top, top, top, top)
    «Feel the shot
    Body rock
    Rock it don't stop (stop, stop, stop, stop) »

    Round and round
    Up and down
    Around the clock (clock, clock, clock, clock)»
    Le dita sollevate a tenere il conto: «Monday, Tuesday,
    Wednesday-»
    Un ragazzo rotolò sul palco indicandosi, le braccia strette alle loro spalle. Bells sorrise. «and Thursday, F-» «FRIDAY,» un secondo giovane si arrampicò al loro fianco, gridando più forte di loro, ed abbracciò Jeremy continuando a saltare. «SATURDAY
    SATURDAY TO»
    La mano verso la pista da ballo a raccogliere quella sottile di una Grifondoro, trainata sulla superficie sopraelevata. «SUNDAY» ««Get get get get get with us» I tre furono avvolti nella stretta di gruppo, le grida fomentate dal pubblico.
    «You know what we say-»
    « Party every day »
    « -Pa pa pa party every day!»

    11. Solo una delle due figure era illuminata, sul palco – l’altra restava in ombra, una sagoma a malapena visibile. «UH-UH YEAH» la ragazza appiattì il microfono sulla bocca, la mano a creare un cono attorno alle labbra. «OLD MAN GONE BAD – UHUH, YEAH» Jade schioccò le dita. «TAKE THREE – ACTION! UH-UH UH-UH
    No clouds in my stones
    Let it rain, I hydroplane in the bank»
    Il mento della figura a fianco a sollevarsi. «eheheh»
    «Coming down with the Dow Jones
    When the clouds come we gone, we Rocafella»
    «eheheh eheheh»
    «We fly higher than weather
    In G5's are better,
    You know me,
    In anticipation, for precipitation.
    Stack chips for the rainy day
    Jade, Ms. Sunshine is back with little Rain Man
    Sinclair, where you at?»
    Ed il secondo faretto illuminò l’ammantata figura di Sinclair Hansen, un ombrello nero stretto fra le mani la cui punta toccava il suolo. « You have my heaaaart» La punta dell’ombrello scivolò in avanti e lui arcuò la schiena seguendo il movimento. « And we'll never be worlds apaaaart» Sofferto, adenti stretti, mentre la mano andava a poggiarsi sulla base della schiena. Si costrinse ad allungare una gamba al proprio fianco, trascinandola poi nuovamente verso di sé. « Maybe in magazines
    But you'll still be my staaaar»
    la mano destra al petto, un’intensa occhiata alla folla. « Baby, 'cause in the dark» si appiattì la coppola davanti agli occhi, scosse il capo. « You can't see shiny cars» fece scattare l’ombrello al proprio fianco, i fianchi ad ondeggiare – debolmente. « And that's when you need me there-» le dita a sfiorare la stoffa nera dell’ombrello mentre ne percorrevano la lunghezza. « With you I'll always share» Premette il magico pulsantino sul manico, e l’ombrello si aprì roteando come la coda di un pavone. Maeve, a cui Byron aveva insegnato ad usare la videocamera del telefono, non volle perdersene neanche un secondo – quello sì che l’avrebbe mandato in loop al quartier generale. A bocca dischiusa, scioccata da quel che stava vedendo – e come poteva immaginare che la situazione sarebbe peggiorata drasticamente?
    «BECAUSE» Per poco non le cadde il telefono. Non era pronta, a quello: doveva ancora superare i traumi della lotta nel fango. Una bomba d’acqua esplose sul palco, seguita da scintille dorate provenienti dalle mani del secondo uomo che era giunto al fianco di Sin. « When the sun shines» Aloysius schioccò le dita, ed un piccolo sole spuntò alle loro spalle. «we’ll shine together» uno sguardo intenso fra loro, mentre la pioggia attaccava i capelli alla testa, e le maglie al torace – non era certa di voler vedere come avrebbero proseguito. « TOLD YOU I'D BE HERE FOREVER» Sinclair drizzò la schiena, puntò l’ombrello al suolo e vi fece un giro attorno. « Said I'll always be a friend - Took an oath I'MA STICK IT OUT 'TIL THE END» Al afferrò il braccio di Sin, e sempre scambiandosi occhiate (confuse?) girarono su loro stessi. « NOW THAT IT'S RAINING MORE THAN EVER» E la pioggia divenne ancora più fitta, l’acqua a scivolare dal palcoscenico alla pista da ballo. «Know that we'll still have each other» Forse una sfida, quella di Al, mentre con una mano spostava i capelli di Sin dalla fronte – o forse era uno schiaffo, chi poteva dirlo. Sinclair rimase immobile un istante, prima di spalancare le gambe e lasciarsi cadere mollemente in una spaccata.
    Non si rialzò più. « You can stand under my umbrella» Alzò però l’ombrello sopra di sè. «You can stand under my umbrella» ruotò su sé stesso, pur rimanendo sul posto, evitando così che Al potesse coprirsi: «ELLA ELLA EH EH EH» Alzò maggiormente il braccio, così che potesse coprire una superficie più ampia. «under my umbrella - ella ella» e quando il Crane fece per riavvicinarsi, spingendosi con le mani, tornò a ruotare su sé stesso come un bey blade. «EH EH EH» tenne il manico sul palmo aperto, uno sguardo di sottecchi al lumocineta. Annuì. «under my umbrella – ella ella» slittò il più lontano possibile dall’altro, il ventre ora posato sul legno e l’ombrello tenuto con la punta delle dita. «EH EH EH. Under my-» Al gli strappò l’ombrello dalle mani, e con un unico preciso colpo lo spezzò sul ginocchio. «UMBRELLA ELLA ELLA» Offrì una mano a Sin per rialzarsi.
    Quando l’idrocineta fece per afferrarla, la ritrasse. «EH EH EH EHEH»

    12. Luci spente, la musica a tacere.
    Ed il primo basso a tuonare, il primo faretto ad illuminare due sagome di spalle.
    Ed il secondo, altri due a gambe leggermente divaricate.
    Ed il terzo, ancora due forme appena visibili nella penombra. Le luci iniziarono a lampeggiare, mostrando così i sei profili, tutti con le braccia alzate ad incitare la folla a seguire il ritmo. Qualcuno piegava anche il ginocchio, qualcun altro picchiettava un bastoncino su quello ch’era stato un piatto. Si scambiarono i posti, pur rimanendo le coppie le medesime – i visi ancora celati, i passi a muoversi rapidi sul legno. Saltelli laterali, battiti di cinque. Tutti e sei pestarono i piedi sul legno.
    «WOWOWOWO», giunse dalla pista da ballo.
    E di nuovo: «WOWOWOWO» ed ancora, ed un ultima volta. Le luci ad abbassarsi nuovamente, finchè non rimase altro che oscurità.
    E poi, il faretto: «EVERYBOOOODY» Nathaniel ed Eugene piegati sullo stesso microfono.
    Il secondo faretto, la seconda coppia: «ROCK YOUR BOOODY» Jeremy ed Arci, occhi chiusi ed un braccio sollevato.
    Ed il terzo, ed ultimo faretto: «EVERYBODY, YEAH
    ROCK YOUR BODY RIGHT»
    I gomiti piegati di CJ e Sun, i palmi aperti verso l’esterno mentre i fianchi ruotavano leggermente.
    E luce fu su tutti, quando saltarono sul palco agitando i pugni in aria: «BACKSTREET'S BACK, ALRIGHT» le teste a scattare all’unisono, saltelli sul palco a mischiare i gruppi, mani ad incitare il pubblico a seguirli: «ehi ehi ah, woo» Nathaniel e Sun si misero schiena contro schiena, l’indice sulla platea. «Oh my God, we're back again» Jeremy e CJ, poco distanti, batterono il pugno: «Brothers, sisters, everybody sing» sorrisi a qualcuno fra quelli in pista, dita piegate ad invito e mezzi sorrisi. «Gonna bring the flavor, show you how» Arci ed Euge ad ondeggiare sul posto, le spalle a sollevarsi mentre l’uno premeva a destra, e l’altro a sinistra. «Gotta question for you» Euge ad avvicinarsi a Sunday, lei a braccia spalancate a far spallucce. «better answer now, yeah» Nathaniel fece un passo avanti, le mani al petto ed uno sguardo costipato: «am i original?» Yeah, yeah. «am i the only one?» CJ a superare Nate, le dita ad indicarsi e le sopracciglia arcuate. «am i seeeexuuuaaal?» i Jerarci in prima fila, una mano sul cuore e l’altra sul pacco. Yeah, yeah.
    «Am I everything you need?
    You better rock your body now»
    E dalle loro spalle, simil fuochi d’artificio arancio.
    «Everybody
    Yeah
    Rock your body
    Yeah»
    CJ allacciò un braccio alle spalle di Euge, mentre Sun si aggrappò alla schiena di Arci. « Everybody
    Rock your body right
    Backstreet's back, alright
    Alright»
    Nathaniel e Jeremy si scambiarono una stretta di mano segreta, prima di sfarfallare le dita nell’aria e scivolare ai poli opposti del palco.
    Tutti in fila. «Now throw your hands up in the air» Sun ad invitare i presenti ad imitarlo. « Wave them around-» « like you just don't care» e tutti a mulinare le braccia. « If you wanna party let me hear you yell» Jeremy saltò giù dal palco, un corridoio apertosi spontaneo di fronte a lui. Alzò un dito per richiamare a sé il grido della folla, l’altra mano stretta attorno al polso di Run. La trascinò verso il palco, dove Euge sporse un braccio per afferrarla « Cuz we got it goin' on again» Un sorriso, mentre la festeggiata saltava sul palcoscenico, ora al centro dell’attenzione.
    Un sogno che si avverava. «am I original?» avvolse le braccia attorno alle spalle di Jeremy ed Arci. «am i the ooonly oooneee?» il pugno al petto, le spalle ora contro quelle di Sun e CJ. «am i seexuuaaal?» i pollici infilati nell’elastico dei propri pantaloni, le anche a muoversi sinuose sotto le dita mentre raggiungeva Eugene e Nate. « « Am I everything you need?
    You better rock your body now»
    E di nuovo le luci alle loro spalle, mentre il palco si faceva più affollato - Elijah e Rea, Bells ed Oscar, Sersha, Barry, BJ e Joey.
    « Everybody, yeah
    Rock your body, yeah
    Everybody
    Rock your body right -»
    Bells sulle spalle di Elijah, Rea e Barry a lanciarsi occhiate di mutuo sopporto. «rock your body riight»
    « Backstreet's back
    Everybody»
    CJ ed Arci ad alzare ancora le braccia al cielo, mentre Oscar e BJ scontravano l’uno il petto con l’altro. «everybooody – rock your body» Run con Sersha e Sun, i capelli a scuotersi nell’aria.
    «Rock your body» Nathaniel, Jeremy ed Eugene, a dimostrare che la Macarena andava su tutto. «everybooody – everybody rock your body»
    «everybody» Bells con le mani intrecciate a quelle di Joey, a passare sotto il suo braccio per poi riprenderlo con un buffetto alla guancia. « everybody, rock your body»
    « Rock your body right » E tutti a saltare, e tutti a gridare. « everybody!»

    «Backstreet's back, alright»



    Era successo davvero - tutto quanto. Così continuò a ridere, scuotendosi piano sopra Murphy. Continuò a ridere, cullata dalla familiarità di quel momento: Murphy, Jade. Tempi diversi, stesso amore - quelli che valicavano un po' tutto, che da amicizia diventavano famiglia.
    Rise finché Murphy non le posò il palmo sulla guancia. «stai piangendo.» e rise, perché era vero.
    Era il giorno più bello della sua vita, quello, ma era tutto sbagliato: lei, era sbagliata. Così smise di ridere, resa languida dall'alcool e dalla stanchezza, e lasciò che le lacrime scivolassero insulse sulle guance.
    Era tutto così debole, nella vita. Friabile, effimero - e voleva tenersela tutta, imprimersela nei ricordi in maniera indelebile, ma la sentiva scivolare via ad ogni battito di ciglia. Non voleva, Run. Non voleva che i suoi fratelli la vedessero tornare a casa sporca di sangue non suo, il calore del sorriso a suonare distorto sotto il cremisi; non voleva che River avesse una famiglia, quando lei non era stata ritenuta adatta ad averla. Non voleva che Jade ed Euge, neo genitori, si dimenticassero di lei. Non voleva che Murphy decidesse che in quanto cugina, Run lasciava molto a desiderare. Non voleva che Nathan, Erin, Kieran e Jess venissero ancora sporcati da quel mondo - che li aveva presi a cuore, la Crane, e quando qualcuno ci entrava, non c'era via d'uscita.
    Non voleva che Al sapesse cosa si provasse ad avere un figlio normale, perché avrebbe capito che qualcosa, in lei, non era mai andato.
    E non voleva che Gemes Hamilton la odiasse.
    Così lasciò che Murphy le passasse le dita fra i capelli, che Jade le sfiorasse appena le gambe. Le lasciò parlare, sorrise ad occhi chiusi quando la Skywalker imitò Sin seguita dalla Beech a farle da base.
    Così finse che fosse tutto lì, che fosse tutto semplice, prima di addormentarsi.

    «vieni con me» non fu una domanda. Non ce ne sarebbe stato bisogno.
    Si odiava, Run, in quel modo meschino ed appiccicoso che la spingeva ad amare tutto ciò che non poteva ricambiarla: il tramonto, la notte, la musica, le stelle. Le spiagge, il sale sulla pelle, il sapore dolce dell'alcool a bruciare la gola e quello di fiele delle sigarette sulle labbra.
    Gemes Hamilton.
    Non era neanche mai stata propriamente una sfida, la sua - perché le sfide si presupponeva di poterle vincere, un giorno. Heidrun non aveva mai voluto vincerla, quella. Non aveva mai pensato, di poterla vincere: aveva perso prima ancora di cominciare, ed a lei andava bene così. Ci si intestardiva, graffiava i muri perché sapeva che non si sarebbero spostati - perché avrebbero dovuto? In fondo Run l'aveva sempre ritenuto una strana ironia della sorte, quel continuo ricambiare il suo affetto delle persone che la circondavano: perché avrebbero dovuto? Non si rendevano conto di quanto sbagliata, di quanto montata al contrario fosse? Ma non gliel'aveva mai detto, perché non si diceva a qualcuno che si amava di smettere di amare in risposta. Così lasciava che amarla fosse il compito più facile del mondo, e sceglieva a sua volta d'amare chi era certa non avrebbe potuto rivolgerle le medesime attenzioni: l'arte, il sole.
    Gemes Hamilton.
    Non era previsto, un cambiamento di programma.
    I primi mesi erano stati i più facili - lo erano sempre. Una volta fuori dal labirinto, Run aveva saputo esattamente che di lì ad un anno non ci sarebbe più stata: quando avvicinarsi alla sua famiglia avrebbe fatto loro più male che bene, non aveva avuto altro capro espiatorio sul quale riversare la propria presenza, se non qualcuno che di lei, nella sua vita, non aveva bisogno. Gemes era stato quel qualcuno, quella sottile guerra iniziata con stuzzicadenti contro armate intere: che quando sai di dover morire, non t'importa più di tanto il come. Avrebbe potuto essere chiunque altro, ma non lo era stato - perché chiunque altro non sarebbe stato così diverso da lei, o così dannatamente... Gemes Hamilton. Una distrazione, destinata a morire in breve e durare poco. Come andare al museo e rimanere ad osservare una statua, chiedendosi che sensazione avrebbe dato se si fossero superati i cordoni scarlatti per ivi posarvi il palmo: qualcosa d'impossibile, e di affascinante nel suo proibito. Lo osservava, il palmo sotto al mento a reggere la testa, come uno studioso amante della storia avrebbe studiato il medioevo: che potevi amarlo quanto volevi, quello, ma mica cambiava per te. Ed andava bene così - allo storico, a Run. Le andava bene così, Gemes Hamilton.
    E quando aveva scelto di sopravvivere, aveva scelto lui: perché la sua famiglia era il suo passato ed il suo presente, ma lui era la concreta possibilità che un futuro avrebbe potuto averlo. Che quella guerra fredda avrebbe potuto continuare finch'ella ne avesse avuto bisogno, perché a lui non importava ed a lei importava troppo. Ed aveva scelto lui, perché se invece avesse dovuto morire quel giorno, avrebbe preferito fosse per mano sua, piuttosto che di un destino che neanche si era mai sprecato di domandarle il nome: perché sei mesi prima, Run aveva saputo che un motivo per ucciderla, Gemes, l'avrebbe avuto sul serio. E quanto ironico era stato, rendersene conto; quale sorriso bieco e beffardo le aveva curvato le labbra, quando l'impossibile aveva assunto un nuovo significato. Quando si era resa conto, Heidrun Ryder Crane, di essere quel che Gemes cercava, quello di cui lui, aveva bisogno. L'Hamilton lo era stato per lei, ed ironicamente lei lo era per lui: un capro espiatorio.
    Non era colpa di Gemes se cercavano cose diverse - se lei voleva perdere, e lui vincere sempre. Così, giusto perché non poteva, l'aveva amato un po' di più: perché il fumo sapevi che uccideva, ma la sigaretta la accendevi comunque.
    Poi era sparita, Run.
    Poi era morta.
    Ed eccolo, finalmente, il nodo al pettine - ciò che avrebbe sistemato l'assetto del suo universo al contrario: era morta. Nessun senso di colpa, nessun sadico bisogno di tenere a sé qualcosa che non voleva essere stretto, nessun Hamilton, non dormire che aveva assunto sulla lingua lo strano sapore del rimpianto. Perché a una certa, perfino Run si era resa conto di essersi spinta troppo oltre. Che quello iniziato come un gioco era diventato semplicemente parte della sua vita, un qualcosa di ovvio e concreto a cui aggrapparsi: perché viveva di incertezze, di debolezze altrui, di insicurezze. Si chiedeva cosa i fratelli pensassero di lei, se suo padre le volesse bene, se Murphy l'avesse perdonata; se Eugene e Jade si sarebbero dimenticati di lei, se Amos la sopportasse solamente perché troppo gentile. Era quello il problema quando amavi qualcuno e quel qualcuno ricambiava: poteva smettere in qualunque momento, e senza avvisare. Ma Gemes? Gemes era il sopracciglio arcuato sopra la tazza di caffè al mattino, i BUONGIORNISSIMO HAMILTON a cui ribatteva un atono e melodrammatico ed anche oggi, tristemente, muori domani: era la sua costante, lui.
    Era la sua costante.
    Non doveva preoccuparsi di perderlo, se non l'aveva mai avuto. In un mondo dove tutto gravava sul filo d'un rasoio, lui era sempre stato la conosciuta parte tagliente della lama: onesto, perlomeno. Così si era sentita libera di odiarlo, ed amarlo, ed odiarlo ancora perché poteva, perché non sapeva fare altro.
    Non erano niente, Gemes Hamilton ed Heidrun Crane. Si erano trovati casualmente in un labirinto, erano diventati colleghi: non erano amici, a malapena erano conoscenti. L'aveva studiato, e non come un predatore avrebbe fatto con la sua preda: l'aveva studiato per puro interesse accademico, come di notte tendeva a farsi una cultura sui riti Aztechi d'evocazione. Non significava certo che pensasse di farli. Sapeva tutte quelle cose stupide che non avrebbero dovuto importarle, ma che all'epoca l'avevano fatta sorridere per quell'eccitazione della scoperta di un bambino di fronte all'attico in disuso. Amava esplorare, quando le piaceva il luogo - quando lo trovava interessante, ricco di dettagli che il mondo neanche guardava. Magari non amava i musei, Run, ma amava le soffitte impolverate: perché amava quei pezzi di vita che tutti dimenticavano, i ricordi pungenti dal profumo di passati strigliati. Così aveva amato il disturbo ossessivo compulsivo con il quale Gemes spostava sempre il porta penne della sua scrivania nell'angolo destro di questa - glielo spostava apposta, Run, giusto per vederglielo fare. Così aveva amato il modo in cui stringeva le labbra ogni qual volta avesse qualcosa da ridire, più spesso di quanto a chiunque l'avesse intorno piacesse ammettere - e state pur certi che a Run bastava parlare, per ricevere quella linea sottile di disappunto. Così aveva amato lo sguardo lento, quasi dovesse staccarsi fisicamente come un chiodo al muro, con il quale guardava chiunque l'avesse irritato abbastanza da superare la soglia di tolleranza - tutti, a dover essere sinceri: Run almeno, per guadagnarselo, ci si metteva di impegno.
    E li aveva odiati tutti, quei piccoli gesti. L'avevano portata a quella linea di esasperazione che dondolava fra omicidio e suicidio, i palmi a prudere dal bisogno di cancellare quei sorrisi sghembi con un pugno ben assestato, i pugnali a vibrare dalla necessità di sentirsi bagnati dal suo sangue. Quante volte, la mimetica, si era cullata nell'idea di ucciderlo - e quante volte avrebbe potuto farlo, ma non l'aveva mai fatto.
    Così l'aveva amato e basta, Run, senza neanche rendersene conto.
    Così lo amava ancora, sempre. E rendersene conto, non serviva più.
    Quello, non era previsto. Quello - quello sì che le avrebbe spezzato il cuore, più di quanto essere ignorata avrebbe mai potuto fare.
    Quello cambiava le carte in tavola.
    Strinse le braccia al petto, intrecciandole con forza fra loro, mentre lo sguardo smeraldo si perdeva a studiare una città che era sempre stata sua. Si avvicinò al bordo, il cuore a picchiare contro le costole: diede la colpa alle vertigini, Run. Biasimò alla sua paura delle altezze anche il vuoto a bruciarle lo stomaco.
    «voglio insegnarti a suonare,» Finse che le parole a malapena la raggiungessero, un debole sorriso a curvarle metà della bocca. Chiuse gli occhi perché tenerli aperti non era un opzione possibile. Perché tanto Londra, perché tanto Gemes, andava vissuta e respirata, non guardata. «ed ho ragione di credere che imparare a farlo con una meravigliosa vista davanti agli occhi sia ottimale» rise asciutta, le sopracciglia arcuate.
    Nessuno aveva mai fatto una cosa del genere per lei, lei ch'era fatta di amori rapidi consumati sotto lampadine al neon. Era d'indole troppo istintiva per potersi permettere quella emotiva, si fingeva troppo cinica per ammettere che quell'inaspettato romanticismo fosse ciò a cui aveva sempre segretamente aspirato nella vita: perché non aveva mai immaginato che sarebbe successo davvero. Il suo personale Babbo Natale, sapete.
    Con Gemes Hamilton, per di più.
    Dove l'aveva nascosta, un'anima, per tutto quel tempo? «l'hai cercato su wikihow?» ignorò la voce roca, sorrise con un sopracciglio sollevato.
    Si andava avanti così, nella vita: si fingeva.
    Si recitava.
    Non era in grado di prevenire, Heidrun, né sapeva limitare i danni, ma era la migliore ad ingannare, gli altri e sé stessa, che tutto fosse una favola. «ovviamente, quando parlavo della “meravigliosa vista”, mi riferivo a me: mi sembrava abbastanza scontato, ma è sempre meglio specificare» e su chiunque altro avrebbe suonato come una battuta, ma l'ego dell'Hamilton lo precedeva prima ancora che la voce avesse il tempo di viaggiare nello spazio.
    Allora aprì gli occhi, ed avrebbe preferito non farlo. Ruotó con lenta intenzione lo sguardo su di lui, verde muschio costretto dalle circostanze a cercare il blu delle iridi di Gemes: «ovviamente» fece l'eco, reclinando il capo e le labbra.
    E lo seppe, Run. In quell'esatto momento di esitazione, mentre entrambi rimanevano in bilico su scelte e la città brillava flebile sotto di loro, Run seppe, cosa c'era di sbagliato. Cosa c'era sempre, stato di sbagliato: che loro due potevano non essere niente, ma erano quel niente che bastava.
    A lei, bastava.
    Dobbiamo parlare.
    Se lo sarebbe fatto bastare.
    Si inumidí le labbra, un passo incerto nella sua direzione. Decise che se doveva essere l'ultima notte, l'ultimo loro, non avevano senso le precauzioni adottate nei mesi, negli anni precedenti. Così corrugò le sopracciglia, piegò il capo verso destra, mordicchiò pensosa l'interno della guancia. «balla con me» e come fosse possibile che una domanda così candida suonasse come una proposta indecente, Run non lo sapeva. Sembrava sempre tutto sbagliato, tutto più di quel che era – dalla prima volta. Fece spallucce, le labbra curvate verso il basso e le sopracciglia sollevate. «non fare il gemes hamilton, non c’è nessuno.» lo rimbeccò, anticipando le proteste del telecineta prima che potesse aprire bocca. Poté quasi udire il non c’è neanche la musica, e poté quasi sentirsi rispondere cosa ce ne facciamo della musica, se il nostro cuore batte già in sincrono: ma Heidrun non era il tipo da dirle, certe cose. A malapena pensarle, e di certo non accettarle come proprie. Stroncò la plausibile conversazione serrando le palpebre, cercando in sé stessa il mix letale di poteri dai quali era stata circondata fino a poco prima - manipolazione della luce, moltiplicazione. Sentì il battito accelerare, prima di fingere di fermarsi e ricominciare a pulsare serrato: quando riaprì gli occhi, un'altra Run sedeva a gambe intrecciate al suolo, lo sguardo vuoto ed un banjo fra le braccia.
    «balla con me. è pur sempre il mio compleanno» avanzò di un passo verso Gemes, la mano sollevata fra loro a sporgere il mignolo: «sará il nostro segreto» fu appena un bisbiglio, in quel sorriso ad enfatizzare le fossette per il quale ancora non esisteva anima in grado di dirle di no.
    Un po' per tutto, un po' per niente.
    Heidrun, fatta eccezione per la danza con Noah alla festa dei Dallaire, non aveva mai ballato - non così, perlomeno: si disse che se riusciva ad uccidere un uomo ad occhi chiusi e con le mani legate dietro la schiena, poteva affrontare anche quello.
    Si sentiva una dodicenne. Perché doveva essere tutto così... Assurdo? Perché non poteva, per una volta, essere semplice?
    Perché non poteva, Run, essere normale? Avrebbe affrontato cento Cacciatori senza battere ciglio, eppure in quel momento l'angoscia la stava divorando. Volle credere che fosse perché sapeva dove sarebbe andata a parare quella stupida alba, che fosse colpa sua - ma lo sapeva, Heidrun, che era lo stupido effetto che le faceva Gemes.
    Ecco perché lo odiava.
    Un altro passo verso di lui. Perché non si spostava? Perché non le rendeva tutto più facile? Doveva essere la sua costante, era quello il tacito patto fra loro.
    Tenne il capo chino, il respiro sulla lingua; guardò le proprie mani, Run, perché quello l'aveva fatto cento volte, perché quello lo sapeva fare, perché se non l'avesse guardato e non l'avesse respirato, lui avrebbe potuto essere chiunque altro. Non si sarebbe mai definita una persona delicata, né avrebbe immaginato che le proprie dita potessero essere così caute, gentili nell'avvicinarsi a quelle di Gemes. Le sfiorò appena, come appena quelle stesse mani si arrampicarono sulle sue braccia, la gola secca mentre i polpastrelli sfioravano esitanti l'Hamilton. Ancora ci credeva, Run, che si sarebbe spostato. Che se ne sarebbe semplicemente andato, che avrebbe riso di lei e l'avrebbe allontanata: ancora ci sperava, Run.
    Quasi quanto non lo sperava affatto, nella stupita meraviglia con il quale appena premeva le dita sulla pelle. Non come se avesse avuto timore di romperlo, non con l'attenzione che avrebbe rivolto a qualcosa di prezioso esposto in un museo: un animale selvatico - lui, lei. Perché aveva paura si spostasse, perché aveva timore se ne andasse e le ridesse in faccia allontanandola - ed invece non lo faceva, ed Heidrun Ryder Crane, Milkobitch a tempo perso, non riusciva a... Dio, a malapena respirare. O forse aveva smesso di farlo?
    Non era normale - lei, lui. Non erano normali, loro. Non funzionavano a dovere da soli, figurarsi insieme.
    Avrebbe voluto potessero. In quell'istante, le mani ora immobili sulle spalle di Gemes ed il capo ancora testardamente chino, avrebbe, Dio santo!, voluto potessero.
    Si odiò così tanto, per quella debolezza. Per quell'essere così patetica, a fingere di vivere fra palloncini ignorando gli aghi sulla pelle: a fingere che quel mondo non le sarebbe esploso fra le mani.
    A fingere, per poco e solo poco, che potesse averlo davvero - quel mondo, quel Gemes. Espirò piano cercando di ignorare quanto ormai fossero vicini - misurò quel fiato, la Crane, per evitare che andasse a mescolarsi a quello di lui. Quando sollevò le iridi verdi cercando gli occhi blu dell'Hamilton, non c'era traccia della fitta al costato che provava ad ogni respiro, o dell'infantile meraviglia di quel semplice contatto: aveva una reputazione, da mantenere.
    Non le era rimasto molto altro di suo, da difendere. Intrecciò le dita sulla sua nuca, un sorriso sghembo e derisorio mentre le prime note del banjo andavano a spandersi in un'alba immobile - un'alba che senza di loro, a malapena esisteva. «la tua canzone preferita,» e lo sapevano entrambi, che non lo era. Sussurrava per timore di far troppo rumore, per non lasciare che la propria voce vibrasse. Sussurrava perché muoveva appena le labbra, che se solo si fossero azzardate ad una parola di troppo, avrebbero sfiorato quelle di lui. «com'era la battuta? ah, la so reclinò il capo e sollevò un sopracciglio, il tono impostato ad imitare il suo. «non ringraziarmi» il sorriso a riempire la bocca, perché se non rompeva le palle almeno una volta, non se la viveva bene. Che a dire il vero, la Crane, era stressante - ci voleva pazienza, con quelle come lei. Ci voleva tempo.
    L'unico che mai ella avesse avuto.
    Sarebbe bastato così poco. Sarebbe bastato così poco che, Dio, era un dolore ormai fisico ignorare l'irrazionale bisogno di annullare lo spazio fra loro per premere le labbra su quelle di lui, per sentire il suo respiro sulla lingua, intrecciare le dita ai corti capelli corvini - così maledettamente poco, che al solo pensarlo le parve di averlo fatto davvero. Si era convinta così a lungo di volere solamente quello, che dovette soffocare una risata isterica e poco sana fra i denti: non sapeva se fosse più stupida la Run di un tempo, o quella che in quel momento non ne approfittava - entrambe, nel dubbio. «ho un regalo per te,» non personalmente per lui, diciamo che si trattava di un magnanimo dono che aveva offerto a tutti: prese dalla tasca un piccolo blocchetto di note, e lo infilò nella tasca posteriore dei jeans di Gemes. «non ti sto palpando, se lo facessi te ne accorgeresti - ovviamente» sbuffò ironica a denti stretti, tornando poi ad avvolgere le dita dietro la nuca di Gemes. Stavano ballando? Forse si, forse no. Non aveva davvero importanza - non per lei. Per il suo compleanno, Run aveva preparato agli invitati dei bonus Heidrun da usare nell'arco dell'anno: si passava dall'abbraccio all'incassare un pugno senza risposta violenta dalla mimetica, dal lavare i piatti alla colazione a letto, dal lavaggio auto al bacio, dal lucidare l'argenteria alle lezioni di danza; forse c'era anche un corso di cucito, ma non ne era certa: come si denotava dalla distorta calligrafia, li aveva scritti da sbronza.
    Volle fingere che Gemes, dopo quella notte, ne avrebbe avuto bisogno - che le avrebbe parlato ancora. Volle fingere che avrebbe reclamato l'abbraccio ed il pugno ed il lavaggio piatti (anche se aveva Amos) e la colazione a letto ed il lavaggio auto ed il bacio - soprattutto quello, a dire il vero. Era stata tentata di preparargli un blocchetto personalizzato in modo da limitargli considerevolmente la scelta, ma per quanto l'avesse trovato divertente, aveva optato per rimanere sul generico anche per lui: almeno avrebbero potuto fingere entrambi che l'argenteria Hamilton avesse bisogno di una revisione, e non che fosse lui ad aver bisogno di lei.
    Che rapporto malsano e machiavellico, quello di Heidrun e Gemes.
    O forse era solo Run, ed a Gemes non fregava un cazzo - e nel suo peggio, sarebbe stato meglio.
    Chi l'avrebbe mai pensato, che sarebbero arrivati a quello.
    Qualunque cosa quello fosse.
    Inspirò l'aria dalla bocca per evitare di incappare nell'odore della sua pelle, le palpebre socchiuse ad osservare un punto indistinto oltre le spalle di Gemes. Dischiuse le labbra per parlare, ma non ne uscì alcun suono - non volle, Run. Poteva procrastinare ancora un po', ed egoisticamente, vaffanculo!, l'avrebbe fatto. Ma Dio, com'era possibile che fosse così difficile. Puoi non dirglielo, Run. Non lo saprà mai, che sei stata tu: ci si cullò debolmente in quella possibilità, la Crane. Avrebbe potuto fingere ancora per poco, tempo che quella farsa giungesse alla conclusione - che non sarebbero destinati a durare in ogni caso, loro due: che si sarebbero stancati, e si sarebbero odiati, e non sarebbero più riusciti a sopportare l'uno la presenza dell'altro nella medesima stanza - ed avrebbe potuto confessarglielo quando a nessuno dei due sarebbe più importato, gli occhi a brillare di malizia ed il sorriso beffardo sulle labbra turgide. Avrebbe potuto fingere ancora per poco, tempo di guadagnarsi un posto nella sua vita - un vuoto che senza di lei, non sarebbe riuscito a colmare -: avrebbe potuto aspettare una notte qualunque di una vita qualunque, le gambe pigramente avvolte alle sue e la testa poggiata distratta sul petto di Gemes mentre lui, distratto, spostava ciocche scure sfiorandole piano la testa - ed avrebbe potuto vuotare il sacco quando entrambi non avessero più potuto andarsene, quando avrebbe smesso di avere importanza.
    Ma allora non avrebbe avuto senso - lei, loro. Allora non sarebbe più stata Heidrun Ryder Crane, Milkobitch a tempo perso.
    Gliela doveva, quella verità scomoda.
    Gliela doveva.
    Idealmente sapeva che tutto sarebbe tornato al suo giusto posto d'essere: lui l'avrebbe odiata, lei avrebbe continuato ad amarlo comunque finché non si fosse stancata, ed allora avrebbe trovato un altro Gemes Hamilton - funzionava così, Run. Male.
    L'idealismo, aveva poco a che fare con il cuore a battere sui denti, con la calda sensazione della viva presenza di lui a pochi centimetri da lei - così innaturale, quella distanza.
    Chiuse gli occhi, poggiò la fronte contro la sua. Non avrebbe dovuto, ma lo fece comunque.
    Solo per fingere di poterlo fare, sapete. Fingere che fosse normale.
    Si umettó le labbra prima di far scivolare il capo sulla sua spalla, ignara di aver trattenuto il fiato finché i polmoni non reclamarono ossigeno - la bocca ora così vicina al collo del telecineta, che le parve un reato non baciarlo.
    Ma era una criminale, quindi non lo fece.
    «in un'altra vita-» si schiarì la voce. «in un'altra vita, c'è una ragazza che sta spacciando erba fuori dalle università» curvò le labbra in un sorriso, gli occhi sollevati a cercare brevemente i suoi.
    «per guadagnare soldi in modo onesto, sai - perché vuole viaggiare, e vedere tutto il mondo, e disegnarsi sopra ogni muro» deglutì. «evita i licei, perché spacciare ai propri fratelli sarebbe alquanto rude. » Jeremy le avrebbe rovinato gli affari, pretendendo lo sconto famiglia.
    «incontra un giovane e promettente dottore in... quale corso di studi necessita al test di ingresso la mancanza di un'anima? Giurisprudenza?» soffocò una risata sulla sua spalla, dove tacque una manciata di secondi. «uno di quei ricercatori fighetti ed insopportabili che sostituiscono i professori agli esami solo per segare gli studenti, per intenderci. Lo vede nel campus, intento ad iniziare un dibattito o dar inizio ad un genocidio - forse entrambi. Frigido, una scopa nel culo - ti ricorda qualcuno? Che coincidenza» Finse un tono amaro. «così gli regala dell'erba per rilassarsi, perché è una ragazza generosa - lui la denuncia, lei gli da fuoco alla macchina, e fra la spacciatrice e l'avvocato inizia una guerra fredda: lei ci si intestardisce, lui la ignora, lei se ne sbatte.» si scosse nelle spalle. «ed una notte si ritrovano su un tetto, e non sono più ne spacciatrice né avvocato» ignorò il palato arido, o il bisogno fisico di guardarlo negli occhi - perché lo sapeva, che le sarebbero mancati. «e forse lei bacia lui, o forse lui bacia lei, e forse su quella questione inizieranno una causa civile in tribunale, e forse lei rimpiangerà di non averlo buttato giù dal tetto quando ancora avrebbe potuto farlo» una pausa. Non si era neanche resa conto di quando la musica avesse cessato di suonare, di quando il sole avesse cominciato a far capolino dando una strana sfumatura azzurro acqua alle iridi di Gemes. «o forse no.» concluse, evitando il suo sguardo.
    Perché il fatto era che quella Run e quel Gemes, in un'altra vita ed in altri Run e Gemes, una possibilità - sottile, ma una possibilità - l'avrebbero avuta.
    In un'altra vita, loro due, sarebbero stati possibili. Sempre disfunzionali, sempre mal assortiti come la portata principale d'un banchetto ed il suo dessert. Sempre sbagliati, ma in quella vita, non gli sarebbe importato.
    Magari per poco, o magari per sempre.
    Inspirò - ancora un secondo. Sollevò la testa, sfiorò piano con i pollici le guance di lui - ancora un battito.
    Ed abbandonò le braccia lungo i fianchi, tre passi indietro.
    «la prima volta che ti ho visto, ti ho ammirato» un sorriso storto. «per le tue capacità» specificò.
    Lasciò la frase in sospeso, fingendo - ancora un attimo - di star parlando del Labirinto.
    Un altro passo indietro. «era buio»
    E labirinto, non lo era più.
    «un lavoro pulito, il tuo:» un ghigno sbilenco, le palpebre assottigliate a fingere che la questione non la turbasse - che non le importasse, che non la toccasse.
    A fingere di non sentire niente. «il babbano non se n'è neanche accorto» una pausa. Se non fosse stato da codardi, gli avrebbe dato le spalle.
    «eri un sicario come un altro» una pausa. «un numero come un altro» e quale numero, lo sapevano entrambi. Sbatté languidamente le ciglia, pregando che scambiasse il suo battito per il proprio.
    «un altro fascicolo per i miei aeroplanini di carta» sorrise perfino, la Crane. Un po' malevola, che quell'odio che sapeva di meritarsi, voleva già ricambiarlo - e non poteva, e Dio non poteva, e ci provava comunque.
    Avrebbe potuto giustificarsi, Run, o almeno tentare di salvare il salvabile. «cosí sono entrata a casa tua, mi sono assicurata che non ci fossero testimoni - non ti ho mai guardato» ma non l'avrebbe fatto, perché era una Run: così avrebbe voluto piangere, ed invece sorrise.
    In fin dei conti, andava bene così. Lei non era fatta per persone come lui - che tirava fuori solo il peggio, degli altri. Un cuore puro, il suo, ma incapace di prendere il buono e renderlo migliore: lei amava il peggio ed al peggio, i difetti sui pregi. Ciò che gli altri odiavano e disprezzavano, era il suo capolavoro.
    E forse per quello, l'aveva amato.
    E di sicuro per quello, non avrebbe dovuto ricambiarla. «ti ho colpito, e» non farmelo dire. «sai cos'è questo?» un cambio repentino d'argomento, il braccio girato in modo che potesse leggere. Rise amara, atona.
    «non è un tatuaggio, è un marchio» scosse la testa, la voce bassa resa agrodolce dalla sua vacua densità. «non ti sei chiesto perché conoscessi così bene i corridoi del laboratorio, un anno fa?» strinse le labbra fra loro.
    Era la mia prigione. «era casa mia, quella.» una pausa - inutile, ma una pausa.
    I miei aguzzini. «la mia gente»
    Sono nata per questo, Gemes.
    «ti ho portato io nei laboratori, hamilton.»
    E lo sapeva, l'aveva sempre saputo, che non avrebbe capito.
    Fu così stupida da sperarci comunque, Heidrun.
    Fu così idiota, così irrimediabilmente Heidrun, che non riuscì a dire l'unica cosa che potesse contare davvero - che a quel punto, non importava più a nessuno.
    Non poteva importare più a nessuno.
    Che tanto si sapeva, che alla Crane piaceva amare quel che non poteva avere: l'alba, la neve.
    Un nome in più, che differenza avrebbe fatto.
    Gemes Hamilton, che differenza avrebbe fatto.

    i may not be your cup of tea but i'm your 10th shot of tequila
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    gemes hamilton
    09.06.2017
    «balla con me» ruotò con lentezza lo sguardo, distogliendolo dal quieto scrosciare del fiume contro gli argini per rivolgerlo alla Crane. Nei freddi chiarori di un sole che ancora faticava a sorgere, Gemes Hamilton si immobilizzò – un tentennamento appena visibile negli occhi cerulei, la fronte corrugata e le sopracciglia arcuate a celare, a se stesso e al mondo intero, un fremito a scendere lungo la spina dorsale. Incolore ed insapore, inaspettato, quel fremito a scorrere giù per la schiena: privo di alcuna ragione d’esistere, imputabile alla gelida alba per non ricercare in pozze di verde smeraldo un motivo altro, per non trovare nei morbidi lineamenti e nei fili d’ebano un nuovo, impercettibile tremore a rizzare i peli sulla pelle.
    Non era semplicemente, e solamente, insensato – quel regalo, quel momento, quella richiesta, quei loro: istantanee strappate da un album di ricordi che al telecineta non poteva appartenere, che le sue dita non avrebbero mai desiderato né potuto sfiorare nemmeno per il più stupido degli errori.
    Era sbagliato - lui, loro.
    Non rispose, il capo leggermente chino ad osservare il titubante avanzare di Heidrun, la tacita sfida onnipresente a pendere dalla dura linea delle labbra; un divieto di avvicinarsi muto a gravare nello spazio che li divideva, ridondantemente inutile laddove l’altra parte non aveva ben chiare le zone limite da non varcare: glielo aveva detto dall’inizio, di non farsi troppo vicina – e lei si era addormentata sul suo petto, tra le mura di pietra di un labirinto; e lo aveva baciato, rubando quegli ansimi ad una realtà che non apparteneva a nessuno dei due.
    Non rispose perché quella non era mai stata una domanda, come mai da tale aveva voluto vestirsi il suo vieni con me: ordini mascherati da inviti, sorrisi a rendere l’obbligo meno pesante e più dolce sulle labbra – che non si poteva dire di no, a quegli sguardi e a quelle voci; che non si voleva, dire di no.
    Ed era quello il dannatissimo punto: Gemes non rispose, perché non voleva rispondere; che era superfluo dire di sì, ed inutile dire di no. Si odiò, e la odiò, per quel sospiro stretto tra i denti, le mani strette a pugno dentro le tasche.
    «balla con me. è pur sempre il mio compleanno: sarà il nostro segreto» ruotò gli occhi e voltò il capo, per non dover vedere quel mignolo alzato ed il sorriso innocente; sbuffò sonoramente, ma non disse di no. Si dondolò nella convinzione che l’aveva fatto perché era il suo giorno, e che quello seguente sarebbe tornato tutto alla normalità – che normalità, non lo era mai stata davvero. Respirò quasi fisicamente l’assenza di altra anima viva per giustificare quel suo silenzioso assenso – quel suo restare, reprimendo una fuga che aveva piantato le proprie insidiose radici già un’ora prima, un anno e mezzo prima.
    Lo faceva per quello, Gemes Hamilton. Lo faceva perché era il compleanno di Run, ed a lui non costava nulla concedergli quel ballo, farla felice; lo faceva perché era ancora troppo annebbiato dall’alcol della festa appena conclusa per opporsi realmente, troppo stanco per dar voce alle proteste spinte contro i denti, acide sulla lingua; lo faceva perché sarebbe rimasto su quel ponte, su quel fiume, su quella Londra immobile ed addormentata – nessuno li avrebbe visti, e loro avrebbero potuto fingere non fosse mai successo.
    Se lo ripeté così tanto, che divenne la sua personale realtà – mentre lei si avvicinava, le dita di lei a trovare quelle di lui; mentre alzava gli occhi al cielo, un sorriso distratto a curvare le labbra; mentre sbuffava irritato alle note della canzone, la lingua a schioccare contro il palato: lo faceva per quello, lo faceva per dimenticarlo.
    Non lo faceva, perché era certo che dimenticarlo fosse impossibile, né perché sicuro che evitarlo sarebbe stato uno sbaglio.
    Non lo faceva, perché voleva farlo – il cuore deglutito al proprio posto, il capo chino quel tanto che bastava a percepire i propri fiati mescolarsi. Aveva bisogno, di farlo.
    Viveva di schemi, il telecineta, di programmi di vita architettati da sé e per sé sin dall’inizio: andava sempre tutto secondo i suoi piani, perché non era possibile il contrario. Ambizioso e lungimirante, non accettava che qualcosa uscisse dai binari ch’egli stesso aveva edificato per i propri prospetti; era meticoloso persino nei più infimi dettagli, e se qualcosa andava storto era preparato, un piano B sempre stretto tra le dita.
    Heidrun Crane era tutto ciò che non sopportava – era il disordine, la disorganizzazione; era quel bambino che i binari dei treni montati da altri andava a distruggerli così, per divertimento, arrangiandoli come più gli piaceva: nel modo più errato possibile. Era l’archetipo del personaggio che gli schemi non sa nemmeno cosa possano essere, che si chiede se sia possibile mangiarli o meno – era quel genere di persona che vive fuori dal contesto, sulle praterie che i binari tagliano senza preoccuparsi del deturpamento, che su quelle rotaie ci si legava per portare avanti una protesta che esisteva solo nella sua mente.
    Heidrun Ryder Crane era tutto ciò che non veniva calcolato nei progetti, tutto ciò che il telecineta non aveva calcolato nei suoi progetti: era quell’occhiata unta di malizia ed innocenza, inaspettata nella giornata più sbagliata, era il brusio di sottofondo a rendere inutili i tappi per le orecchie; era l’odore dell’alcol di prima mattina quando entrava in ufficio, ed era il sapore di liquori su un palato secco quando a lavorare non ci andava; era quello sguardo sopra l’ennesimo boccale di birra nel pub più lercio di Londra, le scommesse quando il cellulare di uno dei due squillava su quale magico trio era morto - o quasi, nel dubbio -; era la continua, sempre la stessa, proposta di aiutarlo a disegnare forme falliche sul viso di un Eugene Jackson svenuto sulla moquette di casa sua, alla quale puntualmente mugugnava contrariato («cristo santo, crane, non hai dodici anni» «infatti, non ne ho nemmeno dieci») prima di sostenere con dita invisibili quelle incerte per la sbronza della mimetica. Era le prime domande alle quali non era riuscito a dare una risposta, il silenzio a gravare su un petto immobile - che non sentiva niente, Gemes Hamilton.
    Era quel calore e quel profumo che si fingeva – che Gemes, fingeva - di non sentire sotto le coperte, solo per non dover fingere di volerla mandare via. Che avrebbe dovuto e mai aveva fatto, mai aveva voluto.
    Era il difetto nella matrice perfetta, Run, un tassello scomposto alla base di una torre d’avorio. Era quel filo di luce a fargli presente che la maschera s’era incrinata, a ricordargli che le debolezze potevano essere letali.
    Ed ancora ruotò gli occhi al cielo quando sentì suonare la base della canzone che più detestava, conscio ch’ella avrebbe visto il lento scivolare delle iridi verso l’alto; nuovamente, curvò le labbra quando certo che lei non l’avrebbe notato, le dita impegnate a far scivolare nella tasca dei pantaloni il suo regalo - perché era anche quello, Heidrun Crane. Quei gesti che mai si sarebbe aspettato di fare per chiunque, quei sorrisi morbidi che prima d’allora non avrebbe rivolto a nessuno – era colpa sua, se era così: non sarebbe dovuta morire, in quel bosco; non era nei suoi piani.
    Dovette ripeterselo ancora, e ancora, dietro le palpebre calate, mentre la fronte di lei sfiorava la propria: non si stava muovendo adagio su quelle note per lei, non aveva esaudito quella richiesta per farla felice. Perché non erano niente, loro due – condividevano la stessa etichetta in un mondo al rovescio, lo stesso ufficio in un ministero di comodo; condividevano lo stesso battito nel petto, lo stesso respiro sulle labbra, ma questo non li rendeva più di nulla. Perché era sbagliato, desiderare quello strappo alla regola: era sbagliato bramare quelle labbra, sbagliato sognare di stringere tra le dita i lembi dei suoi vestiti prima di toglierli; era sbagliato, desiderare lei - che detestava perdere, l’Hamilton, e sapeva che quella non era una battaglia che avrebbe conquistato.
    Gli avevano detto che l’amava, ma non poteva essere vero: amava la riuscita dei suoi progetti, amava sé stesso, amava vincere – era per quello che lei era viva, non per altro. Non accettava, potesse essere per altro; che senso avrebbe avuto amare, senza essere amati di conseguenza – che senso aveva, amare uno come Gemes Hamilton? Non voleva essere amato, ma temuto - in quell’infantile capriccio, che aveva sempre sottinteso il contrario.
    Non lo faceva per lei, non per sé stesso, non per loro due – lo faceva perché non c’era niente di male, in quel balla con me; lo faceva perché erano il whisky ed il rum ormai metabolizzati a rendere il respiro più pesante e denso, il cuore più palpitante contro il petto.
    E si odiò mentre Run raccontava di una vita lontana ed astratta, perché mentire a se stesso era l’unica cosa sulla quale aveva fondato quei ventisei anni di vita – l’odio, il rancore, il potere erano state solo conseguenze, la vendetta un’esternazione come un’altra di quella menzogna dipinta a pennello -; in quel preciso momento, si accorse di non esserne più un buon giudice per sé stesso come lo era un tempo, di non saper omettere la verità nel modo più opportuno. Un sorriso bieco squarciò la piega delle labbra mentre l’altra finiva di parlare, facendo cadere in un vuoto silenzio l’intera Londra: in cosa si era trasformato?
    Chiuse gli occhi, d’istinto e distratto, le dita di lei a solleticargli con delicatezza la gote; un ordine sussurrato, che d’imperativo aveva solo l’intento, prima che questa retrocedesse. «non farlo» un po’ a tutto, un po’ a niente - non parlare, non allontanarti, non renderlo difficile: che finché fossero rimasti su quel belvedere, fintanto che la voce si sforzava di raggiungere temi astratti e leggeri, potevano fingere ancora un po’. Una supplica innocua ed egoista, quella di lui, che non sapeva dove l’altra parte volesse andare a parare – ma qualunque cosa fosse stata, era certo non gli sarebbe piaciuta. Perché era così che prendeva le cose - male, a prescindere -; perché ogni volta che la neo ventunenne apriva bocca, faceva danni.
    Perché dovevano parlare, dovevano farlo da troppo; non voleva parlare, lui.
    Quando arretrò, l’Hamilton fece lo stesso; rimase impassibile, il moro, mentre sempre più prendevano le dovute distanze - necessarie tra due come loro, che vicini erano pericolosi.
    Ed erano stati troppo, vicini – erano troppo, pericolosi.
    Tenne le mani in tasca e la testa alta, nonostante avrebbe preferito non guardare la ragazza, eludere al meglio quel contatto: venire respinto non era una sua consuetudine, ed era più semplice credere fosse quello a rendere difficoltoso l’incrocio degli sguardi. «la prima volta che ti ho visto, ti ho ammirato – per le tue capacità» sollevò le sopracciglia, le labbra incurvate verso il basso: non era affatto sorpreso. Era lo standard, l’ammirazione nei suoi confronti – che fosse per quello che era in grado di fare, o per lui come magnifica persona; sarebbe stato molto più strano, nonché inverosimile, la reazione contraria: nemmeno una Heidrun Crane poteva negare un’evidenza come quella. «comprensibile» criticò apatico: nemmeno ci voleva provare, a trattenere i propri commenti – in realtà, era tanto se la lasciava parlare; lo sapeva perfettamente, che la preferiva quando era in silenzio. Già aveva parlato troppo - già non voleva più sentirne nulla, ignorarla del tutto. «senti crane, ti ho portato qui per suonare, quindi -» si era voltato, diretto verso il pianoforte e lontano dagli occhi di smeraldo. «era buio» chiuse gli occhi continuando a darle le spalle, un respiro profondo a premere acidulo sulla lingua - che solo da quello, l’altra avrebbe dovuto capire che non c’era da dire altro. Gemes Hamilton dava le spalle a qualcuno, soltanto se sapeva che dall’altra parte quel qualcuno gliel’avrebbe protette - qualcuno di fidato.
    «un lavoro pulito, il tuo: il babbano non se n'è neanche accorto. eri un sicario come un altro»
    Girò appena la testa, aprendo gli occhi zaffiro e rivolgendole un tacito sguardo da sopra la spalla – e quella pausa, fu pesante come il piombo. «un numero come un altro» «stai zitta» sibilò tra i denti, stringendo le dita attorno all’orologio, a quelle tre cifre d’inchiostro, quasi solo il nominarle avesse iniziato a farle bruciare, e chi fosse stato in grado di leggere lo sguardo del telecineta avrebbe potuto intravedere una supplica, sotto le sopracciglia aggrottate e tra le fessure azzurre – lui che, Dio!, non sapeva nemmeno come si supplicasse; lui che ancora ci credeva, e che mai lo aveva fatto. Avrebbe voluto sapersi dire che era solo uno scherzo di compleanno, che ci aveva preso gusto approfittandosi di un briciolo di buon cuore dell’Hamilton – ma sentiva quel battito, il suo battito, e gli bastava a sapere che non era così.
    «sai cos'è questo?» lei glielo disse, ma a lui non interessava – e non la guardò, non la ascoltò.
    «non ti sei chiesto perché conoscessi così bene i corridoi del laboratorio, un anno fa?» lei glielo disse, ma a lui ancora non interessava.
    «ti ho portato io nei laboratori, hamilton.»
    «hai finito?» portò le dita alla radice del naso, la voce una flebile protesta – che era stanco, Gemes Hamilton.
    Che era fottutamente deluso – e sovrastava l’odio, sovrastava la rabbia.
    Iniziò a ridere secco, meccanico. Iniziò a ridere di Run – che non aveva niente da perderci, lei, in quella confessione. Che non gliene importava nulla, che non erano nulla – e cristo, l’avrebbe così tanto voluta uccidere, in quel momento.
    Iniziò a ridere di sé, Gemes: così sciocco, così stupido, da crederci troppo.
    Così ingenuo, lui!, da innamorarsi – che lo sapeva essere un errore. Che era inutile amare, se non si poteva essere amati in risposta: non come veniva adorato un idolo o un tiranno, ma come veniva chiamato sottovoce l’amante sotto un cielo pieno di stelle, una sgualcita coperta a ripararli dal mondo e le tenui risate a fare da musica – si sentiva un idiota, anche solo a pensare cose del genere.
    Chi poteva amare uno come Gemes Hamilton?
    Che forse era troppo per gli altri, e forse era un po’ troppo poco – ed era nel dubbio, che impediva agli altri di avvicinarsi.
    «sai,» la risata si affievolì fino a scomparire dal volto del ventiseienne, mentre questo alzava una mano a sfiorare invisibile e lontano il piano: un gesto secco, e questo cadde dalla piattaforma del Tower Bridge – se l’urlo che udì era l’acuto verso di un gabbiano o un povero londinese mattutino schiacciato dallo strumento, non gliene poteva importare di meno: cazzi suoi, se esce all’alba. Avrebbe desiderato quello passasse come un segnale, che se avesse potuto avrebbe colpito lei – che se non l’aveva uccisa, e che fosse il suo passatempo preferito eliminare quelli della sua razza la Crane lo sapeva bene, era solo perché altrimenti sarebbe morto anche lui, che alla pelle ci teneva.
    Rise ancora amaro, odiandosi nella consapevolezza che non l’avrebbe potuto fare – viveva di vendetta e rancore, ma non sarebbe mai stato in grado di toglierle la vita. L’avrebbe tenuta sospesa, un coltello puntato alla gola per ricordarle quotidianamente che sarebbe stato in grado di spingere più a fondo, con tutti i fottuti motivi del mondo – che se non lo faceva, era perché poteva tornare utile. Quindi lo fece passare come un capriccio, che tant’era alla fine. «spero il tuo cuore sia più leggero, dopo questa confessione» mentì, schioccando la lingua sul palato e voltandosi verso di lei. Se l’era costruita così bene, quella confessione, che non sapeva nemmeno come reagire, come rispondere a quel fuoco amico: non poteva neppure minacciare i suoi cari, che in un modo o nell’altro ci era affezionato anche lui. E poi dicevano che era lui, quello calcolatore.
    Scosse la testa, rivolgendo lo sguardo altrove – le mani a stringersi a pugno nelle tasche, il sorriso perfetto a mascherare ogni altra cosa.
    Avrebbe potuto incazzarsi, ma non voleva.
    Avrebbe voluto odiarla, ma non poteva.
    Avrebbe voluto dirle che non gli interessava, ma sarebbe stata una bugia – così rimase in silenzio ad ammirare il sorgere del sole. Aveva passato gli ultimi anni a dare la caccia a dottori e compagnia varia; per due anni, aveva pulito il mondo da quelli che credendosi onnipotenti quel mondo volevano cambiarlo. Per quanto potesse essere lei, era comunque una di loro. Gli aveva scombinato così tanto le carte in tavola, che non sapeva più dove fosse il suo asso nella manica. «buon compleanno» sorrise ironico, gli occhi incapaci di condividere lo stesso riflesso delle labbra. «goditi la vita, run:» mentì ancora, un breve inchino sardonico mentre arretrava.
    Ed avrebbe voluto picchiarla, ucciderla, gettarla giù dal fottuto ponte; avrebbe voluto dirle addio, chiederle se a lei avesse fatto male, domandarle cosa fosse quel buco allo stomaco; avrebbe voluto annullare quello spazio, tornare a quando un anno e mezzo prima nemmeno si conoscevano. Invece, non si mosse – non disse nulla. Era così brutto, avere delle emozioni: soprattutto, averle in contrasto tra di loro.
    «ti auguro il peggio» e quella volta, scomparendo dalla vista della mimetica, era sincero.
    Che quello, era l’unico futile modo in cui potesse ferirla – che era evidente, non gliene fregasse un cazzo: non erano nulla, non erano nemmeno amici; era giusto fosse così.

    03.12.2017
    L’avambraccio premuto contro il legno e la fronte appoggiata all’arto, Gemes Hamilton batté un nuovo, poderoso colpo sulla porta d’ingresso dell’appartamento, una sola parola a risuonare nella tromba delle scale – greve e storpiata, ma sempre la stessa. Quasi urlò quel nome – e quasi soltanto perché era un uomo di classe, il telecineta, e non era proprio dei suoi modi gridare alle due e mezza di notte in un condominio -, tanto almeno da costringere la vecchietta del loft di fronte ad affacciarsi sul pianerottolo, enormi tappi di bottiglia come occhiali ed un bastone stretto tra le dita nodose.
    Quando era iniziata quella giornata, non si aspettava di finirla in quel modo, né tantomeno proprio lì.
    Soprattutto, lì.
    Non ricordava nemmeno come fosse finito in quel condominio.
    Otto ore e mezza prima, cinque piani sotto il suo ufficio, si era tenuta una conferenza con il preside di Durmstrang alla quale, per principio, non aveva voluto partecipare. Ne sapeva poco e niente di Vasilov Dragomir, ma meno lo vedeva e meglio si sentiva. Dire che non gli piaceva sarebbe però stato avventato: non ne condivideva i valori – come magonò, come avrebbe potuto farlo? -, né aveva apprezzato il suo intervento al funerale dei propri fratelli la stessa estate; aveva lasciato morire della gente, in quel capanno - gente che lui aveva invece voluto salvare. Per il resto non poteva pronunciarsi, delle sue guerre contro il mondo intero se ne sbatteva allegramente: non era affar suo, così si era convinto.
    Otto ore e quindici minuti prima, lo stesso uomo aveva dichiarato guerra al resto mondo che ancora non era nelle sue mani, portando la propria battaglia al livello successivo. Li aveva praticamente condannati a morte, e con Lafayette morta avevano perso un possibile alleato - erano nella merda: the same old story all over again. Ventisette anni di sopravvivenza, a quel punto, sarebbero contati poco o niente – ed aveva riso, quando Jericho passando al quinto livello gli aveva raccontato quel che era successo alla riunione. Rise, perché non c’era molto altro da fare a quel punto: ancora voleva convincersi, che non poteva interessargli – di tutte quelle bombe, di tutti quei morti, di quella sadica partita a Risiko ormai già vinta dal nord europeo.
    Quattro ore prima era seduto ad un pub della Londra babbana con Nathaniel ed Eugene, un sarcastico brindisi al nuovo mondo del Drago.
    Oh.
    Inspirò dalle narici, ignorando la voce dell’anziana e chiamando ancora a gran voce qualcuno dall’altra parte della superficie in scadente mogano. Un brindisi, con Henderson e Jackson.
    Un brindisi soltanto, aveva detto - tuttavia, ricordava che solo mezz’ora prima il tavolo era pieno di bicchieri vuoti ed i calici alzati per bere alla salute del pavor e della nuova catena di negozi per tavolette del wc con sopra il suo nome.
    Eppure lo sapeva, che non doveva uscire con loro – Rea glielo ricordava ogni mattina osservandolo trascinarsi in cucina.
    «ragazzo, se non la smetti di urlare dovrò chiamare la polizia» ruotò con lenta, lentissima intenzione la testa, lo sguardo a scivolare sulla vecchia donna. «signora,» masticò le parole quasi avessero uno spessore proprio, la lingua ad inumidire le labbra. «sono un amico di sinclair hansen» tuttora, non saprebbe dire perché l’avesse detto - gli sembrava la cosa giusta.
    Lo era. «non c’è bisogno di cambiare la polizia» biascicò, e sotto la nebbia dell’alcol – leggera, ma pur sempre presente – poté vedere gli occhi arzilli di lei illuminarsi. «ARNOLD, QUESTO GIOVANE CONOSCE SIN!» «QUELLO DEI PICCIONI?» «LUI» corrugò la fronte, scosse appena la testa – cosa diavolo stava succedendo.
    Cosa aveva combinato.
    Arnold si affacciò, la vestaglia a rivestirlo per metà ed il resto coperto da una tutina in lattice. Gemes, più confuso che mai – era quello che provavano quotidianamente Eugene e Run dinnanzi alla vita? -, strabuzzò gli occhi: una tutina in lattice? «comunque ragazzo, se continui ad urlare dovremo prendere dei provvedimenti» forse fu allora, che notò che il bastone tenuto in mano dalla nonna non era un bastone. Cos’era – una frusta? «CRAAAAANE» chiamò di nuovo, quella sola parola a bruciare una gola riarsa dall’alcol - a bruciare più del dovuto -, lo sguardo fisso sulla coppia di anziani – che nel cuore, tanto anziani non sembravano esserlo: non voleva indagare.
    Non doveva essere lì, Gemes. Non voleva.
    «APRI LA PORTA» continuò, riportando la testa a premere sul braccio; per sei fottuti mesi, aveva cercato di ignorarla.
    Di ignorare lei e tutti quelli che la conoscevano, che portavano un po’ di lei sulla pelle; di ignorare quei biglietti lasciati in una tasca dei jeans, sempre diversa, e le sere che era troppo stanco per fare finta di volerli davvero ignorare – ed allora si sdraiava sul divano, lontano da tutti e da tutto, e sovrappensiero leggeva cosa vi fosse scritto sopra, lanciandone solo alcuni dentro il camino acceso -; di ignorare i tasti del pianoforte nel soggiorno, l’impulso di premerli quando si accomodava sullo sgabello.
    Che non fosse abituato a provare dei sentimenti, era un dato di fatto.
    Era un errore, essere lì – nemmeno era certo che lei avrebbe aperto: non c’era niente da perderci, e non c’era niente da guadagnarci. Per lei, per lui; per loro. Perché ancora si ostinava a credere che non ci fosse nulla di cui discutere, Gemes Hamilton. Non c’era niente da recuperare, e quel malaugurio d’addio doveva aver sancito la fine di un qualcosa mai iniziato. Non l’aveva fatto - che le aveva auspicato il peggio, e sempre sperato il meglio. «I TUOI VICINI SONO INQUIETANTI E VOGLIO UCCIDERLI» dobbiamo parlare, sottinteso nel non verbale: era il suo fottuto turno, quello.
    Di cosa volesse parlare, ancora non lo sapeva: era solo consapevole di volerlo fare - magari solo sfogarsi, magari soltanto avvertirla di non morire da quel giorno in avanti, che le possibilità sarebbero tremendamente aumentate.
    Magari soltanto dirle che il peggio che poteva augurarle, alla fine, era lui.
    03.12.2017 // 02:30
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    heidrun ryder crane
    Il signor Price era il vecchio più bastardo di tutto l'ospizio: aveva acquosi occhi nocciola infossati dietro sopracciglia grigie e troppo folte per un viso umano, mento sfuggente e labbra sempre curvate verso il basso - probabilmente schiacciate dalla forza di gravità e dall'aura di costante malvagità dell'uomo: non ricordava di averlo mai visto sorridere, Run.
    Inutile dire che lo aveva amato dal primo «fottiti, volevo una filippina» che le aveva rivolto ruotando sulla sua fiammante sedia a rotelle prima di volgerle le spalle.
    Da quando aveva abbandonato il lavoro al Ministero, si era dedicata a qualunque mansione che richiedesse una divisa - e sì, era riuscita a scovare una casa di riposo dove le assistenti indossavano adorabili cappellini celesti che tanto le ricordavano gli ospedali militari della prima guerra mondiale. Non le piacevano particolarmente le persone anziane, quasi lo stesso livello dei bambini, ma aveva deciso di portarsi avanti per quando zio Sin avesse avuto bisogno di una colf: una ragazza adorabile, Heidrun Ryder Crane. Si sapeva. Se li era studiati tutti, quei vecchietti: la signora Roger aveva la demenza senile, ed a Run bastava Jay; il Signor Nova aveva la mano ancora troppo lunga per i suoi gusti, e l'unico mammifero baffuto con mille chili sulle spalle che poteva palparla, era T-Jade; il Signor Minjun parlava solo mandarino, ed ahimè quella lingua ancora le mancava nel suo database multi etnico; la signorina Dillard, con quell'amore per i gatti e per il cucito, le ricordava troppo sé stessa per essere ritenuta una piacevole compagnia.
    E poi c'era il Signor Price.
    Lo odiavano tutti, lì dentro: i suoi soci, le infermiere, le assistenti. Perfino i parenti degli altri vecchi avevano smesso di tollerarlo, pur facendo visita alla casa di riposo solamente una volta al mese - e quando si sentivano buoni.
    Non parlava mai, e se lo faceva era per insultare qualcuno (nello specifico, chiunque osasse respirare la sua stessa aria); mangiava solo purè e prosciutto cotto, ma rubava comunque i budini del suo compagno di stanza con il solo scopo di rovesciarli sadico sul pavimento. Non gli andava mai bene nulla, dai gruppi chiamati a suonare la domenica canzoni da sagra, alla torta Margherita del venerdì pomeriggio. Odiava il sole, ma non tollerava neanche la pioggia; soffriva il freddo, ma si lamentava anche del caldo.
    In poche parole, era proprio il tipo di Run. L'aveva capito immediatamente che sarebbero andati d'accordo, che il Signor Price lo volesse o meno.
    Inutile dire che la Crane era stata licenziata il giorno stesso in cui aveva messo piede per la prima volta nell'ospizio - a quanto pareva, voi pensate!, era illegale offrire agli anziani sostanze stupefacenti. Scioccante sul serio. Ciò non l'aveva certamente fermata, e la casa di riposo era diventata un appuntamento quotidiano: la nuova sfida di Heidrun Ryder Crane, sempre in cerca di vette da conquistare e rimasta, recentemente, orfana del suo Everest.
    «sei l'essere umano più fastidioso e rompi coglioni che abbia mai conosciuto», uno dei complimenti più sentiti e graditi che l'uomo le avesse rivolto, guadagnandosi in risposta un bacio in fronte ed un sorriso.
    Aveva vissuto una vita tutt'altro che piatta, il signor Price, ma c'erano tante cose che non aveva mai fatto - dopotutto, faceva parte di un'altra generazione.
    Run, chiaramente, si era sentita in dovere di colmare quelle lacune: non era forse la prima a sapere cosa si provasse a morire con rimpianti? Non che avesse imparato dai propri errori, ma a predicare bene e razzolare male era la migliore.
    Così l'aveva portato ad un rave, e gli aveva offerto lsd. Così l'aveva portato all'acquario, e sullo skate - mica facile attaccare le tavole sotto la sedia, ma nessuna prova era mai abbastanza ardua, per la nostra paladina. Gli aveva insegnato ad usare le storie su Instagram, ed aveva abusato di Snapchat più di Soho.
    Così gli aveva fatto vedere l'alba e il tramonto, ignorando le ingiurie sotto voce.
    Così aveva lasciato che il Signor Price divenisse ciò che il diario segreto era per una dodicenne - una valvola di sfogo. Gli aveva raccontato ogni cosa, libera perché convinta di non essere mai ascoltata. Gli aveva parlato di tutti quegli argomenti delicati e spinosi che evitava di tirare fuori con gli altri: Heidrun parlava tanto, probabilmente troppo, ma raramente di quel che davvero le creava problemi. Tendeva a limitarsi, porsi confini; non si trattava di fingere, né dava meno credito ai suoi affetti.
    Era semplicemente fatta così, lei. Voleva rendersi semplice perché il complicato piaceva a pochi, in un mondo come il loro.
    In un loro come loro.
    Era una notte di ottobre, quando per la prima volta il Signor Price le parlò senza essere interpellato - non lo faceva mai.
    «non fare la cazzona» chi, lei? Quando mai. L'aveva osservato da sopra la brace di una sigaretta accesa, le gambe incrociate su una panchina di Hyde Park. Si, aveva (di nuovo) rapito il Signor Price.
    Si, solamente perché non voleva rimanere sola. Non quel giorno, non così. Sapeva come si sarebbe conclusa la serata, se lui non fosse stato con lei: avrebbe finito l'ennesima bottiglia di vino rosso, avrebbe indossato un vestito carino, e dopo aver detto ai fratelli di non aspettarla sveglia, avrebbe cercato il primo locale malfamato nelle vicinanze (non che fosse difficile da trovare, in un quartiere come il loro) ed avrebbe lasciato che qualche anima sfortunata le offrisse da bere finché entrambi non fossero più stati in grado di stabilire cosa fosse accettabile in pubblico, e cosa no. Tristemente, le sue gesta da fascia protetta erano più splatter che youporn: non c'erano più i bravi ragazzi di un tempo. Non capiva perché dovessero tutti presumere che a fine serata li avrebbe invitati a casa propria: le nuove generazioni pensavano che, perlomeno il sesso orale, fosse il pagamento base per un cocktail. Heidrun si era presa l'ingrato ma necessario compito di prenderli a calci finché non realizzavano che pagare un caipirinha ad una donna, non li rendeva liberi di toccare quel che non era loro. Quindi si sarebbe nuovamente rattristata, avrebbe cominciato a mandare drunk text ad Amos e Murphy, avrebbe chiamato Jade, e si sarebbe sorbita gli affettuosi insulti della lumocineta per aver svegliato Uran, la voce offesa di Euge in sottofondo a chiederle se era andata di nuovo a bere senza di lui.
    Che vita di stenti.
    «devi avermi di nuovo confusa con la nuova badante, price: brutto l'Alzheimer» gli aveva sorriso, ignorando la stretta al petto nell'incrociare i seriosi occhi chiari di lui. Non era difficile vederlo con quel cipiglio, non ne aveva molti altri nel suo arsenale, ma c'era qualcosa di più... caldo, quella sera.
    Più umano.
    «sai che giorno è oggi?» una domanda trabocchetto? Voleva assicurarsi che non fosse lei, quella con la demenza? Si era inumidita le labbra, il busto piegato in avanti. «si, e tu?» aveva ribattuto cauta, un primo principio di panico a solleticarle la lingua. Per tutta risposta, il signor Price aveva sputato un grumo di catarro e saliva sul marciapiede, le mani a scivolare abili sulle ruote per trascinarsi al suo fianco. «è il compleanno di - coso, lì» Come faceva a saperlo. Si era irrigidita istintivamente, la guancia torturata dai denti. Non aveva risposto - che senso avrebbe avuto?
    Lo sapeva perfettamente, Heidrun, che era il compleanno di Gemes Hamilton.
    Come sapeva che non avrebbe dovuto più importarle. «sono vecchio, non deficiente. Per quello ci sei già tu» aw. Un sorriso le aveva increspato spontaneo le labbra, gli occhi alzati benevoli al cielo sopra di loro. Aveva stretto la bocca attorno al filtro della sigaretta, la mano allungata poi al proprio fianco per offrire un tiro al suo partner in crime. «oggi non mi avevi ancora spaccato le palle» il modo più carino che conosceva per dirle che aveva notato qualcosa di strano nel suo comportamento.
    Senza alcun motivo specifico, Run aveva sentito gli occhi pungerle di lacrime, e la gola stringersi in una morsa ferrea. Poteva porre fine alla vita di un uomo con un cucchiaio da zuppa, eppure le veniva da piangere quando un vecchio di merda si preoccupava per lei.
    Cosa non andava, in Heidrun Ryder Crane.
    Aveva abbassato lo sguardo sulle proprie mani celando in una bassa risata un colpo di tosse, la gola secca a grattare fastidiosa.
    «non ho intenzione di fare cazzate» mentì. Una donna poteva ancora permettersi di avere intenzioni senza poi concretizzarle, giusto? Altrimenti, lei e Justin Timberlake avevano un problema. «sei ancora qui, imbecille, quindi non mi pare proprio» forse avevano un diverso concetto di cazzate. Forse Run non aveva colto a cosa il Signor Price si riferisse; forse lui non aveva capito le dinamiche della storia.
    Forse non aveva compreso cos'erano Run e Gemes. Cosa non erano. Aveva taciuto una manciata di secondi, le labbra strette fra i denti. «ti hanno aumentato il dosaggio degli psicofarmaci?» «vaffanculo, ranma» la chiamava sempre così, simpatico appellativo da aggiungere in lista sotto Heidi. Aveva atteso che fosse lui a rompere il silenzio, ben decisa a non farlo per prima; non credeva che l'avesse mai ascoltata, in quei mesi. Non aveva creduto gli fosse mai importato. Lui, per una volta, l'aveva accontentata: le aveva narrato di una donna, di un amore. Di un matrimonio che gli aveva spezzato il cuore («quindi è certificato che tu ne abbia avuto uno?» «sei lo scherzo meno divertente che tua madre potesse fare al mondo») perché Lei aveva scelto un altro, di un figlio che non aveva saputo di avere finché non era stato troppo tardi. Eppure aveva mantenuto un tono neutro, apatico. Non erano loro, il morale della sua storia. «sto parlando di rimpianti, ranma» quella parola dal retrogusto sempre amaro e tagliente, affilato e secco. «e qual è il tuo?»
    Le aveva detto solo un nome: Meredith.

    Le palpebre pesanti, gli arti leggeri. Run raccolse le lenzuola per stringersele al petto, la testa nascosta sotto al cuscino. Aprì un occhio, un sorriso pigro sulle labbra: solamente lei, Cristo, poteva sognare di dormire. Soffrire di insonnia aveva avuto un grave impatto sulla sua psiche. Un movimento alla sua sinistra fece rimbalzare come un budino la sua parte di letto - un materasso ad acqua!- ed un moto di terrore le strinse il cuore in una morsa gelida. Non di nuovo. Svegliati, Run.
    Deglutì e serrò le palpebre. Forse, se si fosse riaddormentata, si sarebbe svegliata a casa propria, da sola. Cercò di rimanere immobile, ma un braccio calò pesante e poco aggraziato sulla sua schiena strappandole ossigeno in un grugnito. Prese la mano intrusa nella propria, e la osservò; sapeva cosa avrebbe visto se si fosse voltata: labbra morbide sempre curvate in un sorriso beffardo, spessi capelli corvini, occhi azzurri come un cielo d'ottobre. Un moto di sollievo le ammorbidì il battito, mentre rotolava per avvolgere un braccio attorno alla vita dell'uomo, la testa incavata sulla sua spalla. «ho sempre voluto un materasso ad acqua» lui battè il pugno sul letto facendoli ondeggiare entrambi. «SEMBRA UN ENORME GELATINA» «sai che... potrebbe esserlo?» Si sollevarono su un gomito, ambedue ad osservarsi intorno. C'era cibo ovunque. Così tanto che v'era perfino un onirica Murphy, in lontananza, a nuotare fra centinaia di pizze.
    Ecco cosa succedeva quando si andava a dormire affamati. «HEIDI, È DAVVERO GELATINA»
    «EUGE SMETTILA DI LECCARE IL CUSCINO» tirò un coppino alla nuca del Jackson, prima di aggrapparsi a lui come lo zaino di Dora l'esploratrice. «Cristo, Run. ma mangiate, a Londra?» beh. Quasi sempre valeva come risposta? Decise che sarebbe stato più saggio non replicare nulla. «guarda euge,» raccolse qualcosa, e lo usò per iniziare a schiaffeggiare il Pavor. «ho una coda» ebbene sì: non solo si trovavano in un sogno fatto di leccornie, ma Run era anche una sirena. Se non avesse percepito un nauseante vuoto allo stomaco, sarebbe stato il sogno più bello della sua vita. «perché io no????» Eugene la guardò offeso, gli occhi feriti a guizzare dalle proprie gambe alla coda di pesce della Crane. Lei fece spallucce, un sorriso tirato a piegare gli angoli della bocca.
    Per ripicca, Eugene iniziò a leccare il paralume della lampada sul comodino. C'era un motivo se Run lo amava. Lo sguardo della mimetica si fece più distante e triste, l'ambiente attorno a loro a risentirne - la luce a farsi più soffusa, il freddo a premere sulle pareti di una stanza oramai quasi claustrofobica. «Run?» non rispose, le labbra strette fra i denti. Sentiva il cuore pulsare denso nel petto, ogni battito uno strappo alle vene. Il sollievo provato nel trovare Eugene anziché l'Hamilton, divenne lento masticare le ossa, sapore ferroso sulla lingua e sul palato. Avrebbe risparmiato così tanta sé stessa, Heidrun Crane, se avesse potuto amare qualcuno come
    Eugene Jackson. Più naturale e spontaneo, più semplice in quell'affine adorabile idiozia che li aveva legati dal primo momento. Meno catastrofico. Sollevò le iridi muschio sul Pavor, un sospiro ad appesantire gli angoli della bocca.
    Avrebbe voluto dirgli che era triste, un po' per tutto ed un po' per niente. Che vivere nel mondo babbano era più complesso del previsto; che non era brava a fingere di essere normale; che quel mondo, non faceva per lei. Che aveva fatto una cazzata. Che le mancava così tanto qualcuno che non avrebbe dovuto mancarle, e non ne aveva alcun motivo. Che si sentiva terribilmente stupida e, Dio, patetica; che erano passati quasi sei mesi, eppure le parole ingoiate su quel tetto ancora le bruciavano in gola: per favore, non andare.
    Ma non ce la fece, Run. Non ci riusciva mai - non con lui, con la sua famiglia. Quel peso rimaneva impigliato nell'angolo dei ferini occhi verdi incapace di prendere forma, deglutito poi insieme alla saliva in un brillante sorriso. «se domani vi va di passare, vi preparo i pancake» arcuò le sopracciglia allusiva, una proposta che nessuno poteva rifiutare.
    Se le rispose, non lo seppe mai: il telefono cominciò a squillare strappandola dal sogno e da Euge, palpebre a sbattere pigre alla luce pomeridiana di quel due Dicembre. Giunse al telefono a tentoni, le dita a stringersi a qualunque oggetto sul loro percorso, prima di arrivare a quello desiderato. Avrebbe dovuto capire dal modo in cui insistente suonava, sfibrandole i timpani, che non avrebbe dovuto rispondere. Avrebbe dovuto dare più ascolto al proprio istinto, assecondare la stretta ai polmoni quando prese infine il cellulare, un numero sconosciuto sul display. «pronto?» sentì rumore di fogli dall'altra parte della cornetta, prima che qualcuno si schiarisse la voce. «signorina crane?» rotolò lentamente supina ignorando il cuore sulla lingua, sopracciglia corrugate al soffitto. «il signor edmund ha segnalato il suo numero per le emergenze» edmund? «e?» magari era qualcuno dalla riabilitazione - a volte tenevano il suo numero per flirtare, altre per farsi andare a recuperare dopo un overdose. Si, aveva (fallito) lavorato anche lì.
    «sono spiacente di informarla che questa notte il paziente ha avuto un infarto. Sono stata incaricata di contattare i parenti più stretti, ma c'è solamente lei in elenco - è per caso sua figlia? Le ha lasciato una lettera. Può venire a ritirarla insieme agli effetti personali di Edmund». Forse stava ancora sognando. Tolse il telefono dall'orecchio per controllare l'ora sul display.
    «non vorrei sembrare indiscreta, ma chi è Edmund?» la donna si schiarì la voce imbarazzata, altri fogli a frusciare attraverso la linea. «edmund price. Non è la signorina ranma crane?»

    Bussò malgrado la porta fosse già aperta, la spalla poggiata contro la cornice dell'entrata. Non era decisamente vestita per quell'inizio di dicembre, le lunghe gambe bronzee coperte solamente da sottili collant a rete e pantaloncini di jeans, ma nascosta dietro la spessa giacca militare, non sentiva alcun freddo.
    Probabilmente anche in bikini, quel giorno, non avrebbe sentito freddo.
    Non che la sua, in ogni caso, fosse una scelta estetica: più tardi avrebbe dovuto andare al lavoro, e quella era la sua divisa ufficiale.
    «sì, un secondo e - oh. OH OH.» malgrado Stiles fosse la madre del suo adorato nipotino Obi, nonché l'amore platonico di Murphy e il padre di uno dei marshmallow più morbidi sulla faccia della terra, restava l'incognita più oscura di tutti i fremelli, per la Crane. Lo vide spalancare gli occhi scuri, le mani a palmo aperto verso di lei mentre si spingeva indietro sulla poltrona girevole. «NON MI PICCHIARE TE LE DO SUBITO UN SEK EH» Sospirò mostrandosi innocua, anche se entrambi sapevano quanto fallace fosse quella maschera. Malfidato: uno non poteva usare della gentile persuasione una volta, che subito veniva etichettato come bullo. «vengo in pace,» asserì, un cauto passo all'interno dell'ufficio.
    La scelta degli psicomaghi era assai limitata, se eri una Heidrun Ryder Crane: fatta eccezione per Stiles, erano tutti special - ed il loro potere tendeva a disturbarla. Inoltre, uno era suo zio, una era una medium, e l'altro l'aveva rapito e portato nei laboratori.
    Stiles non sarebbe stata la sua prima opzione, se non fosse stato l'unico possibile.
    «è per una questione...» si inumidì le labbra, lo sguardo di lui a seguirla nervoso. «personale.» il Tassorosso scattò all'indietro così rapidamente da scivolare dalla poltrona e rotolare a terra. «personale? Cosa vuol dire personale. Cosa intendi. QUANTO DA UNO A DIECI» era sempre stato un ragazzo particolare, non avrebbe dovuto stupirsene più.
    Ed invece, sopracciglia corrugate e labbra dischiuse, non poté impedirsi di guardarlo allibita.
    «boh, otto? Dieci? Che domanda è» fece spallucce, la testa reclinata verso destra.
    «stiles, sei ubriaco?» «non vedo come la domanda possa essere pertinente con l'argomento in esame - non troppo, comunque. Per inciso. Non dirlo ai fremelli» oh, Cristo Santo. Lo vide infilare le dita nel colletto del camice, un pallore malsano sul viso ovale. «hai dieci minuti?» domandò, pur sapendo li avesse. Lui abbassò gli angoli della bocca iniziando a gesticolare. «meh. Boh. Dipende. RICORDAMI QUANTO PERSONALE no guarda, se aspetti fra poco arriva idem, io-»
    «cercavo te, stiles» «davvero non me la - PERCHÉ CERCAVI ME NON VOGLIO PARLARE» Heidrun si guardò attorno confusa, le palpebre socchiuse. Aveva litigato con Murphy? Si era perso Obi? Era Todd?
    Era un testimone scomodo di un importante vicenda politica? In un altro contesto, un altro giorno, sarebbe stata la prima ad indagare, curiosa di natura e ficcanaso per hobby - non quel giorno.
    «ti è mai passato per il cervello che, te la butto lì, sia qui, nel tuo ufficio al San Mungo, per una seduta non avrebbe voluto essere così rude, gli occhi chiusi a calibrare con lentezza ogni parola sgusciata fra i denti, ma andiamo: era stata una giornata di merda, era di umore di merda, e non aveva alcuna intenzione di placare le paranoie prive di senso di un ragazzino semi ubriaco che aveva il terrore anche della sua stessa fottuta ombra. «mh, no» «cristo.» sbuffò amara, le dita a coprirsi parte del viso. Rimpianse ogni scelta di vita che aveva cooperato per portarla lì, quell'esatto momento di un'inesatta esistenza. «i nostri precedenti in questo ufficio includono esclusivamente botte in cerca di pasticche, o squadre mistiche ed improvvisate di boy scout: sks tanto, se sono scettico» l'aveva pure offeso.
    Incredibile.
    Rimasero a squadrarsi senza dire nulla, il cuore della mimetica un eco distorto dietro le costole.
    «è morto un mio amico» ruppe il silenzio, gli occhi a languire distratti sugli oggetti presenti nel piccolo ufficio. «non -» deglutì, i pugni blandamente stretti.
    Non si era resa conto fosse un suo amico, finché non era morto. Non si era accorta della certezza che era diventato nella sua vita, o di quanto avesse bisogno di quelle ore a parlare di tutto - ed a farlo per davvero.
    Non era pronta.
    Non capiva.
    Non c'era stato alcun attacco, nessun nemico da sconfiggere eccetto il tempo: nel mondo della Crane non c'era posto per quel tipo di morte.
    Non poteva accettare che se ne fosse andato così, senza che nessuno se ne rendesse conto. Non una mano a stringere la sua, non un sorriso, una lacrima.
    Da solo.
    Lanciò la lettera sulla scrivania di Stiles, le dita di lui a sfiorare la carta. «non volevo farlo da sola» dondolò nervosamente sui talloni, lo stomaco a bruciare di quel testardo orgoglio disperato. «perché sei qui?»
    «te l'ho appena detto» Stilinski arcuò un sopracciglio senza guardarla, labbra verso il basso ed uno sguardo meticolosamente assorto che lo faceva apparire quasi normale. «no, hai detto che non volevi farlo da sola» non si era neanche accorta di essersi seduta, i gomiti a premere sulle gambe. «appunto» ribattè senza comprendere, unghie a ticchettare nervose fra loro. Stiles sollevò le iridi caramello su di lei; come potesse essere così uguale e così diverso da Xav o Jayson, non l'avrebbe mai compreso. E per la prima volta da due anni a quella parte in cui lo conosceva, Heidrun si sentì a disagio. «hai ancora problemi a dormire?» l'interrogativo fu così inaspettato, che pur non comprendendone l'utilità, si ritrovò a rispondere.
    Annuì piano.
    «incubi o insonnia?» si inumidì le labbra, il palato secco. Stanze bianche con la scritta Gamma ripetuta all'infinito; labirinti privi d'uscita; bambine dagli occhi verdi ed i capelli color del grano a sorriderle con un buco in testa.
    E dita a premere sui fianchi, a scivolare sulla schiena e fra i capelli, respiro caldo sulla pelle e labbra morbide sul collo. Non tutti gli incubi avevano le zanne. «ti ho detto che è morto un mio amico, non vedo come questo possa c'entrare qualcosa» «ne hai parlato con qualcuno?»
    «lo sto facendo» «run» inspirò dalle narici, le palpebre febbrilmente serrate. «lo sto facendo» ripeté ancora, i denti a masticare la lingua. Non sapeva affrontare i problemi, Run: o li estirpava, o li ricopriva di colla a caldo e glitter. Se non poteva incazzarsi e non poteva riderne, non aveva un cazzo d'altro da fare.
    Quindi si incazzò.
    «perché sei qui?»
    «stiles...» un primo avvertimento a vibrare sulla lingua, il ringhio di un felino poco addomesticato. Ignorarono entrambi il tremolio alle spalle, quella bomba di carta pronta ad esplodere sbattondesene il cazzo di chi sarebbe rimasto vittima - sé stessa compresa.
    «avresti potuto andare ovunque, e invece sei venuta qui»
    «stiles» aveva smesso di essere avvertimento per divenire velata minaccia. Voleva solamente che rimanesse silenziosamente al suo fianco mentre ignorava le parole di Price, non aveva previsto quell'interrogatorio. Non lo voleva.
    E allora perché non se ne andava?
    «va bene, ti dico la mia opinione: hai paura che nessuno ti accetterà se non sarai sempre arcobaleni e glassa colorata; sindrome dell'abbandono, oserei dire. Hai vissuto diverse esperienze traumatiche ma non le hai mai affrontate, se non in maniera fisica - come mi suggeriscono i lividi scuri sulle gambe. Tuo padre ha avuto un figlio, i tuoi amici hanno avuto un figlio, e tu non sai più come incastrarti nel quadro generale, e temi che possano preferire la loro nuova vita a te.» tacquero entrambi, lui a guardarla e lei ad evitarlo.
    Svuotò i polmoni.
    Si alzò in piedi con il petto in fiamme e la guance arrossate, la sedia calciata alle proprie spalle. Con un unico movimento del braccio fece cadere ogni oggetto sulla scrivania, brutale e meticolosa, prima di saltare dall'altra parte della scrivania ed afferrare il ragazzo dalla maglia. Lo sollevò di peso per sbatterlo contro il muro, le dita attorcigliate sulla divisa da psicomago, un gomito contro lo sterno. «non sai un cazzo.» la voce appena un sussurro, labbra a muoversi lente e cadenzate per trattenere nei denti il grido frustrato e disarticolato di una rabbia priva di capro espiatorio se non sé stessa. «hai pianto?» Stilinski balzava dalla sedia quanto entrava inoffensiva nel suo ufficio, e poi non batteva ciglio quando lo appendeva al muro a ringhiare piano dove la carne era più tenera.
    «non sai un cazzo» ripeté, deglutendo veloce saliva e tristi scelte di vita.
    Meno rabbia, più incerta supplica.
    «è okay piangere»
    Lo era?
    «il signor Price è morto» non l'aveva ancora detto ad alta voce.
    Non l'aveva ancora detto neanche a sé stessa.
    «mi dispiace» la stretta si addolcì, il braccio solamente poggiato sul busto del Tassorosso. Annuì e basta respirando frettolosa. «la puoi tenere tu? La lettera. Non voglio leggerla» gli occhi verdi una tacita preghiera, la vista offuscata e le parole sputate fra un vuoto d'aria e l'altro. «non mi piace piangere» disse, mentre la prima lacrima scivolava dalle ciglia scure. «non lo dirò a nessuno»

    Avrebbe voluto che chiudere gli occhi bastasse a togliersi quell'immagine dalla mente, che sarebbe bastato non vederlo per ignorarne la presenza sul pianerottolo. Avrebbe voluto fosse più semplice, Run - tutto quanto.
    Non lo era mai.
    Avrebbe voluto che sei mesi fossero stati abbastanza per dimenticare, andare avanti. Perché il cuore imparasse a battere da sé anziché seguire il suo; perché quel fottuto muscolo trovasse abbastanza amor proprio da smetterla di accelerare quando credeva di averlo visto, quando pensava di averne sentito il profumo.
    Heidrun Ryder Crane avrebbe voluto essere meglio, di così.
    Non lo era.
    Avrebbe voluto avergli dato ascolto e non averlo fatto, dimenticarsi di essere stata Gamma - una vita prima, letteralmente.
    Avrebbe voluto che non fosse lui, quello poggiato distrattamente sulla sua porta. Anche se non avesse riconosciuto il potere a solleticarle la pelle, anche se non avesse parlato, Run avrebbe saputo che era di lui, che si trattava.
    Avrebbe voluto fosse più difficile riconoscerlo. Avrebbe voluto che non le facesse, ancora e sempre, quell'effetto.
    Deglutì, una spalla a premere contro il muro.
    Avrebbe voluto non essere lei, quella nel corridoio a studiare il profilo scarsamente illuminato di Gemes Hamilton.
    Il respiro di lui pesante, le palpebre serrate. Ogni movimento sembrava costargli più sforzi del necessario, le sopracciglia corrugate. La voce rimbalzava come un eco nel corridoio, trascinando fra denti e lingua una sola parola - sempre la stessa.
    Non aveva mai pensato che il proprio nome potesse suonare come una maledizione, finché Gemes non l'aveva pronunciato per la prima volta due anni prima. Cinque lettere di offensivo scherno.
    Sempre, dalla prima volta.
    Tutto, dalla prima volta: i brividi a scivolare lungo la spina dorsale, l'incapacità di reggere a lungo il suo sguardo, il sorriso spontaneo quando non la guardava. L'odio che odio non era mai stato.
    Run si morse l'interno della guancia, le palpebre socchiuse. Ogni colpo contro la porta lo sentiva sulla pelle, ogni sibilo fra i capelli.
    Non ebbe bisogno di avvicinarsi, per sapere che fosse ubriaco. E lo odiò, pur sapendo che era anche colpa sua, se aveva assunto quell'addizione; lo odiò perché da sobrio non sarebbe mai andato a bussare alla sua porta.
    Lo odiò perché non era lui, e qualunque cosa avesse potuto dire non sarebbe stata lui: se era lì per insultarla, pretendeva almeno che lo facesse coscienziosamente. L'avrebbe accettato, Heidrun.
    Di quel Gemes, non sapeva cosa farsene.
    Sapeva per esperienza che da sbronzi si facevano scelte di vita discutibili. Così strinse i denti, rimanendo semplicemente a guardarlo: perché erano passati sei mesi, ma non aveva alcuna intenzione di essere la sua scelta discutibile. Di tempo per vendicarsi, ne aveva avuto abbastanza.
    Perché era lì?
    Perché rendere tutto più difficile?
    Lo guardò un'ultima volta approfittando del fatto che lui non si fosse accorto della sua presenza, le dita a prudere dal bisogno di prenderlo a pugni o stringerlo a sé.
    «stronzo.» ringhiò in un sussurro ingoiato dall'ennesimo colpo alla porta, fingendo che la voce roca fosse dovuta alla rabbia.
    In parte, dopotutto, era davvero così.
    Perché doveva fare così male?
    Non lo vedeva dal funerale, esattamente cinque mesi prima. Non lo vedeva da quando Lancaster, il sorriso fresco e lo sguardo antico, non le aveva detto: l’amore, santo cielo. L’amore. Come se fosse stato ovvio.
    Non era colpa sua, se nessuno gliel'aveva mai detto.
    Se possibile, se plausibile, aveva odiato Gemes Hamilton ancora di più: perché le aveva detto che era colpa sua, quando sua non lo era stata mai. Era stato lui a rendere complessa quell'equazione. Era stato lui ad uscire dagli schemi.
    Era stato lui, l'imprevisto.
    Non sarebbe stato così difficile, se lui non la avesse amata. L'avrebbe preferito, Run. Era quel triste genere di persona che preferiva soffrire come un cane, piuttosto che far del male alle persone a cui teneva - quella brutta razza che s'era estinta, perché quelli come lei morivano giovani.
    Perché lei, era morta giovane.
    Così in quei cinque mesi l'aveva odiato, perché era stato più facile. Così in quei cinque mesi aveva provato ad odiarlo, perché avrebbe reso tutto più facile. Aveva ignorato le gambe a spingerla verso quella fottuto villa; aveva obbligato Al ed Amos ad andare da lei, piuttosto che raggiungerli alla dimora: sono stanca; meh; qua è più comodo. Aveva imposto il nome di Gemes Hamilton come tabù generale, senza una vera spiegazione.
    Non voleva parlarne, perché non c'era niente da dire. Non voleva parlarne, perché faceva ancora troppo male. E non era colpa di nessuno, se erano entrambi troppo sbagliati - neanche di Gemes, neanche di Run.
    Era così e basta.
    Alcuni funzionavano comunque, altri venivano montati con pezzi di ricambio da principio: partivano rotti, e non potevi sostituirli.
    Spero il tuo cuore sia più leggero, dopo questa confessione.
    Un palloncino d'elio.
    «sono io, sono io - Gesù» alzò le mani mostrandosi disarmata prima che i suoi fratelli la catalogassero come intrusa e cominciassero a prenderla a mazzate, quando si teletrasportò all'interno dell'appartamento. Una risata isterica brillò negli occhi verdi della Crane, nel momento in cui venne riconosciuta e Todd sospirò sollevato, la padella aka improvvisata arma contundente a scivolare sul tappeto. «RUN» sorrise al Corvonero agitando debolmente la mano. «abbiamo ospiti» Jeremy, una spalla contro lo stipite, indicò pigramente la porta d'entrata.
    Non mi dire.
    Run fece spallucce sfilandosi la t-shirt della divisa, i piedi già diretti al frigo. «si stancherà, e se ne andrà.» non guardò nessuno dei due mentre prendeva possesso del cartone di latte versandolo direttamente in bocca: chi aveva bisogno di oggetti vili come i bicchieri. «Run...»
    «vado a farmi la doccia, voi andate pure a dormire» deglutì, si tolse anche le scarpe. Todd fece per aprire bocca, ma un'occhiataccia di Jeremy lo mise a tacere.
    Finse di non averci fatto caso.
    «com'è andato il primo giorno? Ti hanno già segato?» «sei sbronzo?» il Tassorosso si strinse nelle spalle. «non più del solito» bene, ma non benissimo. «non ancora» rispose con un mezzo sorriso, ignorando la prima domanda. «i pattini sono abbastanza comodi» si, tutte le cameriere avevano pattini a rotelle.
    Non gli aveva detto il perché fra tutti i locali avesse scelto quello.
    E non gli disse neanche dei disegni con il ketchup sui piatti, delle dosi troppo abbondanti di patatine servite con un sorriso agrodolce.
    Tolse un foglio dalla tasca posteriore dei jeans, e lo attaccò al frigorifero con una delle decine di calamite che ivi campeggiavano con orgoglio, prima di sfilarsi anche quell'indumento e rimanere solamente in reggiseno e calze a rete. Vorrei dire che normalmente in casa con i propri fratelli non vestisse così, ma.
    Ma, insomma. Era pur sempre Heidrun Ryder Crane, e loro erano abituati, ormai. «che roba è?» «era il compleanno di una bambina, mi ha fatto un ritratto» un sorriso stanco, distratto.
    Intoccabile ma sempre toccato.
    «cartolina? Me-rendina?» non ebbe bisogno di girarsi per sapere che il dito di Todd stava seguendo la stropicciata firma all'angolo del disegno. Biasimò alla stanchezza il vuoto allo stomaco, reprimendo un brivido quando il suo nome giunse dall'altra parte della porta d'entrata.
    Si sarebbe stancato, e se ne sarebbe andato.
    «meredith» corresse in un sussurro, le spalle verso di loro. «c'è scritto meredith» prima di entrare nella doccia.
    Tenne il getto aperto per coprire i suoni.
    Tenne l'acqua calda per bruciarsi la pelle, sperando che un poco di quel fuoco giungesse alle ossa.
    Non capiva come le persone riuscissero ad andare sempre avanti, quando per lei ogni respiro era un traguardo.
    Non capiva perché malgrado l'acqua e malgrado il cuore a battere frenetico, non riuscisse ad ignorare la voce di Gemes. Se la sentiva arrampicare sulla pelle, dopo tutti i mesi in cui il tono morbido e basso dell'Hamilton le aveva ripetuto, finito ed all'infinito, goditi la vita, run: ti auguro il peggio.
    Poteva essere passato solo un giorno, per quanto la memoria di quella notte era ancora limpida e concreta sotto i polpastrelli.
    Fin troppo. Sempre poco.
    Uscì dalla doccia in punta di piedi, sperando che quei dieci minuti fossero state ore - che Gemes se ne fosse andato davvero, togliendoli entrambi da un impiccio senza vie di fuga.
    Perché lui, almeno, la scusa dell'alcool la aveva. Qual era quella di Run?
    Voleva solamente infilarsi sotto le coperte e fingere che quella giornata non fosse mai esistita.
    E sapeva già, Run, che non l'avrebbe fatto. Infilò una maglia di diverse taglie più grande della sua (probabilmente di Jade: la Beech amava le maglie extra large, ma talvolta tendeva a dimenticare di essere alta un metro e riposa in pace - quindi la mimetica se ne appropriava: si scriveva prestiti, si leggeva regali), già un passo avanti rispetto a come dormiva solitamente; i capelli umidi e disordinati sulle spalle, occhiaie violacee che ben si abbinavano al verde opaco delle iridi.
    Con un'unica, pertinente, descrizione, universitaria in sessione esami.
    Appoggiò i palmi e la fronte alla porta sentendola vibrare sulla carne, consapevole che v'erano solamente pochi centimetri di legno a dividerla da Gemes.
    Troppo pochi, o semplicemente troppi.
    Chiuse gli occhi. Finse di respirare.
    Aprì la porta, il capo chino ad arrampicarsi lento dai piedi del telecineta - il tempo di indossare il sorriso migliore del repertorio, quello che sembrava ridere sempre di tutti ma lo faceva solo di sé stessa. «dopo l'ultima volta pensavo avessi imparato che non si bussa alla porta del lupo cattivo, cappuccetto rosso» salutò i vicini con uno sfarfallare lento delle dita.
    Per un po' ci provò, Run, a non cercare gli occhi blu di Gemes. Rimase di fronte a lui con una spalla sulla porta, le braccia incrociate sul petto e le labbra piegate in una smorfia.
    Ma ci ricadeva sempre. Ed allora smise di sorridere, o di fingere che fosse semplice.
    «non finisce mai bene»
    Retrocedette di un passo, e di un altro ancora.
    «in frigo c'è dell'acqua.» glielo indicò con un pigro cenno del capo, evitando accuratamente di incrociarne ancora lo sguardo, mentre già percorreva il corridoio per tornare in camera. Non era così stronza da sbattergli la porta in faccia quando chiaramente non era in sé. Anche se non erano Gemes e Run, erano pur sempre Gemes e Run e Eugene.
    Ma non era neanche così stupida da rimanere.
    Poteva stare lì quanto voleva, lui: non significava che lei dovesse fare lo stesso.

    more bitch than milko
    21 y.o. | death eater
    mimesis | tequila
    unhelpful yoda
    She is messy, but she's kind
    She is good, but she lies
     
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